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domenica 12 gennaio 2025

3 (atti) in 1 (potenza)

Questo mese sono usciti tanti interessanti nuovi set della Lego. Da un po', poi, i set della serie Creator 3 in 1 sono particolarmente belli, migliorati rispetto al passato mi sembra, e soprattutto rendono difficile scegliere quale opzione costruire, quale forma - tra le tre disponibili - dare ai mattoncini, in quale attualità trasformare la loro potenzialità - per scomodare un po' di lessico à la Aristotele.

Nell'ultimo acquisto di questo mese abbiamo preso tre set di tale serie - e in omaggio è arrivato anche un piccolo tucano (o pinguino, o pesce).

Uno non lo ho ancora montato, perché ancora non mi è chiaro quale atto generare dalla potenza dei mattoncini contenuti nella sua scatola.

Due, invece, li ho montati guardando la nuova miniserie televisiva Leopardi. Il poeta dell'infinito, liberamente ispirata alla vita di Giacomo Leopardi.

Si tratta della macchina da scrivere con fiori, i cui mattoncini rosa potevano in alternativa originare una decorazione musicale consistente in una keytar giocattolo con supporto floreale, oppure un vaso di fiori con penna e quaderno. Questa ha trovato collocazione in casa nello scaffale di critica letteraria dedicato a Umberto Eco.


E poi del gatto giocoso, completo di gomitolo di lana, ciotola del cibo e topolino - in questo caso si poteva costruire alternativamente un cane oppure un piccione -, costruzione che è finita invece nello scaffale della libreria dedicato a romanzi e testi sui gatti.

Questi ultimi set si aggiungono alla fotocamera retrò, al gufo della foresta, al pappagallo esotico, all'ukulele tropicale, all'innaffiatoio con fiori, alla giraffa del safari, alla tigre maestosa, al pattino a rotelle retrò, alla casetta per gli uccelli, al saggio gufo che legge una storia al riccio nella foresta fantasy. Solo per citare i set della serie Creator 3 in 1.



domenica 5 gennaio 2025

(re)iniziare da tolkien

I primi due libri letti quest'anno - anno per il quale ho posto l'obiettivo della mia reading challenge di Goodreads a 104 libri in un anno, stante che nel 2024 sono riuscito a leggerne 138 e che i 104 li avevo raggiunti o superati anche nel 2021 e nel 2022 - sono stati due romanzi di J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion e I figli di Húrin.

Con Tolkien cominciai nell'estate tra la seconda e la terza superiore - quindi a 16 anni, quindi quasi 30 anni fa - durante la quale lessi Il Signore degli anelli. Rilessi la saga negli anni dell'università, insieme a Il Silmarillion e Lo Hobbit. E poi ne feci una terza lettura nel 2020, quando consigliandolo a un mio studente in cerca di epicità scelsi di (ri)fare quel viaggio della compagnia, attraverso le due torri e fino al ritorno del re con lui.
Ora ho riletto per la seconda volta la storia che dalla musica degli Ainur arriva agli anelli del potere e alla Terza Età. Il pretesto per tale rilettura è stato il prossimo incontro del gruppo di lettura che faremo a scuola a febbraio, e che avrà per tema su cui confrontarsi e scambiarsi consigli quello dell'albero. Certo, nella saga tolkieniana gli alberi rivestono un ruolo, a partire appunto dall'inizio dei giorni, momento dal quale il destino dei due alberi di Valinor diventano il perno di tutte le narrazioni. Con loro comincia anche il calcolo del tempo: Nel giro di sette ore, la gloria di ciascuno dei due alberi raggiungeva il pieno e svaniva nel nulla; e ciascuno tornava alla vita un'ora prima che l'altro cessasse di splendere. Sicché a Valinor due volte al giorno era una dolce ora di luce più tenue, quando entrambi gli alberi sbiadivano, e i loro raggi d'oro e d'argento si mescolavano.
Ma avevo voglia di tornare a leggere Tolkien, questa è la verità. Quando Eru, l'Uno, Ilùvatar, convoca gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, per cantare, Melkor tenta di sovrastare l'altra musica con la violenza della propria voce, ma si ha l'impressione che le sue note anche le più trionfanti fossero sussunte dal tema musicale di Eru e integrate nella sua propria, solenne struttura. Effettivamente, spiega l'Uno, nessun tema può essere eseguito, che non abbia la sua più remota fonte in lui, poiché colui che vi si provi non farà che comprovare di essere suo strumento nell'immaginare cose più meravigliose di quante egli abbia potuto immaginare.
Sembra la teodicea cristiana di Agostino, o quella laica di Hegel. Sembra il Mefistofele del Faust di Goethe, una forza che vuole perennemente il male e opera perennemente il bene.
Quando la musica è tradotta nella creazione di Arda, Ilùvatar parlando a Ulmo, che sarà il Valar signore delle acque, gli fa notare come Melkor abbia mosso guerra alla sua provincia, figurandosi crudi geli smodati, eppure non è riuscito a distruggere la bellezza delle sue sorgenti né quella dei suoi chiari stagni, piuttosto si è data la neve, e l'opera astuta del gelo; e neppure i calori e fuoco illimitati da lui adoperati hanno prosciugato né completamente zittito la musica del marepiuttosto sono nati l'altezza e la gloria delle nubi e delle brume sempre mutanti, il crosciare della pioggia sulla terraInvero l'acqua è ora divenuta più bella di quanto immaginasse il cuore di Ulmo, e in quelle nubi egli è più vicino che mai a Manwë - che sarà il signore del respiro di Arda, il cui diletto sono i venti e tutte le regioni dell'aria -, il suo amico, colui che egli ama.


Quella de I figli di Húrin è una storia già narrata, in forma molto più sintetica, nel Silmarillion. Vicenda di eroismo, di amicizia, di tragedia, di amore per la libertà sopra la vita: Lungo la via può attenderti la morte. Ma, se rimarrai, ti toccherà una fine peggiore: sarai schiavo. Se vuoi essere un uomo quando sarai in età adulta, farai come ti dico, e coraggiosamente.

Questo era il primo dei libri mensili a sorpresa della pila preparata per me da Simona, quello per gennaio.

Ultimo superstite rimase Húrin, il quale gettò lo scudo e afferrò un'ascia di un capitano degli Orchi e la brandì con entrambe le mani. Si cantava che l'arma fumasse del sangue nero delle guardie troll di Gothmog finché questa tutta si dissolse e, ogniqualvolta Húrin menava un colpo, gridava: "Aure entuluva! Il giorno risorgerà!". Settanta volte lanciò quel grido.

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un libro (a sorpresa) al mese

Simona ha avuto l'idea - ispirata da un post o un reel su un qualche social - di preparare una pila di dodici libri a sorpresa, lei per me e io per lei, da leggere, uno al mese, durante questo anno.
Si scelgono dodici libri, li si incarta, impacchetta o comunque cela dietro una carta con scritto il mese assegnato, e ogni trenta giorni si scopre cosa si leggerà.

Non si tratta di volumi acquistati per l'occasione, ma di libri già presenti in casa. Così, al piacere che sempre c'è in una sorpresa (quella di scartare il libro), si aggiunge quello di avere l'occasione (data dalla gentile costrizione del regalo) di leggere finalmente un libro che si era magari comprato anni fa, che si voleva leggere, ma che per una ragione o per l'altra, o per nessun motivo in realtà, non si era ancora letto, il piacere di riscoprire i libri che si hanno sugli scaffali delle proprie librerie domestiche.

Grazie, anche per questo.



domenica 10 aprile 2022

la femminilità, una trappola

Nella mitologia, nelle fiabe che leggiamo ai bambini, alla donna assegniamo sempre gli stessi ruoli. È Arianna abbandonata, Penelope al telaio, Andromeda incatenata. È Cenerentola, o la Bella addormentata nel bosco che attende di essere salvata dal Principe azzurro. È colei che attende, che può trovare il proprio posto nel mondo solo attraverso l’amore di un uomo. 
La bambina impara presto ad ammirare gli uomini, gli eroi tradizionali. Molto spesso prova solo pietà e disprezzo per la misera vita domestica di sua madre. Magnifica invece la personalità del padre: è lui a rappresentare la forza, il potere, una finestra sul mondo, sulla vita e sul futuro. La bambina desidera identificarsi con lui, e in questo modo riconosce e ammette la superiorità dell’uomo sulla donna che è destinata a diventare. Il desiderio di piacere agli altri è radicato in ogni bambino. I bambini amano sentirsi vivi. Giocando, sviluppano il senso dell’indipendenza, ma per loro è anche importante sentire di avere sopra la testa il tetto rassicurante dell’approvazione adulta. Il bambino maschio impara presto che, per guadagnarsi la stima degli adulti, non deve sforzarsi di compiacerli troppo. Dev’essere forte, autonomo, avventuroso, deve cercare di conquistare il mondo e dominare i compagni. La bambina invece è incoraggiata da genitori, insegnanti, amici, di fatto dal mondo intero, a sviluppare il suo potere di seduzione, a essere aggraziata, ben vestita, educata. Queste richieste le impediscono di godersi i piaceri del gioco, dello sport e dell’amicizia con la stessa spontaneità dei compagni maschi. Inizia a crearsi un circolo vizioso: più si conforma con docilità all’ideale che le è stato imposto, meno sviluppa le sue potenzialità personali e meno troverà delle risorse dentro di sé. È costantemente spinta a rivolgersi agli uomini, a cercare un aiuto esterno. Il suo senso di dipendenza e la sua debolezza aumentano. Il fatto che sia la prima a esserne convinta rende reale la sua inferiorità.
In questa prospettiva si spiega perché finora le donne abbiano raggiunto solo di rado quello che è comunemente chiamato genio. I geni sono creature eccezionali che in circostanze specifiche hanno osato ciò che nessuno aveva mai osato prima. Cosa che di per sé presuppone solitudine e fierezza. Presuppone che non si cerchi con ansia lo sguardo degli altri per capire se esso racchiuda approvazione o biasimo, ma che si guardi con coraggio verso orizzonti ancora insospettabili. L’educazione - il mondo intero, di fatto - insegna alle donne la timidezza.
Frivole o serie, le donne sono sempre ligie. In altre parole, accettano il mondo: il loro sforzo consiste solo nel cercare un posto su questa Terra. Le donne temono che perdendo questo senso di inferiorità possano perdere anche ciò che le valorizza agli occhi degli uomini: la femminilità. La donna che si sente femminile non osa partecipare alle attività politiche o intellettuali dell’uomo, né considerarsi una sua pari. Viceversa, se una donna si libera dal complesso d’inferiorità nei confronti degli uomini, se ha un brillante successo negli affari, nella vita sociale e professionale, spesso soffre di un complesso d’inferiorità nei confronti delle altre donne. Si sente meno affascinante, meno amabile, meno piacevole proprio perché priva di femminilità.
Sa che il successo non rappresenta un vantaggio agli occhi degli uomini, ma rischia anzi di allontanarli. L’uomo invece deve lottare a un solo livello. C’è una perfetta omogeneità nel modo in cui cerca di realizzare la propria personalità. Se ottiene potere nel mondo, prestigio agli occhi degli altri uomini, fierezza e sicurezza interiori, acquisisce al tempo stesso più virilità perché sono esattamente l’indipendenza e la forza le qualità che le donne si aspettano da un uomo. È questa la contraddizione che affligge molte donne oggi: o rinunciano in parte a realizzare la propria personalità, o rinunciano in parte al potere di seduzione sugli uomini. È un mondo maschile; sono gli uomini, con i loro desideri, le loro speranze, le loro paure, a creare le condizioni che le donne cercano di combattere nel proprio percorso di risalita.


[Simone de Beauvoir, La femminilità, una trappola]

mercoledì 30 marzo 2022

la nausea di sartre

Mentre nel tempo più classico del suo esistenzialismo esistenza e libertà costituiscono una coppia indissolubile di termini, in questo romanzo la nozione di esistenza appare disgiunta da quella di libertà. In primo piano al posto del pouvoir de néantisation, protagonista assoluto de L’essere e il nulla, c’è il carattere inerziale dell’esistenza. Mentre scrive La nausea Sartre non ha ancora messo a fuoco quel dualismo ontologico che separa dicotomicamente l’esistenza umana - il per sé - dall’esistenza inerte delle cose - l’in sé. La vita umana non appare nel romanzo del ‘38 come trascendenza, libertà, progetto. In primo piano è un fondo di ingiustificabilità del reale e della stessa presenza umana del mondo. Sicché, la fatticità non appare come una polarità, insieme a quella della trascendenza, ma si estende sino a pervadere integralmente il mondo precedendo e risucchiando all’indietro il movimento in avanti della trascendenza. L’esistenza appare come insuperabile. Il suo piano di immanenza si impone su quello della trascendenza del desiderio. La storia di questo romanzo è, dunque, la storia di una progressiva e paradossale rivelazione; la rivelazione del reale dell’esistenza. Perché l’esistenza è rimossa dalla nostra frequentazione abitudinaria del mondo. L’esistenza circonda, imprigiona, incatena, ma non la incontriamo mai; subisce un permanente processo di occultamento che nel romanzo assume la cifra della malafede di fondo che contraddistingue gli esseri umani.

Il reale informe dell’esistenza viene ricoperto dal quadro stabile della realtà, da un tempo omogeneo che torna sempre uguale a se stesso. Costanza, regolarità, continuità, stabilità. L’opposizione in gioco è quella tra il carattere difensivo della realtà e quello scabroso e indigeribile del reale, per fuggire di fronte allo scandalo della gratuità assoluta dell’esistenza. L’esperienza della Nausea svela invece l’impostura della malafede. Un reale di troppo, insensato, ingiustificato lacera la rappresentazione canonica del mondo. L’irruzione dell’esistenza fa cadere la maschera dell’Essere necessario rivelandone tutta la contingenza. È l’esperienza improvvisa e ingovernabile della Nausea a far cadere la maschera della malafede. Questa caduta è l’esito di una scossa che colpisce innanzitutto il corpo: urto, vertigine, smarrimento.

La Nausea sartriana rivela l’esistenza come bruta fatticità, protuberanza ingiustificata, superflua, contingente, di troppo. L’esistenza nel suo essere qui contingente sfugge ad ogni significazione coincidendo con la sua assoluta presenza, con il suo più puro e bruto être-là. In evidenza è qui la distinzione categoriale tra il quid sit e il quod sit - tra la quidditas e la quodditas - tra il che cosa è e il c’è dell’esistenza. Il c’è senza senso non può non evocare l’il y a dell’esistenza che in quegli stessi anni Lévinas pensa come campo neutro, brulichio informe, pura esistenza senza mondo. È il tema della prevalenza di una nozione di esistenza senza trascendenza, libertà, progetto, dell’esistenza come condizione priva di redenzione, senza vie di fuga, intrappolata, incatenata in un essere che è anteriore al mondo inteso come luogo della significazione.

Nella Nausea non si tratta però dell’angoscia che Sartre - seguendo Kierkegaard e Heidegger - definisce ne L’essere e il nulla come l’autopercezione riflessiva della nostra libertà, vincolata alla responsabilità di fronte al carattere sempre dilemmatico della scelta. Diversamente dall’angoscia che è in stretto rapporto con il campo aperto delle possibilità, con la libertà come fondamento infondato dell’esistenza, la Nausea è invece in rapporto con il reale impossibile dell’esistenza, con la sua fatticità. Sartre distingue chiaramente l’una dall’altra:

la percezione esistenziale della nostra fatticità è la Nausea, e l’apprensione esistenziale della nostra libertà, l’Angoscia.
Se l’angoscia kierkegaardiana e heideggeriana implicano la separazione, la perdita, il confronto con il nulla del proprio fondamento, la Nausea sartriana implica invece il sentirsi affondare nell’esistenza senza possibilità alcuna di separazione. Se l’angoscia è un’esperienza che ha al suo centro il rapporto dell’esistenza con la responsabilità della scelta che implica la possibilità permanente di fare un taglio netto col proprio passato, la Nausea appare piuttosto come un’esperienza di sprofondamento, di immersione, un segnale di intrappolamento nell’immanenza assoluta, irrelata, senza rapporto, dell’esistenza, segnala il ritorno dell’infanzia insuperabile dell’esistenza, mostra l’esistenza come il nucleo buio del soggetto che non si lascia mai metabolizzare integralmente dal simbolico, un passato traumatico che non si lascia dimenticare. La Nausea non è angoscia di fronte al nulla a fondamento della nostra libertà, né sorge dalla meraviglia di fronte all’essere, ma dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza. La Nausea non confronta, come accade per l’angoscia, il soggetto con la propria libertà - non rivela la trascendenza dell’esistenza - quanto con l’
assenza di libertà. Rivela la fatticità bruta di un’esistenza che si scopre come pura passività, inerzia, incatenamento. Non a caso Sartre avrebbe voluto intitolare il suo romanzo Melancholia a sottolineare come la condizione del soggetto nauseato evochi da vicino quella del soggetto malinconico: mentre nella paranoia il senso è dappertutto - nella paranoia tutto è diventato segno -, nella melanconia l’esistenza appare scissa dall’Essere, priva di ogni senso.


[Massimo Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio]

domenica 20 marzo 2022

esistenza, infanzia e desiderio

L'obiettivo che Massimo Recalcati si prefigge con il suo volume Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio è quello di correggere la versione stereotipata del soggetto sartriano come pura trascendenza della libertà, mostrando invece come il movimento più profondo del suo pensiero implica una concezione della soggettività come ripresa, assunzione retroattiva, soggettivazione di quello che il filosofo francese stesso definisce il carattere insuperabile e inassimilabile dell’infanzia.
Il soggetto, infatti, non è Sovrano, non è Sostanza, non è un Ego, e questo poiché, semplicemente, nessun soggetto può essere senza infanzia. La sua vocazione originaria non sorge dall’intenzionalità, non è, paradossalmente, una libera scelta del soggetto, ma proviene sempre, come direbbe Lacan, dal discorso dell’Altro. Il soggetto può certo guadagnare la sua singolarità, ma solo rimodellando incessantemente le tracce indelebili di questo discorso. Perciò, il Sartre più maturo dissolve l’idea di un’esistenza libera che precede ogni essenza, mostrando invece quanto l’esistenza si trovi da sempre sommersa, insabbiata, presa in circuiti di costrizione eterodiretti, inclusa nell’alienazione della storia, obbligata ad una passività di fondo costituita dalle marche traumatiche del desiderio degli Altri. Costituzione e personalizzazione scandiscono il rapporto necessario del soggetto con gli eventi contingenti della propria infanzia.
È allora possibile per il soggetto essere libero, se la sua vita è costituita dall’Altro? E come dobbiamo ripensare una libertà che non escluda il destino? Ancora, cosa significa scegliere la propria vita se la nostra prima vocazione è stata scelta dagli Altri? Cosa significa, insomma, pensare, come sostiene Sartre, l’infanzia al futuro?
L'interesse sartriano per l’infanzia è profondamente legato a quello nei confronti del processo di soggettivazione. L’infanzia viene infatti considerata un tempo originario dell’esistenza in cui l’evento della soggettività è preceduto dal discorso dell’Altro, anticipato come oggetto di questo discorso, costretto in una necessità profonda. Per questo l’infanzia viene descritta da Sartre come insuperabile, inassimilabile, un’opaca profondità che impone al processo di soggettivazione ritorni spiraliformi continui su di essa. Sono i resti indimenticabili, i traumi, le parole dell’Altro, le sue impronte a contrassegnare in modo indelebile ogni processo di soggettivazione. È qui che si gioca il destino del soggetto e la sua libertà di riuscire a fare qualcosa di ciò che lo si è reso.
Questa nozione di libertà come petit décalage (piccolo scarto) ci consegna una soggettività dai caratteri molto diversi da quella definita nell’ontologia esistenzialista de L’essere e il nulla come progetto e scelta.
È, secondo Recalcati, il grande tema dell’eredità. L’ereditare non come acquisizione passiva, ma come movimento in avanti, aperto sull’avvenire, riconquista, impegno a riscrivere le tracce già scritte nel nostro passato. È l’eredità come invenzione singolare che non può che generarsi come una conversione inedita e singolare della ripetizione che scaturisce dal nucleo opaco della nostra infanzia primordiale
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sabato 5 marzo 2022

nietzsche e l'antifilosofia [3]

Un argomento ancor più essenziale concernente la difficoltà d’interrogare il testo nietzscheano è che la causa centrale della sua impresa non è altro che Nietzsche stesso. È una singolarità filosofica davvero sorprendente. È Nietzsche stesso a trovarsi al cuore del proprio dispositivo in quanto principio di valutazione centrale della propria impresa. Vi si convoca da sé e chiama noi come testimoni. Non è soltanto un autore, ma è lui stesso un pezzo di testo, e un pezzo strategicamente centrale. Ricordatevi di quel
Nietzsche contra Wagner:
la follia può essere la maschera per un sapere infelice troppo certo.

Ciò che è depositato in questo enunciato come principio immanente alla propria valutazione è un regime della certezza soggettiva assoluta, una tensione del pensiero, un sapere troppo certo, un sapere in eccesso su se stesso tramite la propria tensione che vale come prova. È l’argomento centrale della disposizione del testo stesso, il testo nietzscheano è il depositario di un eccesso. Esso è ciò in cui tale eccesso si deposita e Nietzsche non ha nulla in contrario, in fondo, nel chiamarlo “follia”, nella misura in cui questa non è altro che la maschera di un sapere infelice troppo certo. Questo eccesso è una sovratensione della verità, una verità esposta nel regime di un’appropriazione così radicale o così tesa che essa è, di per sé, la propria esposizione provocante. Per quanto appassionato possa essere nella propria sincerità, Nietzsche è di quelli che sanno. “Conosco la mia sorte”, dice alla vigilia della sua caduta,

un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme - una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. (Ecce homo)

Conosce il pericolo a cui s’espone; sa che il suo pensiero ruota attorno a questo centro pericoloso e tragico che, chiaramente, annienterà la sua vita. Il grado di rischio nel quale un uomo vive con se stesso è per lui la sola misura valida di ogni grandezza. Soltanto colui che rischia sublimemente la propria vita può guadagnare l’infinito. Cosa importa se il costo è la vita, visto che raggiunge la verità. La passione è più dell’esistenza, il senso della vita è più della vita stessa. Il testo è lì solo per accogliere e al tempo stesso placare quest’eccesso. L’accoglie. Questa sarà la sua dimensione di tensione e di prova interna, ma lo calma e lo inscrive.


Allora, nella misura in cui il testo è depositario di un eccesso su di sé della verità, questa disposizione si attesterà nella sua forma o nel suo stile. Ciò che è sottratto all’argomento deve necessariamente ritrovarsi o superarsi, in quanto eccesso su di sé del vero, nella potenza della forma. Ciò che varrà come prova per la verità è esattamente questa potenza tale per cui la prosa la capta o l’organizza nel registro della sua forma. Nel suo ruolo organicamente filosofico, la poesia testuale nietzscheana è dunque contemporaneamente la possibilità della verità e la possibilità di sopportarla. È la sua potenza e la possibilità di sopportare tale potenza. In quanto poeta o filosofo-artista, in preda alla propria scrittura, Nietzsche è la via della verità che egli proclama. Bisogna esporre la verità come vita, e non come argomento convincente. Ma esporla come vita vuol dire esporre se stessi. Questa esposizione consiste nella poetica stilistica.

Nietzsche è colui che ha spinto all’estremo l’imperativo di parlare rigorosamente a proprio nome. D’altronde, c’è una connessione eclatante fra ciò che egli intende con “parlare per se stesso” e ciò che Lacan vuole dire con la formula “non cedere sul proprio desiderio”. Se quest’ultima massima evoca qualcosa nella storia della filosofia, Nietzsche ne è chiaramente l’incarnazione quando dice di essere o d’installarsi al cuore del proprio enunciato, al punto che l’espressione “non cedere” verrà naturalmente alla sua penna in Ecce homo:

il mio istinto si decise inesorabilmente a finirla di cedere [...] di procedere con altri, di scambiarmi con altri [...]. Io ho un dovere [...] e cioè quello di dire: Ascoltatemi! Perché sono questo e questo. E soprattutto non scambiatemi per altro!

È veramente di “non cedere” che si tratta, in maniera tale da essere ben convinti di ciò che si enuncia, dal momento che lo si enuncia in quanto se stessi, nel desiderio al quale si è coestensivi. Conquistare la possibilità di prendersi per se stessi è l’autentica posta in gioco del “dire filosofico”.

Parlare a proprio nome, prendersi per se stessi, si unisce a una convocazione del vero come figura della decisione, e non in quella dell’esteriorità o dell’adesione. La verità è sempre all’interno del registro della decisione.

Io per primo ho il metro per le “verità”, io per primo posso decidere. (Ecce homo)

Il che significa sempre anche: io sono il primo che parla [la verità], e io la decido, non all’interno del regime dell’approvazione o dell’argomentazione, ma in quello dell’enunciazione, perché è l’enunciazione che collega la verità alla sua potenza. C’è una decisione di verità, ma non c’è nulla che sovrasti questa decisione per garantirla o autorizzarla. Si autorizza soltanto da sé.

Ne consegue che la verità si dà sempre come figura del rischio, al contrario di ogni figura di saggezza o di contemplazione. Il problema consisterà interamente nel sapere ciò che si è capaci di sopportare. Non è la questione della ricerca [della verità] o della sua contemplazione, ma quella della maniera in cui la si tollera. La verità è, in parte, una questione di sofferenza. Una sofferenza che [Nietzsche] s’infligge, ma non nel senso redentore o cristiano, ovvero nel senso che occorre soffrire affinché dal fondo di questa sofferenza giunga la redenzione salvifica. No, è unicamente per sapere quale animale sono.

Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più. (Ecce homo)

Una verità non è mai ciò che si argomenta o si discute, ma ciò che si dichiara. Ogni verità si dà nella figura rischiosa di una dichiarazione, il cui principale testimone è il soggetto stesso dell’enunciazione nella sua capacità di sopportare, di reggere ciò che dichiara. Questa figura, a dispetto della sua somiglianza, è in realtà l’opposto della figura del martire.

Il dire autentico, vero, dunque il diro filosofico-artistico, è l’esposizione dell’enunciazione come rottura, l’esposizione dell’elemento del terribile come rottura interna al dire stesso. Ora, ogni volta che si verifica un’esposizione integrale dell’enunciazione come rottura, ciò coinvolge l’umanità intera, anche se questo coinvolgimento non riguarda che uno soltanto dei suoi punti. È in gioco la sorte dell’intera umanità. Ecco perché Nietzsche può dire: porto sulle spalle il destino dell’umanità senza che per lui questa frase sia esagerata o delirante. Semplicemente, infatti, è in procinto di stabilire un regime di discorso senza scarto fra colui che dice e ciò che è detto. È ciò che potremmo chiamare, con termini lacaniani, il punto di capitone della storia del pensiero.


[Alain Badiou, Nietzsche. L'antifilosofia 1. Seminario 1992-1993]

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