Con Yesterday. Filosofia della nostalgia quel sentimento dominante in tempo di crisi quando il presente è opaco e il futuro incerto, viene indagato e raccontato da Lucrezia Ercoli in maniera puntuale e interessante, delicata e potente.
La nostalgia sembra essere un tratto proprio del XXI secolo, in cui il vento della Storia non è più quello della tempesta del progresso che, all'inizio del secolo scorso, spingeva più l'Angelus Novus di Klee e Benjamin verso il futuro, ma quello della retrotopia (Zygmunt Bauman) che, in un'epoca di incertezze e di un futuro sempre più imprevedibile, riconduce verso il passato e un paradiso perduto. E, come mostra la Ercoli, essa rappresenta un sentimento ambiguo, che può declinarsi tanto in una malattia paralizzante quanto in un indicatore per pensare l'avvenire, che può essere tanto affascinante quanto pericoloso.
Nostalgia (da nostos, ritorno in patria, e algos, dolore o tristezza) è un termine coniato nel 1688 - in cui confluiscono espressioni presenti in diverse lingue, dal tedesco Heimweh al francese mal du pays, dall'inglese homesickness al portoghese saudade - per indicare una malattia, una condizione clinica, causata da un eccessivo attaccamento alla patria lontana. Una patologia che accompagna l'accelerazione del tempo moderno, con i suoi cambiamenti radicali e veloci portati dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione del finire del XVII secolo. Certo già l'Odissea omerica ha delineato i contorni della nostalgia come malattia dell'esule che rimpiange la terra natia, ma è la modernità che la universalizza, la fa sfuggire ai confini della patria, per renderla nostalgia di paesi e di felicità sconosciuti (Charles Baudelaire), desiderio di una felicità che è sempre dove non si è noi. O, forse paradossalmente, l'odierno uomo di città ha eliminato da lungo tempo la nostalgia? (Martin Heidegger). E questo sarebbe il vero pericolo: l'esperienza della perdita della casa sembrerebbe incompatibile con l'omologazione moderna per cui è facile sentirsi a casa ovunque, in cui tutto è vicino e raggiungibile, immediato. Una connectography (Parag Khanna) in cui i confini non sono più definiti tramite mappe geografiche perché trasporti, comunicazioni, reti mediali hanno trasformato i concetti di spazio e di viaggio.
Il film di Woody Allen Midnight in Paris rappresenta un vero e proprio saggio visivo sulla nostalgia dell'età dell'oro, mostrando come quello che per una generazione è prosaico e volgare, per la generazione successiva si trasforma in qualcos'altro, in qualcosa di magico e vintage. Ma mostra anche che l'età dell'oro non è la stessa per ogni epoca, che la costante è piuttosto la considerazione del presente come noioso e insoddisfacente. Questa sindrome dei bei tempi andati è sempre esistita, l'idea di una parabola discendente è narrata nel poema Le opere e i giorni da Esiodo ed è un mito che si rafforza nella cultura romana per esempio con l'Ovidio delle Metamorfosi, e non è una proprietà esclusiva della tradizione occidentale: si tratta di un archetipo universale che si rafforza nei periodi di crisi, necessario per elaborare la disperazione provocata dalla estrema miseria, dalla mancanza di libertà e dal crollo dei valori tradizionali (Mircea Eliade), di una nostalgia delle origini che è caratteristica permanente della memoria collettiva. Il passato è costantemente frutto di una creazione che rinnova un mito immaginario tra realtà e sogno, che popola il nostro presente di spettri che non se ne sono mai andati, di fantasmi che continuano a condizionarci: il passato non è morto, non è nemmeno passato (William Faulkner). Una serie televisiva come Happy Days costruisce gli anni Cinquanta come quel tempo felice della storia americana contemporanea prima della catastrofe della Guerra in Vietnam, e la formula seriale e ripetitiva è perfetta per creare la continuità e la stabilità di giorni felici. La cinquantezza (Fredric Jameson) propria di produzioni degli anni Settanta e Ottanta non racconta il passato nella sua totalità ma lo epura da ogni forma di conflitto e complessità storica, lo riesuma in forma innocua, lo crea nostalgicamente senza comprenderlo. Film come Pleasantville di Gary Ross o The Truman Show di Peter Weir decostruiscono questo paradiso dei fifties mostrandolo come un inferno repressivo e proibizionista o comunque mostrando come pura simulazione la sua perfezione.
La nostalgia, così, non corrisponde a un archivio di eventi ma a una visione irreale da sogno. Ed è con l'immagine in movimento - video, cinema, televisione - che dal secondo dopoguerra, ancora più che nei decenni precedenti, il passato acquisisce una natura immaginaria, completamente svincolata dalla storia.
Da questa dimensione anche nefasta e terribile della nostalgia mettono in guardia Milan Kundera - che nell'incipit del romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere mostra come essa speri nel ritorno del tempo perduto anche quando questo è segnato da atrocità irripetibili -, Vladimir Nabokov - che ne Il dono avverte dell'inestinguibile nostalgia per le cose a cui diciamo addio anche se non le abbiamo mai amate -, le ostalgie (crasi tra osten, cioè est, e nostalgia) nella Germania dopo la caduta del muro di Berlino dei popoli dell'ex blocco sovietico, per i quali liberazione e passaggio disorientante vanno insieme. Questo senso di continuità di una comunità, questo forte attaccamento nostalgico per un passato idealizzato, rischia di produrre un'inversione storica (Michail Bachtin) che riporti in vita anche i cadaveri di un passato che si era superato, di essere un potente veleno in cui orgoglio nazionale e tradizione religiosa formino un cocktail reazionario.
Una serie televisiva come Stranger Things dei fratelli Matt e Ross Duffer, invece, costruisce una ottantezza, una nostalgia degli anni Ottanta come epoca dell'immaginazione, in cui la tecnologia non è ancora esplosa a livello di massa, non è ancora una presenza pervasiva nelle vite di ognuno che condiziona lo spazio pubblico e privato, e c'è una promessa di liberazione ed emancipazione non ancora soppressa da un sistema di controllo digitale. Anni in cui cose strane possono ancora accadere. Questa la dualità della nostalgia: da una parte una nostalgia restauratrice, una fissazione regressiva bloccata nella fascinazione del ritorno dell'ordine naturale e delle identificazioni forti, un revival reazionario legato a una propaganda faziosa, una retorica nazionalista, un'esaltazione della patria; dall'altra una nostalgia riflessiva, capace di riconoscere l'irrevocabilità del passato e di fare della memoria un'eredità per progredire, generando un'attesa carica di pathos e di storia.
A svelare il vero oggetto della nostalgia è la musica: non l'assenza contrapposta alla presenza, ma il passato in rapporto al presente. Ciò di cui si ha nostalgia è ieri - yesterday -, ieri in quanto ieri, il passato in quanto passato, il tempo in quanto tempo perduto. La canzone pop è così il linguaggio della nostalgia ai tempi della sua riproducibilità tecnica e i tormentoni musicali sono intimni (Peter Szendy) - cioè allo stesso tempo inni collettivi e melodie intime - che ripetono sempre la stessa frase, al contempo dolorosa e catartica: Tu eri e non sei più. In questo senso, la nostalgia evoca una scissione costitutiva, una cicatrice incancellabile, e rappresenta un'esperienza ineliminabile della condizione umana.
Ancora una volta si fa necessario evidenziare il potenziale venefico della nostalgia, il cui soddisfacimento allucinatorio può spegnere la vita rinchiudendola in un mondo popolato di fantasmi, in un paradiso artificiale che impedisce di affrontare il trauma della perdita e di compiere il lavoro del lutto. E tanto più nell'epoca contemporanea l'opportunità di registrare e conservare un numero di ricordi personali senza precedenti nella storia, può tramutarsi nel pericolo di perdere lo slancio verso il futuro che rende propositiva la nostalgia (Davide Sisto).
I tempi della nostalgia contemporanea continuano a accorciarsi, che la nostalgia diventa nostalgia del presente perché la sua operazione avviene per tutto e continuamente. Se ancora nei primi anni Novanta si immaginavano, con fiducia nel futuro e slancio prometeico, alternative, dai primi anni Duemila la cultura sembra essere nel segno della retromania (Simon Reynolds), del revival, della ristampa, del remake, della ricostruzione: il futuro non c'è più, è sconfitto, è perduto.
Per non essere solo il passato che non passa e torna a tormentare sotto forma di fantasma seducente, per non essere il crepuscolare e senile cliché dell'ai miei tempi che guarda con diffidenza le novità e mal si adatta ai cambiamenti, la nostalgia deve diventare un imparare dagli spettri delle rivoluzioni mancate e delle utopie non realizzate, dai revenant di chi non c'è più ma ci parla ancora. Una hauntology (Jacques Derrida) che si fa carico delle presenze spettrali, e che sembra essere il sentimento dominante delle produzioni contemporanee capaci di evocare immagini e suoni provenienti da futuri perduti (Mark Fisher). Una nostalgia che non rinuncia allo spettro - come il crepitio tipico della musica hauntologica che riproduce il rumore della puntina sul vinile e che ci rende coscienti del fatto che stiamo ascoltando un tempo che è fuor di sesto (Fischer) -, che parla al fantasma e sente cosa ha da dire, ma che oltre allo struggimento per ciò che è stato si fa carico dell'ingiunzione che viene dal passato quale motore dell'avvenire. Una nostalgia come post production (Nicolas Bourriaud) e reboot che riedita il passato in una versione che fa rivedere qualcosa di già visto ma con uno sguardo diverso, che riprogramma il non ancora dei vari futuri che si era preparati a attendere e che non ci sono mai stati.