Nel racconto Lazzaro, lo scrittore russo Leonid N. Andreev immagina l'effetto prodotto sugli altri uomini dallo sguardo degli occhi di chi è riuscito a tornare dalla morte: «Uno sconsiderato sollevò il velo. D'un soffio, con una parola buttata là senza intenzione, dissolse il luminoso incanto, nudò la verità in tutto il raccapriccio. Nessuno poté mai render ragione a se stesso dell'essenza orrenda che nel profondo delle nere pupille sue sussisteva immota. Al suo guardare, non ristava già di splendere il sole, non ristava di fiottar la fontana, e permaneva senza nuvole azzurro il cielo natale; ma l'uomo caduco sotto quell'enimmatica fissità non percepiva più la fontana, non riconosceva più il cielo natale. E con ambascia piangeva, o disperatamente si strappava i capelli, forsennato a invocar gente in aiuto. Ma accadeva più spesso ch'egli entrasse in un'agonia di apatica inerzia, e lunghi anni moriva, agli occhi di tutti moriva, moriva incoloro, dinervato, riassorbito di tedio, come albero che inavvertito dissecchi su pietroso terreno. In fissità li guarda, attraverso l'orbite nere delle sue pupille, come da tetri vetri, in fissità guarda sugli uomini lo stesso incomprensibile Aldilà». Molti osarono sfidare quello sguardo dalla «virtù simile a quella di Medusa», «ma nessuno tornava come era venuto. Un'identica ombra tremenda calava sugli animi e un nuovo aspetto assumeva il vecchio conosciuto mondo. Coloro che avevano ancora velleità di parlare, concretavano i sentimenti loro così: "Tutti gli oggetti visibili e tangibili, divenivano vuoti, inconsistenti, diafani - simili a baglior di penombre nelle tenebre della notte; poiché l'immane buio che occupa tutto il cosmo, non veniva dissipato né dal sole, né dalla luna, né dalle stelle: vestiva anzi la terra d'un incommensurabile velame nero - e come padre l'abbracciava; in tutti i corpi penetrava esso, nel ferro e nella pietra: e solitarie divenivano le particelle della corporeità, non avendo più coesione; e ancor penetrava nell'intimo dell'intimo d'ogni particella, e solitarie divenivano le particelle delle particelle; poiché l'immane vuoto che occupava tutto il cosmo, non veniva riempito dal visibile né del sole, né della luna, né delle stelle: regnava invece sconfinato per ogni dove penetrando, ogni cosa disaggregando, corpo da corpo, particella da particella; nel vuoto allungavano le loro radici gli alberi, ed essi medesimi erano vuoti; nel vuoto, minacciando illusorie cadute, si ergevano templi, case, palazzi, ed essi medesimi erano vuoti; nel vuoto si agitava l'uomo irrequieto, ed egli medesimo era vuoto e inconsistente, come ombra; poiché il tempo non diveniva più, e il principio di ogni cosa si ricongiungeva alla sua fine: si stava appena fabbricando un edificio e picchiavan di martello i costruttori, che eccolo in rovina, e il vuoto sostituiva già le rovine; non faceva in tempo un uomo a nascere che già gli si accendevano i ceri funebri, ed eccoli spenti e già il vuoto in luogo dell'uomo e dei ceri; e in una stretta di vuoto e di tenebra disperato l'uomo tremava davanti all'orrore dell'Infinito"».
Anche uno scultore lo andò a trovare, e l'opera che poi riuscì a realizzare fu «qualcosa di mostruoso, che non rispettava neppur la più elementare delle forme acquisite alla vista, ma non senza un'ambigua allusione a non so qual nuova immagine ignota! Sopra un esile contorto ramoscello – o, piuttosto, difforme paragone di esso – stranamente di sbieco gravava un cieco amorfo cumulo senza coesione di un'indefinibile qualcosa, che precipitava in dentro, che s'arrovesciava in fuori, specie di squallidi balzi in franamento verso uno sforzo impotente di sfuggire a se stessi. Poi, come per caso, sotto uno degli sporti desolabondi, scorsero essi una divinamente scolpita farfalla, trasparente le alucce, come trepide in palpiti di passione inane a volare». Egli non credeva più nella bellezza, perché «tutto quanto è menzogna».
I crapuloni che lo fissavano negli occhi vedevano la loro gioia finire per sempre, gli innamorati divenivano simili a cipressi sepolcrali, i sapienti smettevano di essere orgogliosi di se stessi: «Andava così in isfacelo sotto l'estraneo guardare del redivivo tutto ciò che serve ad affermare la vita, il suo senso e la sua gioia».
Anche l'imperatore, infine, lo fece condurre a sé. «"Stammi a sentire, o ignoto" disse l'imperatore, scandendo con severità le parole che già in precedenza aveva calcolato: "Il mio impero – è un impero di vivi; il mio popolo – è un popolo di vivi, e non di morti. E tu sei superfluo qui. Ignoro chi tu sia: ignoro cosa tu abbia veduto laggiù; ma se tu dici menzogna – io avverso la tua menzogna; ma se tu parli la verità – io avverso la tua verità. Io sento nel mio petto il palpito della vita; nelle mie mani io sento l'onnipotenza, e i miei fieri pensieri come aquile si librano a volo nello spazio. E là, dietro di me, sotto l'egida della mia potestà, all'ombra delle leggi create da me, vivono e lavorano e si rallegrano gli uomini. Senti tu questa divina armonia di vita? Odi tu questo marziale grido di sfida che avventano gli uomini in faccia all'avvenire, chiamandolo alla pugna? Sei superfluo qui. Tu, miserabile rovina malrosicchiata dalla morte, insinui alla gente il tedio e il disgusto verso la vita; tu, come bruco nei campi, corrodi la ferace spiga della gioia, e vomiti bava di disperazione e di ambascia. La tua verità è simile al pugnale irruginito nelle mani di un assassino notturno – e come assassino io ti abbandonerò al supplizio. Ma voglio prima dare uno sguardo nei tuoi occhi. Soltanto i vigliacchi, forse, li temono; nel bravo invece, essi risveglieranno sete di lotta e di vittoria: ma allora saresti degno non di supplizio, bensì di ricompensa... Guardami, adunque, Lazzaro". Al primo istante, sembrò al divino Augusto che fosse un amico guardare: come una promessa di calmo riposo, quasi tenera amante, misericorde sorella – una madre pareva l'immagine dell'Infinito. Ma sempre più tenace si faceva la dolce stretta, e già una bocca avida di baci toglieva il respiro, e attraverso le delicate carni penetrava il rigor degli artigli, rinserrantisi in ferrea presa – e toccò al cuore il freddo smusso degli artigli, e senza fretta s'immersero in lui. "Mi fa male" il divino Augusto disse, impallidendo. "Ma fissa, Lazzaro, fissa". Ecco, come se girando su cardini lenti pesanti battenti, serrati dai secoli dei secoli, ineluttabilmente, dalla crescente apertura si riversasse in fredda fluidezza il minacciante orror dell'Infinito: ecco, due ombre – l'incommensurabile vuoto e l'incommensurabile tenebra – e spensero il sole, tolsero ai piedi la terra, tolsero il tetto al capo. S'arrestò il tempo, e spaventevolmente il principio d'ogni cosa si ricongiunse alla sua fine. Non appena eretto, e già rovesciato il trono di Augusto, e già il vuoto in luogo del trono e di Augusto. In un amen Roma dissolta, e una nuova città in suo luogo, pure inghiottita essa già dal vuoto. Nel vuoto sparivan rapidissimamente città stati contrade, impassibilmente trangugiati dal cupo insaziabile ventre dell'Infinito. "Fermati" ingiunse l'imperatore. "Tu hai ucciso me, Lazzaro. No, tu non hai ucciso me, Lazzaro" pronunciò con fermezza – "ma io ucciderò te. Vattene!"».
Vinto, ma non ucciso, l'imperatore, per suo ordine «con ferro incandescente abbacinarono Lazzaro degli occhi».