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giovedì 31 marzo 2016

letture di marzo

Il romanzo di Julia Kristeva I samurai è una sorta di sequel de I mandarini di Simone de Beauvoir: la generazione degli intellettuali francesi tra gli anni Sessanta e Ottanta non sono tanto detentori del sapere e del potere culturale entusiasti del loro impegno quanto piuttosto guerrieri che considerano la vita come un'arte marziale, la scrittura come un atto di piacere e di guerra insieme: poesia, gioco di sciabole o calligrafia, ogni arte è un'arte marziale in cui ci si mette a morte per rifarsi un nuovo corpo, una nuova forma. Bellissimo romanzo, e romanzo d'amore: "Sono insieme perché sono separati. Chiamano amore questa mutua adesione alla propria rispettiva indipendenza. Questo li ringiovanisce, sembrano adolescenti: addirittura bambini. Che cosa vogliono? Essere soli insieme. Giocare da soli insieme, e a volte passarsi la palla, tanto per dimostrare che in quella solitudine non c'è dolore".

I quattro racconti di Wu Ming che compongono L'invisibile ovunque raccontano, con stili di scrittura diversi, quattro diversi modi di sfuggire alla guerra, alla Grande guerra: da ardito che le corre incontro, da finto folle col rischio di rimanere vittima della propria finzione, da artista surrealista, da maestro del camouflage mimetico.  
Letture rapide, e assai poco significative, per la storia di un serial killer malato di Alzheimer narrata dal coreano Kim Young-Ha in Memorie di un assassino, e per i micro racconti raccolti in La vendetta di Agota Kristof.
Finito il romanzo di Charles Dickens La piccola Dorrit.

Poco filosofici i percorsi tracciati ne I mondi di Miyazaki dai contributi raccolti a cura di Matteo BoscarolConcluso il viaggio tra le Filosofie nel mondo, così come i saggi di Salvatore Natoli Soggetto e fondamento, la storia del volo ricostruita da Mirko Molteni ne Le ali di Icaro e  quella delle macchine, dalla loro infanzia alle moderne e inutili, raccontata in Tecnica curiosa da Paolo PortoghesiDella non convenzionale introduzione alla filosofia di Tommaso Ariemma, Niente resterà intatto, della Filosofia dell'umorismo di Lucrezia Ercoli, ho già scritto. Delle ottime storie incredibili dei meravigliosi materiali di cui è fatto il mondo raccontate con gran stile da Mark Miodownik in La sostanza delle cose scriverò magari più in là.

Molto belli il viaggi raccontati e disegnati da Igort nell'impero dei segni nei suoi Quaderni giapponesi e tra le memorie dai tempi dell'URSS nei suoi Quaderni ucraini. Dopo Golem, un altro graphic novel di LRNZ, Astrogamma, sempre con una grande capacità grafica, superiore a quella di scrittura della storia. Non particolarmente originale ma comunque gradevoli nella loro classicità le storie di samurai scritte da Roberto Recchioni e ben disegnate da Andrea Accardi in Chanbara. Ispirato all'omonimo racconto di Edgar Allan Poe, La maschera della Morte Rossa, graphic novel che ai temi della vanitas umana e dell'ineluttabilità della morte unisce quello sui vizi e peccati capitali e una storia di vendetta, è invece banalmente scritto da Marco Rocchi e non brillantemente illustrato da Giuseppe Dell'Olio.
Altri primi cicli narrativi dell'universo Marvel che arrivano a conclusione sono i superiori e più minacciosi - adatti a più minacciose minacce - oltre che incredibili X-Men guidati da Magneto e scritti da Cullen Bunn, l'ottima possente Thor - nelle cui vene scorre il tuono - scritta da Jason Aaron, il nuovamente in nero Daredevil di Charles Soule, i migliorabili nuovissimi e completamente differenti Avengers di Mark Waidla nuova Wolverine e le sue cloni/sorelle di Tom Taylor, la quanto meno originale squadra di mostri gestita dallo SHIELD e allestita in Howling Commandos da Al Ewing, autore anche dei cosmici Ultimates impegnati a cominciare con l'impossibile, l'eccezionale Hulk di Greg Pakgli Illuminati di Joshua Williamson con la loro vita criminale, gli incredibili Avengers pessimamente assemblati da Gerry Duggan in una nuova squadra unione, i nuovi X-Men originali, adolescenti e venuti dal passato cui Dennis Hopeless fa affrontare i fantasmi di Ciclope ma di cui si poteva francamente fare a meno, come si potevano evitare i nuovi Inumani impegnati da James Asmus in una reazione globale al loro proliferare.

sabato 19 marzo 2016

filosofia dell'umorismo

Qual è il rapporto tra ridere e filosofare? La storia che Lucrezia Ercoli percorre e ricostruisce nel suo Filosofia dell'umorismo mostra come l'opposizione tra serio e comico non sia altro che l'equivalente di altre contrapposizioni sedimentate nella cultura ufficiale, così che l'umorismo sembra destinato a riecheggiare fuori dalle mura della cultura rappresentando come un ospite poco gradito e un intruso sconveniente, da tenere a bada o ricacciare nelle basse cucine del palazzo. Un ospite inquietante, cui spesso è toccato subire il disinteresse teorico e la condanna morale. Così che sull'umorismo, dote in effetti piuttosto rara tra gli esseri umani, sono scivolati anche i più grandi pensatori che "sono riusciti a definire il pensiero, l'essere, Dio, ma quando sono arrivati a spiegarci perché un signore che scende dalle scale e improvvisamente scivola ci fa morire dal ridere, si sono avvolti in una serie di contraddizioni e ne sono usciti, dopo immensi sforzi, con risposte esilissime" (Umberto Eco).
Dalla serietà, sacralità e potenza ma anche violenza e aggressività che il mito classico riconosce al riso, al riso, nella filosofia antica, di Democrito - impietoso e anche crudele, non è quello della innocente spensieratezza ma quello distaccato e privo di compassione del sapiente che sa - e di Diogene - cinico, blasfemo, osceno, scandaloso e distruttore, dissacra ogni veneranda e terribile autorità; dalla distinzione operata da Aristotele tra un appropriato buon umore, una giudiziosa arguzia che non è né buffoneria né rusticità, e lo stigmatizzabile ridicolo che va tenuto sotto controllo (riconoscendogli così, però, il potere di trasformarsi in un grimaldello che porti alla luce un fondo indomabile che pur giace nel cuore dell'umano), all'ambiguità del riso carnascialesco che ha insieme un ruolo di liberazione ed emancipazione sociale ed esistenziale e anche uno di conservazione di quell'ordine che decostruisce ma di cui esorcizza la dissoluzione definitiva; dall'umorismo che per Baudelaire rappresenta i confini incerti dell'umano, una zona di confine tra la grandezza infinita del divino e l'infinita miseria della bestia, all'arguzia che per Schopenhauer è il godimento di scoprire l'insufficienza della ragione, il piacere della sua sconfitta, che mostra come l'infinita delicatezza delle sfumature dell'esperienza non si adatti alla vita astratta dell'intelletto; dall'umorismo di Jean Paul, che è una filosofia folle e forsennata dallo spirito poetico e libero, a  quello di Pirandello, che riflette sulle crudeli leggi sociali che imprigionano il fluire vitale in una serie infinita di forme fisse e maschere; dalla funzione sociale, di risanamento di una contraddizione e castigo di un comportamento, che ha il riso per Bergson, all'umorismo che per Ritter, quale profonda critica della ragione e della sua pretesa di limitare tramite i propri concetti finiti la forza dell'infinita pienezza della vita, è filosofia; dal riso con cui Nietzsche risponde alla morale e alla metafisica, danzando con lievità al di là di esse, a quello con cui Bataille si  affranca da ogni verità, distrugge ogni trascendenza, decostruisce ogni identità per aprirsi a un agire veramente libero.
Questa storia dell'umorismo ci insegna che è necessario ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità; che "il ridente altro non è che il maieuta di una diversa società possibile" (Umberto Eco); che umorismo e filosofia hanno lo stesso scopo di gettare un'ombra di diffidenza sulle ovvietà del senso comune, sulle premesse ideologiche, sui pregiudizi culturali. Ridere è filosofare.

venerdì 18 marzo 2016

la filosofia indiana

Dopo Africa e Cina, con Filosofie nel mondo ho esplorato la filosofia dell'India. Matrice dell'Oriente, essa ha impregnato anche altre culture e irrorato zone sia prossime sia remotissime, e nella sua lunga e multiforme storia sono da sempre coesistiti interessi e costumi alquanto eterogenei e pensieri diversissimi, caratterizzando tale cultura con una propensione all'apertura e all'accettazione, all'eterodossia, al dissenso e al dialogo. Non è forse un caso che al centro della bandiera indiana vi sia un arcolaio, simbolo di come l'India sia una tessitura dinamica di fili diversi di pensieri, una continuità culturale ottenuta lasciando che aspetti di altre culture si sovrapponessero alla cultura originale, non minando la tradizione ma ampliandola sempre più e sviluppandola in direzioni nuove e inaspettate.
Il pensiero dominante è l'hinduismo, definizione di comodo che tenta di raccogliere un fenomeno estremamente complesso e articolato di diverse credenze e pratiche religiose, di esperienze spirituali e speculative, di norme etiche e rituali, di prescrizioni giuridiche e ordinamenti sociali, che caratterizza il modo di vivere indiano nei suoi vari periodi di sviluppo. Pur non avendo un fondatore e non essendo una religione del Libro, pur essendo il termine hindu coniato in senso etnico-geografico dai Persiani per indicare le tribù insediate a nord del fiume Indo (è con le invasioni musulmane del X-XI secolo che gli stessi Indiani cominciano a usarlo per designare gli autoctoni non musulmani e per distinguersi da moghul ed europei), tuttavia l'unità dell'hinduismo non è una finzione, tanto che gli stessi indiani ritengono che le varietà di speculazioni fiorite nel corso del tempo non siano altro che aspetti di ciò che è chiamato "Dharma perenne", un'oggettiva realtà spirituale atemporale, una verità metafisica unica e sempre identica nonostante i diversi idiomi e dottrine filosofiche con le quali parla. L'hinduismo può essere visto come il frutto di una lenta evoluzione, caratterizzata non da rotture o riforme ma da una tendenza alla continuità nel rinnovamento, transitata prima per il vedismo (1500-900 a.C.) e per il brahmanesimo (900 a.C-300 d.C.). 
La base del vedismo, pietra di fondamento dell'hinduismo, è costituita dai Veda (Sapienza), un corpus di scritture sacre, frutto diretto di una rivelazione ascoltata dai mistici veggenti, composte da mantra, ossia formule altamente condensate, inni dai poteri magici, in cui ogni lettera e sillaba hanno un senso simbolico multiplo che può essere interpretato con l'ausilio di determinate chiavi (spiegate in testi di ermeneutica) che variano a seconda dell'aspetto del mondo preso in considerazione, della scienza con cui si indagano le leggi cosmiche fondamentali. Le principali scienze vediche sono le quattro scienze applicate (la scienza della longevità cioè la medicina, quella del tiro con l'arco cioè l'arte militare, quella dei bardi celesti cioè la musica, quella della trama segreta delle cose cioè la magia), la filosofia (caratterizzata da punti di vista diversi, dotati di approcci e metodi distinti, attraverso cui cercare di comprendere e interpretare l'enigma dell'universo arrivando a risultati diversi e spesso contraddittori ma che proprio per questo consentono di formulare prospettive filosofiche al di là  dell'immagine limitata e tendenziosa che del mondo offrono le percezioni, perché verità relative, molteplici e contraddittorie coesistono), la storia (vista come filosofia della storia che cerca di ravvisare le leggi della sua evoluzione, della sua logica, dei suoi insegnamenti, al fine di trarne conclusioni etiche e politiche utili alla condotta degli uomini), la tradizione (i codici della morale, le norme legislative, le consuetudini, ancora utilizzate come base del diritto hindu), la scienza erotica (Kamasastra), l'architettura (scienza del costruire sulla base di complessi diagrammi simbolici), la filosofia ionica (il pensiero greco antico ma anche tutti i concetti filosofici stranieri), la scienza delle religioni. 
Il brahmanesimo si presenta come un'opera di ermeneutica vedica in cui emerge la nozione di brahman, l'Assoluto, principio e fondamento del mutevole succedersi dei fenomeni, segnando la transizione da una visione egocentrica come quella del vedismo a una cosmocentrica. Ai Veda nell'VIII-VII secolo a.C. si aggiungono nuovi testi sacri, le Upanisad, che approfondiscono le concezioni sull'unità soggiacente la molteplicità riconoscendo in un'essenza unica la vera realtà dell'universo. Di conseguenza i numerosi dèi vedici vengono a perdere di importanza e a essere considerati come null'altro che manifestazioni del principio cosmico unitario, supremo, immortale e incorporeo chiamato brahman che tutto ingloba. Tuttavia, i molteplici dèi della tradizione vedica non vengono semplicemente abbandonati ma subordinati all'Assoluto in un tentativo di conciliazione teologica. Dall'approfondimento brahmanico consegue la dottrina del tutto uno, per la quale l'atman (l'aspetto individuale e soggettivo) e il brahman sono una sola e medesima realtà, e quindi lo scopo della vita diviene quello di rifuggire dal transitorio per cercare rifugio nella realtà infinita, di assoluta coscienza e di pura beatitudine che, proprio per questo, può offrire una felicità imperitura. Appare, in tal senso, anche lo yoga, quale insieme di discipline psicofisiche, di controllo del respiro e di autodominio tese al distacco dalla personalità empirica per attingere quella presenza nel mondo dell'Uno supremo. Si attua così il passaggio da una concezione gioiosa quale era quella che si presentava negli inni vedici a una sostanzialmente disinteressata nei riguardi della vita mondana. Emerge, così, quel minimo comune denominatore di un coacervo di diverse credenze e pratiche e che è il fine ultimo a cui tutte tendono: la liberazione dalle catene del karman, dal continuo fluire ciclico di nascite e morti (samsara) a cui ogni esistenza fenomenica soggiace, tramite i tre sentieri di un'azione senza brama di guadagno o paura di perdita, appagata del proprio destino senza rimpiangere o godere di ciò che è, di una conoscenza della natura autentica della realtà, di una devozione e contemplazione meditativa che garantiscano l'autocontrollo libero dalle passioni e dai desideri per giungere a non essere più condizionati dal proprio io.
A partire dal VI secolo a.C. si assiste alla nascita e allo sviluppo di speculazioni eterodosse e di movimenti extravedici, delle quali quella storicamente più importante è il buddhismo. Nato dall'insegnamento di Siddharta Gautama, detto il Buddha (il Risvegliato), le sue quattro nobili verità consistono: nella transitorietà e inconsistenza della vita che provocano disagio, il quale nasce ogni volta che ci si oppone al fluire della vita e si cerca di attaccarsi strettamente a forme fisse illusorie (diagnosi); nel desiderio con cui l'uomo si aggrappa illusoriamente alla vita e all'io quale origine del disagio, perché l'uomo rimane così intrappolato in un circolo vizioso che è il ciclo delle rinascite (samsara) guidato dalla catena di causa ed effetto del karman (eziologia); nella cessazione del disagio (prognosi); nel sentiero che conduce alla cessazione del disagio tramite un graduale perfezionamento interiore (terapia). Altre correnti filosofico-religiose sono il jainismo (che a una forma di yoga che porta a livelli estremi l'ascetismo e la rinuncia a ogni possesso affianca una concezione multiprospettica della realtà in cui si mostra la possibilità di riconoscere una parte di verità in ogni idea, aprendo la mente all'accettazione delle differenze), il materialismo (antireligioso, edonistico e socialmente egalitario), l'ajivika (visione deterministica del ciclo delle rinascite per cui la liberazione è attinta automaticamente alla fine dell'attraversamento delle sfere d'esistenza, come un gomitolo di filo che scagliato in lontananza si smatassa definitivamente al termine della sua corsa).
L'hinduismo moderno si suddivide in tre principali correnti: il visnuismo, il sivaismo e il saktismo. Il visnuismo si ricollega alla divinità vedica Visnu, l'Onnipervasivo, la divina potenza che tutto pervade personificazione del Sole, il principio Conservatore del mondo, che insieme a Brahma il Manifestatore e a Siva il Trasformatore costituisce la triplice immagine hindu, un singolo corpo spartito in tre forme ove ciascuno può essere il cadetto o il primogenito rispetto agli altri. Per il visnuismo l'universo esiste come sogno di Visnu, e le sue discese (avatara: due di esse sono Rama e Krsna) nel mondo sono forme di soccorso e protezione per gli individui in difficoltà. Una delle correnti del visnuismo è il sikhismo, fondato nel XVI secolo dal poeta e mistico Kabir che, disgustato dal formalismo religioso sia dei musulmani sia degli hindu, considerò il cuore la vera dimora in cui alberga l'assoluto operando una sintesi tra visnuismo e mistica islamica e approdando a un monoteismo nel quale l'Assoluto onnipervadente, indifferentemente chiamato Visnu o Allah, è insito in tutti gli esseri e trascende tutte le forme. Il sivaismo vede in Siva l'aspetto fausto della divinità hindu, il cui antecedente vedico è Rudra, signore delle vittime sacrificali la cui funzione è catalizzare le impurità. Selvaggio e indomabile, Rudra-Siva designa l'ambigua unità degli opposti e l'aspetto terribile della realtà, rappresenta l'aspetto trasformatore: è il signore della danza, la cui danza terribile e affascinante fa sbocciare le forme del mondo così come le fa appassire, è colui al cui schiudere e chiudere di ciglia il mondo nasce e si dissolve. Il saktismo (o tantrismo) vede in Sakti la componente femminile della divinità, la sua forza creatrice. La devozione e il culto della Grande Dea prende forma in una modalità di yoga non unicamente rinunciataria ma di fruizione estesa di tutte quelle esperienze che la morale ascetica tradizionale aveva bandito.
La società indiana è gerarchicamente divisa in quattro caste (rango sociale basato sulla discendenza) con proprie rispettive norme e interdizioni: sacerdoti, guerrieri e governanti, produttori (allevatori, contadini, artigiani), servitori. Quattro sono anche i periodi dell'esistenza individuale, ciascuno con uno stile di vita che gli è adatto: l'infanzia è l'epoca dello studio, la gioventù quella della famiglia, la maturità quella della riflessione solitaria, la vecchiezza quella della serena rinuncia a ogni legame con il mondo terreno e della scelta di condurre una vita distaccata e contemplativa. Quattro, infine, gli scopi e le necessità della vita: la virtù che realizza l'uomo sul piano etico (il dovere di conformarsi all'ordine che regge l'universo e sostiene la struttura sociale), la ricchezza che realizza l'uomo sul piano sociale (gli interessi economici e i successi materiali), il piacere che realizza l'uomo sul piano corporeo, la liberazione (dal mondo terreno e dal ciclo delle rinascite) che realizza l'uomo sul piano spirituale.

mercoledì 9 marzo 2016

il pensiero cinese

Dopo quella in Africa, le Filosofie nel mondo mi portano a confrontarmi con il pensiero cinese, tra filosofia e religione - distinzione estranea nella Cina tradizionale -, tra dottrine di portata propriamente metafisica e dottrine di natura più limitatamente cosmologica. 
La cultura arcaica, deposito di concetti tradizionali accumulatisi tra il III millennio e l'VIII secolo a.C., vede nel Classico dei Mutamenti (Yijing) il testo più autorevole al quale attingeranno tutti i pensatori successivi per l'esposizione della dottrina dello Yin-Yang e del Dao. Manuale di divinazione databile intorno al IX secolo a.C., in esso appare evidente il principio di irreciprocità di natura che sta alla base del rapporto tra Unità e Molteplicità: la pratica divinatoria necessita di un mazzo di 50 steli, ma uno di questi deve essere separato dagli altri e rimanere inutilizzato e, proprio restando "fuori gioco", esso permette le possibili permutazioni degli altri 49; così un principio di natura unitaria e non-agente rende possibili i molteplici e indefiniti mutamenti del mondo dell'azione. La linea intera Yang e la linea spezzata Yin, base dei trigrammi e dei 64 (tante le possibili combinazioni su base 6 di linee intere e spezzate) esagrammi divinatori, non devono perciò essere considerate due entità autonome che si trasformano una nell'altra, ma due aspetti dell'Unità, di una stessa linea invisibile che si rende di volta in volta visibile o nel suo aspetto intero o nel suo aspetto spezzato.
A partire dall'VIII secolo a.C. si ha uno sviluppo di scuole filosofiche che mostra una ricchezza e varietà di dottrine. L'insegnamento del confucianesimo (VI-V secolo a.C.) ha una portata eminentemente sociale, interpretando senza eccezione le norme di comportamento individuale come frutto dell'interiorizzazione di norme più universali la cui capacità di fondare l'ordine sociale e di armonizzare il mondo umano deriva direttamente dal Cielo. Tale insegnamento prevede una triade di attitudini - il comportamento rituale (li) nei confronti di ogni aspetto della vita sociale e di se stessi, il senso dell'umanità reciproca (ren, carattere costituito dal radicale di "uomo" nella sua parte sinistra e dal carattere "due" nella sua parte destra) che rimanda a una concezione in cui l'umanità del singolo uomo ha il suo fondamento nel rapporto con la molteplicità degli altri uomini, il senso del giusto (yi) - attraverso lo studio e l'esercizio delle quali è possibile acquisire la nobiltà dell'essere pienamente un uomo, un uomo esemplare.
La scuola taoista si sviluppa a partire dal IV secolo a.C. intorno a una dottrina metafisica incentrata su quattro concetti principali: il Dao (Via), il De (Potenza/Unità), la non azione, il Saggio o Uomo Vero. Il Dao è infinito che nulla ha fuori di sé, incondizionato e inconoscibile, estremo di sottigliezza (origine indistinta di tutto ciò che esiste) e di espansione (evidente e costante espandersi di tutte le forme di manifestazione); il passaggio alla molteplicità del mondo manifestato avviene per il tramite della prima determinazione del Dao stesso, l'Unità o la Potenza (De) che si origina dal supremo inizio del non-essere e che, suddividendosi pur restando indivisa, origina i destini, gli archetipi informali delle singole forme che, vibrando, generano ogni cosa che custodisce in sé un principio spirituale, una natura originaria, proprie regole e misure. Coltivando la propria natura originaria si fa ritorno all'Unità e all'origine, si è di per sé e non si ha in nulla di esterno il proprio principio (spontaneità della non azione): così è per il Saggio, il Vero Uomo che realizza l'identità con il Dao stesso. Dal punto di vista taoista le virtù confuciane non sono altro che una reazione tardiva e inefficace a uno stato di decadenza rispetto al quale si è impotenti: il senso dell'umanità e del giusto appaiono solo quando il Dao è decaduto, il comportamento rituale compare quando nei rapporti umani non regna l'armonia, i buoni ministri si hanno dove regna il disordine.
Altre scuole filosofiche sono la "Scuola dei Nomi" o dei "sofisti", per le affinità con il carattere estremo nell'abilità argomentativa attraverso il discorso e l'uso di paradossi (che intendono però esemplificare punti di vista che, non tenendo conto dell'unità del reale, restano imprigionati nel relativismo); la scuola dei legisti, che crede in una naturale propensione dell'uomo verso il male da tenere sotto controllo attraverso rigide misure coercitive; la "Scuola dello Yin-Yang e dei Cinque Agenti", che concepisce l'universo come un'unità organica retta dal Cielo e crede in un'evoluzione storico-politica segnata dalla successione dei Cinque Agenti (Terra-giallo, Legno-verde, Metallo-bianco, Fuoco-rosso, Acqua-nero) sancita dall'alternarsi dello Yin e dello Yang.
Le prime testimonianze della presenza del buddhismo in Cina risalgono al I secolo d.C., e il lungo processo di assimilazione e sinizzazione delle dottrine indiane arriva al VII-X secolo. L'estraneità alla mentalità cinese del contesto monastico del buddhismo viene superata grazie alla dottrina del bodhisattva come l'essere che, una volta realizzata la propria liberazione, ridiscende nel mondo a operare per la liberazione di tutti gli altri esseri. La dottrina del "niente altro che coscienza" riduce l'intera manifestazione della realtà alla coscienza che l'essere ne ha, sostenendo l'illusorietà sia del mondo fenomenico sia della coscienza individuale che lo fa apparire dotato di realtà e prospettando un processo graduale che conduca all'abbandono definitivo dell'illusione e alla realizzazione-identificazione con la realtà incondizionata. 
Buddhismo, taoismo e pensiero cosmologico contribuiscono alla formazione, fra XI e XIII secolo, delle dottrine neoconfuciane. Direttamente riferibile al buddhismo e al suo concetto di "contemplazione interiore" è l'idea di un rovesciamento della contemplazione, dall'esterno all'interno, per cogliere quel principio unico all'interno di sé senza il quale non è possibile cogliere il medesimo principio unico che regge la molteplicità delle cose fuori di sé. Viene inoltre acquisito un interesse preponderante per la cosmologia (già dal III secolo d.C., comunque, il Classico dei Mutamenti era stato inserito nel canone confuciano) con una precisa ascendenza taoista: la Trave Maestra o Grande Unità (Taiji) è l'origine indifferenziata del mondo differenziato, dalla quale appaiono i Due Modelli (Yin e Yang) e da questi le Quattro Figure (quattro digrammi), da queste le quattro Figure Celesti e Quattro Terrestri (otto trigrammi), da queste la moltitudine delle cose (64 esagrammi). Un'idea che sarà poi però abbandonata, troppo simile al Dao taoista e al Vuoto buddhista, è quella per cui lo stesso essere, l'universalità dell'uno, non è a sua volta che un aspetto della maggiore universalità dello zero, del non essere (Wuji): ciò che è al di là delle forme possiede, fra la totalità delle sue possibilità, anche quella di determinarsi come essere, come principio di unità che produce la molteplicità, ma è al di là della Trave Maestra e tuttavia è anche la Trave Maestra. Il neoconfucianesimo si attiene all'idea di un Soffio o Forza Vitale (qi) costituente unico e indistruttibile di tutta la realtà. Il confucianesimo viene assunto a dottrina di Stato, tanto che fornisce la base degli esami per accedere alla carriera di funzionario dal 1313 al 1905.

giovedì 3 marzo 2016

niente resterà intatto

Nella sua non convenzionale introduzione, Niente resterà intatto, Tommaso Ariemma si interroga e ci interroga, medita e ci fa fare esercizio di meditazione con lui, su che cos'è la filosofia. Non è un disquisire pedante e vuoto sui massimi sistemi ma un affrontare quesiti fondamentali che cambiano la vita, un affrontare il mostruoso, tanto più "in un tempo in cui l'apocalisse dell'uomo è qualcosa di quotidiano" (Sloterdijk). La filosofia è affrontare il mostro che non si può mettere alla porta, di cui non si può negare l'esistenza, che ci divora, ci assorbe e limita il nostro orizzonte e rivendicare, invece, che c'è dell'altro: filosofare è, dunque, assumere dei rischi. La filosofia è diventare colossi, resistere e restare impedendo al mostro di ridurci a niente, riconoscendo il mostro come mera parte e non totalità.
La filosofia è, ancora, eleganza, che intelligenza di pensare e scegliere: non fare o dire qualcosa purchessia, tanto per capriccio, ma fare e dire, tra le molte cose che potrebbero essere fatte e dette, quella che richiede di essere realizzata, così che "eleganza è il nome che si dovrebbe dare a ciò che chiamiamo etica" (Ortega y Gasset).
Pure, la filosofia è forgiare principi, non tanto come guida o riferimento quanto soprattutto come inizi e inneschi: filosofare è cominciare a pensare e vivere diversamente, ecco perché la filosofia corrompe. 
E la filosofia è, anche, fragilità, che è il contrario di docilità perché non si può mai sapere cosa può e dove si disporrà l'infranto, di cosa sia capace: non tenere duro, divenire sordi e indifferenti, bensì essere fragili in modo che nessun ordine possa ricomporci o farci restare al nostro posto. 
Affrontato con eleganza e fragilità dalla filosofia, niente resterà intatto.

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