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martedì 30 ottobre 2018

il desiderio della scrittura

Non una introduzione, una ricostruzione del pensiero, una normalizzazione o un addomesticamento, ma una controfirma all'innegabile mostruosità del pensiero derridiano.
Già autore di libri e saggi su Jacques Derrida, questa volta Simone Regazzoni, allievo del filosofo francese, si impegna in una lotta, in un corpo a corpo con il maestro. Il testo pubblicato nella collana "Eredi" della Feltrinelli è appunto il resoconto quasi diaristico di un tale annoso corpo a corpo, con cui Regazzoni controfirma il corpus derridiano, corpus che non può essere separato dal corpo del suo autore, corpo di scrittura che, al di là di qualsiasi vecchia distinzione di genere e di disciplina, deve essere considerato come un poema in cui bios e graphia sono inseparabilmente tessuti insieme da una firma e dalla sua unicità. E del resto è proprio questo desiderio della scrittura, questo primo desiderio che spinge a scrivere e che si fa cifra di singolarità e idiomaticità - "questa cosa, questa scrittura idiomatica di cui so che la purezza è inaccessibile, ma che continuo a sognare", confessa Derrida - a rappresentare il centro intorno a cui ruota il testo di Regazzoni, che rifiuta ogni idea di una filosofia di Derrida: è proprio il movimento eccedente rispetto al logos filosofico la dimensione più mostruosa, violentemente inventiva, non addomesticabile, della scrittura del filosofo francese, pensatore perturbante per la filosofia stessa e i suoi custodi.
Secondo Regazzoni la grandezza di Derrida, l'eredità del suo pensiero e della sua scrittura, consiste nel modo in cui egli ha risposto all'esaurimento storico della filosofia come dominio del logos, alla fine della filosofia - già all'opera e in decostruzione - intesa come logos discorsivo, universitario, accademico, saggistico. Egli ha risposto all'appello ingiunto dall'a venire del pensiero attraverso una forma di scrittura idiomatica, che sfida le regole della buona scrittura filosofica, eccede i limiti della concatenazione concettuale e dell'esposizione di tesi, procedendo al di là dell'opposizione tra filosofia e letteratura, in una avventura della scrittura in cui, senza niente da dire - "ecco ciò che non sopportano, che io non dica niente, mai niente che stia in piedi o che valga, nessuna tesi che si possa confutare, né vera né falsa" -, Derrida scrive e scrive altrimenti, firmando in prima persona e mescolando generi, stili, lingue, toni, pensiero e vita, aneddoto e riflessione, con il risultato di dissolvere l'ordine filosofico in una autofiction: una scrittura autobiografica in cui però non c'è un soggetto già dato che si racconta, ma in cui piuttosto il soggetto - il soggetto-filosofo ma anche il vivente-Derrida - si costruisce come narrazione di sé, in cui "il me non esiste" ma "è dato dalla scrittura". Ma questa grandezza, riconosce Regazzoni, non è stata affatto priva di impasse, perché se è vero che Derrida ha sempre lottato per trovare un'altra forma di presentazione per la filosofia, è altrettanto vero che non vi è davvero riuscito, non è arrivato a comporre il Libro che ha sognato. Con questo desiderio di scrittura bisogna misurarsi, in filosofia, per ereditare Jacques Derrida.
Se non si vuole essere semplici archivisti - custodi del passato, dei resti - ma eredi che si misurano con un segreto che va al di là di tutto ciò che resta, lo si deve fare a partire da ciò che non ha avuto luogo: assolutamente fedeli e massimamente infedeli al cuore dell'eredità, non si deve trasmettere un sapere, ma si deve rispondere a una ingiunzione spettrale, che arriva dall'altro, come mostra quel libro sull'eredità, sugli eredi e su cosa significa ereditare che è, fra le altre cose, Spettri di Marx. "L'eredità non è mai un dato, è sempre un compito", quindi essa chiama in gioco non solo e non tanto la sopravvivenza del morto, il prendersi cura delle cose morte, ma la nostra vita, ci impegna a controfirmare l'eredità del padre portandola altrove e inventandola, a controfirmarne il segreto che ci dice "leggimi". E all'eredità di Derrida, all'ingiunzione del suo segreto, si risponde comprendendo che essa non trasmette altro che il desiderio: desiderio che nella sua forma più pura è lettura del segreto come segreto, segreto che non è niente, niente di essente; desiderio che è un fuoco pronto a bruciare tutto, senza resto, senza resti, fino alla cenere.
Ereditare è ingiunzione a vagliare il fuocoma ingiunzione che non è separabile da quella a bruciare, distruggere: il segreto chiede di essere letto, ripetuto, conservato ma anche cancellato in altro, nell'altro che controfirma il segreto. Solo passando attraverso il fuoco dell'altro si salva, sopravvive. Questo è ciò che ha fatto del resto lo stesso Regazzoni in questi anni, anni di tesi politiche su Derrida e dizionari della decostruzione, ma anche di scritture ibride e contaminate sia nei contenuti pop sia nello stile e nei generi, di avventure in romanzi e dichiarazioni d'amore, di sperimentazione di forme nuove da dare alla filosofia.
Regazzoni, a partire da Derrida - ed entrambi a partire dallo spettro di Sartre -, risponde all'appello della decostruzione della frontiera tra filosofia e letteratura, non cede sul desiderio di letteratura a costo della filosofia, spingendo quest'ultima a battere nuove strade. Ma ciò si dà perché sin dall'origine lo spettro della letteratura assilla e infesta la filosofia: tra un'univocità assoluta e un'equivocità assoluta non si può veramente scegliere, ché qualsiasi oggettività ideale, qualsiasi significato o senso, qualsiasi verità per essere ciò che è deve in primo luogo poter iscriversi, ripetersi, darsi, differenziarsi in un segno, diventare altro da sé. La possibilità della scrittura, dell'iscrizione, è necessaria e costituente al senso, alla verità, che senza di essa non si danno. Ma questa possibilità necessaria già da sempre contamina e lacera verità e senso, idealità, è al contempo condizione della loro impossibilità, dell'impossibilità della loro rigorosa purezza. La scrittura è allora ciò che marca una mancanza costitutiva, una differaenza, una traccia, che i filosofi tentano sempre sistematicamente di cancellare, e che resta invece sempre da pensare, spettro che sempre assilla il logos quale sogno di una parola piena, trasparente, dotata di senso. All'origine, dunque, c'è una contaminazione strutturale tra filosofia e letteratura, tra il sogno di un'origine pura, semplice, una presenza piena del senso, che si darebbe nel logos quale discorso univoco, e lo spazio di segni equivoci presi nel gioco di un rinvio che non mette capo a un senso ultimo ma a pura disseminazione. E se non si dà mai senso puro, significato che non sia già abitato in sé dalla differaenza, allora è necessaria la letteratura come pratica di scrittura che rompe con la logica del senso, come esercizio di un pensiero che eccede i limiti e il dominio del logos, come desiderio di entrare in questo gioco della differaenza in cui il corpo del significante è "intransitivo e intransigente: resta, resiste, esiste e si fa rimarcare".
A questo spazio di una resistenza, di una restanza, di un tutt'altro senza volto che non si sarà mai fatto assimilare, Derrida sceglie di dare il nome platonico di chora, aporia dell'iscrizione originaria, spazio di pura iscrivibilità e potenza di scrittura più vecchia del logos stesso, condizione di possibilità dell'idea stessa, della sua riproducibilità come il medesimo.
Non si eredita dunque la decostruzione se non a partire dal desiderio di realizzare un'opera al di là della filosofia, in cui il pensiero non possa in alcun modo essere separato dalla singolarità della vita, in cui lo stile e il corpo della scrittura siano lo spazio di questa unione. La forma sarebbe quella di un diario totale, spazio altro della scrittura in cui costituirsi come io, come soggetto, spazio testamentario di una sopravvivenza attraverso cui solo si può accedere alla propria vita, a sé come soggetto vivente. Questo divenire soggetto attraverso la scrittura autobiografica è un divenire sé passando per la diversione dell'altro, dell'esteriorità, della morte e di una certa distruzione.
Per questo è già anche un'auto-immuno-bio-grafia, un'esperienza di costituzione e, al contempo, di decostruzione di sé, della propria vita e del suo senso di cui desidero appropriarmi e di cui tuttavia non arrivo mai ad appropriarmi, scacco che però è la possibilità stessa della vita e del suo senso. Scrivere significa allora tentare, nella ripetizione, di farsi padrone della propria morte, accettando di darsela di buon grado - come se si trattasse di bere il pharmakon della cicuta -, distruggendo e salvando la propria vita.
Conclude, dunque, Regazzoni, che la singolarità idiomatica e autobiografica di Derrida resiste alla teoria, alla sistematizzazione, al metodo, alla forma della domanda metafisica che si interroga sull'essenza di qualcosa. Con l'invenzione della decostruzione, e la sua pratica nella scrittura come invenzione, Derrida non crea i propri concetti ma firma le parole che si lascia dettare, che fa e lascia venire, dalla scrittura stessa, lavorando di stile e di idiomaticità sul significante per eludere il "voler-dire" e la fissazione del senso, esponendosi e inventandosi: invenzione di Jacques Derrida, nel doppio senso indecidibile del genitivo soggettivo e oggettivo. Questo niente da dire, niente da pensare che si scrive, non ha nulla di nichilistico, apre piuttosto a qualcosa di più e di altro rispetto ciò che un soggetto può semplicemente dire e pensare.





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