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lunedì 4 aprile 2011

sopravvivere: lutto e gravidanza

L’isola deserta affascina e spaventa, al contempo, perché non è solo perdita e morte, ma porta in sé il segreto di una ri-creazione, di una nuova nascita attraverso la morte di cui la catastrofe del volo 815 in Lost è il sigillo: «Non c’è una seconda nascita perché c’è stata una catastrofe; semmai l’opposto: c’è una catastrofe successiva all’origine poiché ci deve essere, dopo l’origine, una seconda nascita», dice Deleuze ne L’isola deserta e altri scritti.
L’isola è il luogo per eccellenza della sopravvivenza. Ma, come in Lost Locke ricorda a Jack, «sopravvivere è solo un concetto relativo». Il luogo della sopravvivenza non è altro che il luogo della vita. «La vita è sopravvivenza», come ha scritto Derrida (ultima intervista rilasciata prima di morire e intitolata Apprendre à vivre, enfin. Al tema della sopravvivenza il filosofo ha dedicato un saggio, poi raccolto in Paraggi, intitolato Sopra-vivere). «Noi siamo strutturalmente dei sopravvissuti». Perché ogni vivente, fin dalla nascita, è già abitato dalla possibilità incancellabile della morte – da questa catastrofe a cui sarà già sopravvissuto, e che lo accompagna mentre lo attende. E dunque vivere significa già da sempre sopravvivere, rinascere a questa morte che, prima ancora di essere effettiva, sarà già stata qui. Per questo lutto e gravidanza si intrecciano indissolubilmente.
Nell’essenziale rapporto tra vita e morte a colpire di più non è tanto l’elemento ciclico, bensì l’intreccio e la compenetrazione dei due aspetti, e l’incredibile confondersi di lutto e gravidanza. Ma in che senso dovrebbero essere associati? Non sono forse uno l’opposto dell’altro? Solo in apparenza. Perché mettere al mondo significa già destinare alla morte – cominciare a far morire. Non si dona la vita senza donare, al contempo, la morte. La nascita è la morte. Un’interessante analisi di questa singolare condizione di viventi-mortali ci viene dalla lettura che Derrida ha dato di un verso del poeta di lingua tedesca Paul Celan, che recita: Die Welt ist fort, ich muss dich tragen (“Il mondo è partito e io ti devo portare”). Derrida commenta: «Il mondo è partito, il mondo ci ha abbandonati, il mondo non c’è più, il mondo è distante, il mondo è perduto». Il verbo portare con cui si chiude il verso traduce il tedesco tragen che significa, al contempo, “portare il lutto” e “portare un bambino in grembo”. «Tragen» afferma Derrida «si dice correntemente dell’esperienza che consiste nel portare un bambino che ancora deve nascere. Ma, d’altra parte, se tragen parla il linguaggio della nascita, se deve indirizzarsi a un vivente presente o a-venire, può anche indirizzarsi al morto, al sopravvissuto o al loro spettro, in un’esperienza che consiste nel portare l’altro in sé, come si porta il lutto». Ora, in entrambe queste esperienze, il mondo è perduto, non c’è più, se n’è andato nella misura in cui l’io resta solo con l’altro: l’altro a venire e/o l’altro che non c’è più. L’altro che non c’è più come altro a-venire nella forma di un ritorno spettrale. E l’altro a-venire come altro che non c’è già più, la cui vita porta già in sé la morte a-venire.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

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