A partire dal terzo capitolo, il testo della Bespaloff diviene, come del resto recita il sottotitolo, un saggio su Montaigne, su quell'autore che, rispetto alla scelta agostiniana di rifiutare se stessi per scegliere Dio, preferisce scegliere se stesso. Nulla di luciferino né di faustiano, però, in questa conversione al terreno: l’umanesimo critico di Montaigne non smette mai di biasimare l’orgoglio, di spogliare l’uomo della sua effimera regalità e lo lascia, sul gradino più basso, solamente con la soddisfazione virile di vederci chiaro, o piuttosto di sapere che non ci vedrà mai del tutto chiaro.
Montaigne si impegna a formare l'uomo aiutandolo a risolvere il problema che egli stesso si pone: come convertire all’autentico? La prima parte del compito di tale conversione consiste nell’utilizzare la negazione socratica per smuovere la tirannia dell’abitudine, il dispotismo delle idee preconcette, per dissolvere nella relatività del divenire i concetti e i dogmi che separano l’uomo dal reale. È necessario dissipare nell’uomo ogni apparenza di stabilità, togliergli tutti gli appoggi, distruggere fino alle fondamenta la sua sicurezza.
Non abbiamo alcuna comunicazione con l’essere, poiché ogni natura umana è sempre a metà fra il nascere e il morire, non percependo di sé che un’oscura apparenza e ombra, e un’idea malcerta e fragile. E se, per caso, vi ficcate in testa di voler capire il vostro proprio essere, sarà né più né meno che se uno volesse acchiappare l’acqua: poiché quanto più afferrerà e stringerà ciò che per sua natura scorre dappertutto, tanto più perderà ciò che voleva prendere e stringere in pugno (Saggi, II, 12).
Con questo Montaigne vuole esercitare lo spirito a cogliere il moto, a sopportare l’insicurezza del divenire; vuol far disperare la ragione, per costringerla a conoscere i suoi limiti. Allora, però, può iniziare la seconda parte di questo compito, perché accorgersi di questa situazione è già un sottrarvisi. Dopo aver dissolto l’essere nel divenire, dopo essersi sciolto e aver mollato la presa, si tratta adesso di rimettersi insieme, riprendersi, cioè costruirsi in seno al divenire.
Guardate dentro di voi, riconoscetevi, restate in voi: la vostra intelligenza e la vostra volontà, che si sperpera altrove, riportatela a se stessa; voi scorrete via, vi disperdete: rimettetevi insieme, puntellatevi; vi stanno tradendo, vi stanno disperdendo, vi stanno derubando di voi stessi (III, 9).
Montaigne ci restituisce il gusto di una libertà guarita dalla presunzione, di una libertà che si muove tra due poli: da un lato, l’obbedienza e l’accettazione dell’ignoranza; dall’altro, la fedeltà all’istante, alla verità soggettiva, che implica il dubbio, l’autocritica, l’incertezza, la dialettica delle contraddizioni.
In questo Montaigne non ha torto di richiamarsi a Socrate: la sua è una saggezza in fase di apprendimento, fino alla morte. E tale saggezza ha origine e fine nell’esperienza del presente autentico che la Bespaloff chiama istante, per sottolineare che il punto di arrivo è identico al punto di partenza, che non c'è promessa di sicurezza né stabilità, che non c'è alcuna giustificazione o redenzione finale. Limitatezza, per Montaigne, non è sinonimo di fallimento, né il fallimento, del resto, sinonimo di assurdo.
Montaigne ha dimostrato abbastanza chiaramente che è scrivendo che si rafforza e si forma.
Non ho fatto il mio libro più di quanto il mio libro abbia fatto me; libro consustanziale al suo autore (II, 18).
È un’impresa spinosa, più di quanto sembri, seguire un incedere vagabondo come quello del nostro spirito; penetrare le profondità opache dei suoi meandri interni; scegliere e fissare tanti minimi aspetti dei suoi turbamenti (II, 6).
Questa impresa non è solo l’esplorazione, bensì ciò che l’opera fa dell’esploratore che si osserva e si sorprende. L’io dell’opera comincia a esistere solo nel momento in cui l'autore gli dà corpo fissando nella scrittura le agitazioni, le contraddizioni della soggettività sfuggente.
Non c’è descrizione difficile quanto la descrizione di se stessi, né certo altrettanto utile. Bisogna bene pettinarsi, bisogna bene mettersi in ordine e rassettarsi per presentarsi in pubblico. Ebbene io mi faccio bello continuamente, perché mi descrivo continuamente (II, 6).
Riconoscendo l’impossibilità di descriversi senza farsi belli, di comunicarsi senza trasformarsi, Montaigne non sostituisce un essere fittizio a un essere reale, ma al contrario, ciò implica che solo attraverso la voce e l’intervento stilistico è possibile la vittoria dell’io autentico sull’io in via di disgregazione perpetua. Perché l'io autentico possa apparire, è necessario allentare il legame tirannico che assoggetta l’individuo al momento, alla mentalità, alla moda esterna. La risposta definitiva della saggezza di Montaigne è la grazia, come libertà conquistata, come frutto di un allenamento paziente come quello del ballerino, e a volte rigido come quello dell’asceta. Montaigne insegna modestamente a non trasformare la vita in un inferno. Ed è già molto difficile.
2 interventi:
Comunicandoci ci trasformiamo, ma forse è l'unico modo che abbiamo di darci, come afferma Montaigne.
Qui molto vicino al Nietzsche per cui ciò che è profondo ama la maschera.
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