Con il breve, lucido, incisivo saggio Sulla libertà delle donne, Valeria Ottonelli riesce a decostruire e mettere in discussione i principi di un certo femminismo moralista – subito definito come «una posizione culturale e politica che, nel nome della libertà delle donne e della loro "dignità", assume un atteggiamento sostanzialmente censorio» e «nel fare questo si appella a un orizzonte simbolico e valoriale sostanzialmente conservatore e impone modelli di vita e di società che altro non sono se non rivisitazioni in chiave laica di vecchi miti familisti, religiosi e tradizionalisti» – che pretenderebbe di detenere il diritto unico all'idea e all'immagine della "vera" donna, della femminilità "autentica". Come ricorda l'autrice, come ogni invito al "se stessi" vero e autentico, anche questo femminismo finisce per cadere, invece, nell'invito «ad aderire a un qualche modello di come dovremmo essere e che è diverso da come appariamo agli altri e da come gli altri ci interpretano». L'esortazione ha sempre un che di violento nel suo tendere all'uniformità e all'adeguamento rispetto a un modello proposto come quello giusto, nel suo misurare, paragonare, giudicare e condannare che sembra negare una certa libertà piuttosto che promuoverla e garantire l'emancipazione da stereotipi.
Nei discorsi pubblici di questo femminismo moralista la Ottonelli riconosce una certa «ipocrisia e connivenza con gli standard di un'etica essenzialmente conservatrice e tradizionalista», una certa incapacità nel riconoscere quale fondamento della giustizia la libertà di scelta e di autodeterminazione, giustificate falsamente dai richiami all'uguaglianza e alla parificazione intese più che altro come condivisione di un peso e di un fardello socialmente imposti anziché come reale emancipazione da essi.
1 interventi:
Posso anche concordare ma dovrei essere 'donna' per capire meglio.
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