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giovedì 20 febbraio 2025

il wargame storico, una public history diffusa

Soldatini di piombo, reggimenti di carta
Il wargame come lo intendiamo oggi ebbe origine intorno alla fine del XVIII secolo presso la corte prussiana: Kriegsspiel, per l’appunto, gioco di guerra. In tale forma, uscirà rapidamente dai salotti degli aristocratici di corte, per entrare nelle caserme dei militari che ne avevano subito intravisto l’utilità. Già in questa prima epoca rinveniamo sui tavoli del Kriegsspiel riproduzioni topografiche, calcoli statistici e accorgimenti come l’inserimento di tabelle casuali ponderate da confrontare con il tiro di quantità e tipologie ben definite di dadi: tutti elementi che ritroviamo ancora oggi nel wargame civile. Né mancavano rievocazioni di battaglie e campagne militari effettivamente avvenute, con scenari scritti sulla base delle fonti dell’epoca. La fama di questo nuovo strumento si diffonde rapidamente nel continente europeo, ma nel mondo anglosassone diventerà uno svago intellettuale da storici e scrittori quali Robert Louis Stevenson, sia nella sua versione su mappa che con l’ausilio di plastici e miniature. A questi si unirà in seguito anche un altro grande autore, H. G. Wells, che in una breve opera, Little Wars (1913), descrive regole relative agli scontri tra soldatini della sua collezione schierati sul pavimento del salotto. Il gioco storico di argomento militare subisce una vera e propria rivoluzione verso il finire degli anni Cinquanta. È infatti nel 1958 che Charles S. Roberts pubblica con la casa editrice Avalon Hill il gioco Tactics II, simulazione di un conflitto tra due nazioni ipotetiche, e nel 1961 Gettysburg, il primo wargame su mappa dedicato a una battaglia storica. Nel 1964 Roberts sostituisce la griglia ortogonale con una più versatile griglia a esagoni e da allora la “mappa esagonata” diverrà una costante di questo genere di giochi. La Avalon Hill sarà in breve tempo affiancata da altre ditte, che incrementeranno il livello di realismo e di ricerca storica.  Fin dalle origini esiste nei wargame una dicotomia tra simulazioni basate su segnalini che si spostano su una mappa (counters) e regolamenti che prevedono lo spostamento fisico di componenti di gioco su plastici tridimensionali: dai primi avremo quelli che vengono definiti boardwargames, dai secondi i miniature wargames. Non si tratta di differenze meramente estetiche, il supporto materiale condiziona il gioco anche dal punto di vista funzionale, imponendo all'attività ludica focus ben diversi. Il gioco su tabellone (hex-and-counter) si rivela eccezionalmente versatile per la descrizione di fenomeni storici complessi, che vanno al di là del mero aspetto bellico. Così, accanto a giochi più prettamente militari compaiono titoli politico-diplomatici come Origins of World War Two (1971) e The Plot to Assassinate Hitler (1976).  Maggiormente legato alla tradizionale raffigurazione bellica appare invece il wargame tridimensionale. La sua dipendenza da un elemento esterno come la presenza di miniature e l’interazione fisica con un plastico del terreno spingono a concentrare l’attenzione sull’hic et nunc della simulazione.  Bi o tridimensionale che sia, il gioco storico appare riconducibile a un comune tentativo di infondere nuova vitalità alla consapevolezza del passato nel grande pubblico. La Storia si mette in gioco
Quali sono i canali attraverso cui il gioco può davvero farsi strumento di crescita culturale?

  1. Il primo impiego del gioco di simulazione nell’ambito di un percorso di avvicinamento alla storia è quello legato a programmi didattici istituzionalizzati. Il gioco di simulazione permette a un docente di affiancare alla lezione su un determinato argomento la spiegazione delle regole del gioco stesso, con l’occasione analizzando i motivi che hanno spinto l’autore a dare un certo valore alle unità, a escogitare una certa meccanica, a definire certi parametri. Per garantire l’imprescindibile approfondimento storico sarà sempre necessario fare ricorso a testi specialistici e a fonti dirette, ma tali materiali - una volta rivisti nell’ambito di un processo interattivo di apprendimento - verranno come “rivitalizzati”.
  2. In una seconda modalità, quella forse più vicina al tradizionale concetto di public history, l’impiego pubblico del gioco storico si affianca a altre forme di rievocazione più frequenti, con partite dimostrative, tornei o lezioni ludico-interattive. Un esempio in tal senso è stato l’incontro tenuto dal game designer Andrea Angiolino presso il Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, durante il quale ha guidato il pubblico in una partita collettiva del suo libro-gioco dedicato alle imprese dei bombardieri e aerosiluranti SM79, commentandola con notazioni di carattere storico sul secondo conflitto mondiale nel Mediterraneo. Per citare un altro caso, per quasi venti anni nei pressi di Parigi si è svolto il Trophée du Bicentenaire, giocando i numerosi scenari del regolamento Jours de Gloire/Triumph & Glory esattamente a 200 anni dalla data storica delle rispettive battaglie rappresentate [Lonato, 1796 - Waterloo, 1815]. Un ulteriore esempio in tal senso è rappresentato da Memoir ‘44, wargame leggero sulla Seconda guerra mondiale che ha ottenuto grande successo nei negozi di souvenir della Normandia proprio durante le celebrazioni del sessantesimo anniversario del D-Day. Ancora, realtà pubbliche di rilevanza culturale e amministrazioni locali dedicate alla salvaguardia delle aree in cui si sono svolti eventi storici e bellici hanno in diversi casi patrocinato o collaborato alla creazione di giochi di simulazione, fornendo materiali e organizzando sopralluoghi sul campo: questo il caso del wargame Radetzky’s March, arricchito dal contributo dell’Associazione Amici del Parco della Battaglia di Novara.
  3. Un terzo modo di esplicarsi del rapporto tra gioco storico e public history è quello per certi versi rimasto più legato alle sue origini. Il Kriegsspiel arriva infatti ai giorni nostri sotto forma di professional wargaming, ossia l’impiego della simulazione da parte di militari e analisti di intelligence. Fu quel che accadde con l’Operazione Desert Shield del 1990, quando a seguito dell’invasione del Kuwait da parte delle truppe irachene, la leadership militare americana fu chiamata a organizzare in tutta fretta un dispiegamento difensivo senza avere predisposto in precedenza alcun piano operativo. Un ufficiale appassionato di wargames propose allora di sfruttare uno scenario ipotetico che descriveva proprio un intervento analogo contenuto in Gulf Strike (1983), trasformato così nel primo gioco di simulazione civile a essere utilizzato nell’ambito di una pianificazione militare reale. Tre sono i settori in cui si esplica l’impiego professionale del gioco di simulazione: definizione di modelli predittivi, addestramento del personale, formazione indiretta. Nel primo caso ci troviamo davvero al cospetto dell’utilizzo più classico del Kriegsspiel: studiare piani operativi e alternative strategiche in esercitazioni su mappa o plastico; un esempio in tal senso è rappresentato dalle simulazioni navali tridimensionali tenute dalla Western Approaches Tactical Unit nel corso della cosiddetta Battaglia dell’Atlantico, dal 1942 al 1945. Il terzo e ultimo impiego operativo del gioco è quello di affinamento delle soft skills: lavoro di squadra, sviluppo dell’empatia, addestramento al problem solving.

“Attaccante Si Ritira”: Le criticità del gioco storico
Esaminate le manifestazioni del rapporto tra gioco storico e public history, non ci resta che esaminare le sue problematiche ma anche i suoi punti di forza. Partiamo dalle prime.
  1. La simulazione è per sua natura una semplificazione. I giochi storici sono frutto della visione che il rispettivo autore ha dei fatti rappresentati e di scelte nel suo processo creativo. Appare così chiaro come un utilizzo combinato e ragionato del rigore della storiografia tradizionale e della libertà del gioco di simulazione possa dare ottimi risultati a patto che l’intera esperienza sia mediata da esperti capaci di evidenziare i punti più critici.
  2. Altre critiche possono appuntarsi sulla opportunità etica. Il gioco di simulazione, per ottenere il suo obiettivo di rappresentare la realtà, deve mettere i giocatori nei panni di tutti i contendenti e per farlo deve “sollevarsi” da qualsiasi valutazione di carattere etico o politico. Questo però non significa che i partecipanti siano incoraggiati a giustificare le opinioni di coloro che rappresentano in gioco. Si recupera anzi la lezione di H. G. Wells sull’impiego del gioco come strumento di comprensione delle storture e dell’ipocrisia del momento bellico, o anche il messaggio contenuto nella Lettera a mio figlio di Umberto Eco.
  3. Infine, esiste un terzo aspetto. Come conciliare le esigenze formative con l’indisciplinatezza insita nel momento ludico.
“Difensore Eliminato”: Le virtù del gioco storico
  1. Il primo di questi elementi è insito alla natura stessa del gioco di simulazione. Gli studiosi di storia militare ben conoscono la diatriba esistente tra due grandi teorici del passato: Antoine-Henri de Jomini e Carl von Clausewitz. Laddove il primo appare più attento all’analisi geometrica dell’applicazione delle forze e all’elencazione delle casistiche tattico-strategiche, il secondo è tra i primi a aver definito l’elemento irrazionale dei conflitti. I wargames si piazzano esattamente nel mezzo. Due sono infatti i componenti base del gioco di simulazione che simboleggiano l’equilibrio raggiunto tra dinamica delle forze e calcolo dei fattori irrazionali: da una parte le griglie sulle mappe o il centimetro usato per le misurazioni, dall’altra il dado che con la sua casualità in vari modi inserisce nel gioco l’aspetto casuale ponderato. Considerando ciò, il gioco di simulazione è in grado di mostrare con estrema chiarezza l’interazione sul campo e negli eventi storici di queste due grandi forze: la pianificazione e l’imprevisto.
  2. Parlando di casualità ponderata, viene facile trattare di un altro elemento di pregio del gioco storico, ossia l’inclusione sempre crescente di fattori storici complessi nella simulazione (controllo politico, dinamiche economiche, rivolte e tradimenti). La simulazione si fa sempre meno lineare e geometrica, andando a approfondire la ricerca storica e indagando sulle cause remote degli eventi anche al di là dei fatti contingenti mostrati dalla simulazione. Lo scotto da pagare per un’integrazione così profonda degli elementi storici complessi è certo un aumento della complessità generale, una diminuzione dell’immediatezza del gioco.

(da Riccardo Masini, Il Wargame storico. Una public history diffusa, in Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica).

domenica 16 febbraio 2025

desiderare draghi con tutto il cuore (on fairy-stories 1di2)

Altro libro letto per il gruppo di lettura di questo mese è stato Albero e foglia di J.R.R. Tolkien. Il volume, pubblicato nel 1964, riunisce il racconto "Foglia", di Niggle e il saggio Sulle fiabe; nell'edizione da me letta sono inclusi anche la poesia Mitopoeia e un altro paio di racconti.

In On Fairy-Stories Tolkien si interroga innanzitutto su cosa sia una fiaba, non trovando adeguate le definizioni da dizionario che rimandano o a un racconto riguardante le fate, o a una storia irreale o incredibile ovvero una fola. Definizioni tanto meno adeguate se si guarda a come le fate siano a loro volta definite nei lessici: esseri soprannaturali di piccola statura. Ora, argomenta Tolkien, soprannaturale è un aggettivo ambiguo, comunque difficile da riferire alle fate: infatti, è l'uomo che, a paragone delle fate, è soprannaturale, laddove esse sono naturali, assai più naturali di quanto non sia lui. E quanto alla statura minuscola, la piccolezza non è una caratteristica del popolo fatato, degli abitanti di Feeria nel loro complesso, essa rientra piuttosto, a giudizio dell'autore, nell'amore tipicamente inglese per il delicato e il grazioso, e, pure, Tolkien ha il sospetto che questa minuzia di fiori e farfalle sia in parte il prodotto di una razionalizzazione che ha trasformato la malia del paese degli elfi in mera sottigliezza, e l'invisibilità in una fragilità tale da potersi celare in una primula: è una tendenza che sembra essere divenuta di moda non appena i grandi viaggi hanno cominciato a far apparire il mondo angusto per gli uomini e gli elfi assieme.
La definizione è troppo ristretta, le storie di fate non sono storie su fate o elfi, bensì vicende in cui si narra del mondo fatato, cioè Feeria, reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate, gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, e la terra e tutte le cose che sono in essa. Gran parte delle fiabe parlano di avventure di uomini nel Reame Periglioso o nelle sue incerte marche di frontiera. Ciò che una favola è non dipende da elfi o fate, bensì dalla natura di Feeria, del Reame Periglioso, dall'atmosfera che vi domina.
Così, non rientra nelle fiabe il genere dei racconti di viaggio, i quali riferiscono molte meraviglie, visibili però in questo mondo mortale. I racconti di Gulliver non hanno diritto d'accesso in questa categoria. In secondo luogo, oltre ai racconti di viaggio, Tolkien esclude e definisce non pertinente qualsiasi racconto che ricorra al meccanismo del sogno per giustificare le meraviglie che vi compaiono: per una fiaba è essenziale che essa sia presentata come vera, dunque le storie dell'Alice di Lewis Carroll non possono dirsi fiabe. C'è poi un altro tipo di racconto meraviglioso che Tolkien escluderebbe, ovvero le favole di animali puramente tali, quelle in cui la forma animale non è che una maschera su un volto umano, un espediente cui fa ricorso il satirico o il predicatore. I racconti di Beatrix Potter si situano al di qua dei confini di Feeria.

Tolkien si interroga poi sull'origine delle fiabe, argomentando che evoluzione indipendente, derivazione da un ceppo comune, oppure diffusione in varie epoche da uno o più centri, tutte e tre le possibilità riconducono a un inventore, a un narratore. La mente incarnata, la favella e il racconto sono, nel nostro mondo, coeve: la mente umana, dotata dei poteri di generalizzazione e astrazione, percepisce non soltanto erba verde distinguendola da altri oggetti, ma s'avvede che è sia verde sia erba. E quanto possente è stata l'invenzione dell'aggettivo, nessuna formula magica o incantesimo lo è di più. La mente che pensò leggero, pesante, grigio, giallo, immobile, veloce, concepì anche la magia atta a rendere cose pesanti, leggere e atte a volare, a trasformare il grigio piombo in giallo oro, l'immobile roccia in acqua veloce. Se possiamo distinguere il verde dall'erba, l'azzurro dal cielo, il rosso dal sangue, abbiamo già il potere di un mago, e si desta allora il desiderio di esercitare tale potere sul mondo esterno alla nostra mente: possiamo stendere un ferale verde sul volto di un uomo e generare un orrore, possiamo far germogliare boschi di argentee foglie e far indossare agli arieti velli d'oro, possiamo mettere fuoco caldo nel gelido ventre del drago. Ma tali fantasie sono la matrice di nuove forme, ha inizio Feeria, l'uomo diviene un subcreatore.

Opportuno poi per Tolkien passare ai bambini, per disinnescare la connessione istituita tra essi e fiabe. Le fiabe, nel moderno mondo alfabetizzato, sono state relegate nella stanza dei bambini, così come mobili sciupati o fuori moda vengono relegati nella stanza dei giochi. In tempi recenti è stato prodotto uno spaventoso sottobosco di racconti scritti o adattati - edulcorati, espurgati, spesso sciocchi, leziosi, paternalistici - a quello che è ritenuto essere il livello della mente e dei bisogni infantili, come può accadere con la musica, la poesia, la storia, i manuali scientifici,  concedendo così alla stanza dei bambini e all'aula scolastica assaggi e barlumi del mondo adulto che, nell'opinione dei grandi (spesso assai errata), sono adatti ai bambini stessi. Tutto questo nella convinzione che caratteristiche dei bambini siano la credulità e appetito per le meraviglie.
Ma, rammenta Tolkien di se stesso, non ho mai pensato che il drago appartenesse allo stesso ordine del cavallo, il drago portava il marchio Made in Feeria impresso a chiare lettere, e quale fosse il mondo in cui menava la sua esistenza era pur sempre un Altro Mondo. La fantasia, la creazione o il balenare di Altri Mondi costituiscono il nucleo del desiderio di Feeria. Desideravo draghi con tutto il mio cuore: il mondo che comprendeva un Fàfnir, sia pure soltanto immaginario, era più ricco e più bello, per quanto pericoloso fosse. L'abitante delle tranquille e fertili pianure può sentirsi raccontare delle colline impervie e dei mari infecondi, e desiderarli in cuor suo, perché il cuore è saldo anche se il corpo è debole.
Si deve sperare che i bambini potranno avere fiabe a loro misura, al di là anziché al di sotto della loro misura. I loro libri, al pari dei loro indumenti, dovrebbero tener conto della crescita, e in ogni caso i libri dovrebbero incoraggiarla.

venerdì 14 febbraio 2025

libri acquistati con il bonus docente (2) + altri ultimi acquisti

Siamo al secondo acquisto librario realizzato grazie al bonus docente.
Intanto abbiamo arricchito ulteriormente il nostro stash con altri due volumi di Vogue Knitting: la guida definitiva per imparare a lavorare a maglia,The Learn-to-Knit Book, e la versione portatile, da viaggio, per rapidi riferimenti sulle tecniche di maglia, The Ultimate Quick Reference. Altro campo di interesse, la calligrafia, coperto con  A to Z of Copperplate calligraphy, per imparare la calligrafia, padroneggiare la scrittura a mano in corsivo attraverso un quaderno di esercizi per principianti.
Quattro racconti per l'infanzia di un Charles Dickens, Storie fantastiche delle vacanze, cui sono arrivato dal saggio dedicato allo scrittore inglese da Gilbert Keith Chesterton citato da Tolkien nel suo scritto Sulla fiaba, letto questo mese. La sospensione dell'incredulità è il presupposto di un racconto introduttivo uscito dalla penna di un bambino di otto anni. Una lisca magica che, per una sola volta può esaudire qualunque desiderio viene donata da una Fata a una piccola Principessa. Un piccolo Capitano coraggioso di nome Boldheart combatte la sua guerra personale contro le angherie del Maestro di Grammatica Latina. Distinti ed educati piccoli signori accudiscono i grandi come fossero i loro bambini, in un paese incantato dove i grandi non devono mai far tardi, devono sempre ubbidire e per punizione sono messi nell'angolino.
Consigliato da un collega, Il serpente di Ouroboros di Eddison Eric Rücker ci trasporta, come in un sogno, in una terra lontana governata dalle leggi della magia, dove due regni sono in lotta per la gloria o la distruzione totale. Il duello mortale tra Gorice, il Re stregone di Witchland, e Goldry, Signore di Demonland, segna l’inizio di una guerra che coinvolgerà eroi, mostri, incantatori e principesse, trascinati nel vortice delle armi fino all’inaspettato finale. Pubblicato nel 1922, il romanzo fonde in una nuova forma letteraria elementi dell’epica classica, delle saghe nordiche, dei poemi cavallereschi e del romanzo gotico: è l’atto di nascita del fantasy, anni prima che Tolkien, amico e attento lettore di Eddison, creasse Arda. 
Filosofia, matematica, Deleuze, stile. Tutte parole che non possono non interessarmi. In che modo è possibile pensare il rapporto tra la matematica e il pensiero di Gilles Deleuze? Ancor più radicalmente: come è possibile pensare matematica e filosofia, scienza e filosofia, senza ricalcare i domini disciplinari della logica e della filosofia della matematica? Il volume di Andrea De Donato Morfogenesi del concetto. Matematica e stile a partire da Gilles Deleuze si propone di ricostruire le radici matematiche della metafisica deleuziana attraverso un costante contrappunto della filosofia con le matematiche più recenti, in particolare l’analisi complessa, le geometrie riemanniane e sub-riemanniane e i modelli neurogeometrici della morfodinamica contemporanea. L’idea alla base di questo studio è che un simile contrappunto non debba essere giustificato tramite delle analogie disciplinari tra diversi ambiti del sapere, ma a partire da una più profonda analisi dello stile in cui un pensiero prende forma. In tal senso, si propone l’idea di una logica dello stile, ben diversa dalla stilistica, che prende il nome di stilologia.
Infine, anche se deve ancora arrivare, il primo volume di una nuova collana della Carocci dedicata al gioco, Giochi per scrivere meglio, in cui Beniamino Sidoti mostra come scrivere sia una tecnica che si può acquisire, migliorare, condividere, approfondire e, come ogni tecnica, appresa anche giocando. Il libro propone un'ampia raccolta di giochi, sperimentati in contesti diversi nell'arco di trent'anni e di provata efficacia, da utilizzare a scuola o nella formazione, in attività sociali, individuali o di coppia. Sono giochi per imparare a scrivere meglio, per sviluppare nuove competenze e scoprire stili o generi letterari divertendosi. Perché ogni gioco permette di fare un passo in più, e tutti insieme di fare molti passi. Beniamino Sidoti è stato uno dei docenti del del corso di perfezionamento in Gaming and Boardgame Design organizzato dall'Università di Genova che ho seguito la scorsa estate, e un paio di suoi esercizi li ho già utilizzati a scuola.

Ne approfitto però anche per segnalare altri ultimi acquisti in libreria.
A fine gennaio abbiamo acquistato L'ora di greco, del premio Nobel per la letteratura 2024 Han Kang. In una Seoul rovente e febbrile, una donna vestita di nero cerca di recuperare la parola che ha perso in seguito a una serie di traumi. Le era già successo una prima volta, da adolescente, e allora era stato l’insolito suono di una parola francese a scardinare il silenzio. Ora, di fronte al riaffiorare di quel mutismo, si aggrappa alla radicale estraneità del greco di Platone nella speranza di riappropriarsi della sua voce. Nell’aula semideserta di un’accademia privata, il suo silenzio incontra lo sguardo velato dell’insegnante di greco, che sta perdendo la vista e che, emigrato in Germania da ragazzo e tornato a Seoul da qualche anno, sembra occupare uno spazio liminale fra le due lingue. Tra di loro nasce un’intimità intessuta di penombra e di perdita, grazie alla quale la donna riuscirà forse a ritornare in contatto con il mondo. 
E, consigliato da Simone Regazzoni, L'anniversario di Andrea Bajani. Si possono abbandonare il proprio padre e la propria madre? Si può sbattere la porta, scendere le scale e decidere che non li si vedrà più? Mettere in discussione l’origine, sfuggire alla sua stretta? Dopo dieci anni sottratti al logoramento di una violenza sottile e pervasiva tra le mura di casa, finalmente un figlio può voltarsi e narrare la sua disgraziata famiglia e il tabù di questa censura con la forza brutale del romanzo. E celebrare così un lacerante anniversario: senza accusare e senza salvare, con una voce scandalosamente calma, come scrive Emmanuel Carrère a rimarcarne la potenza implacabile. Il racconto che ne deriva è il ritratto struggente e lucidissimo di una donna a perdere, che ha rinunciato a tutto pur di essere qualcosa agli occhi del marito, mentre lui tiene lei e i figli dentro un regime in cui possesso e richiesta d’amore sono i lacci di un unico nodo. L’isolamento stagno a cui li costringe viene infranto a tratti dagli squilli di un apparecchio telefonico mal tollerato, da qualche sporadico compagno di scuola, da un’amica della madre che viene presto bandita. In questo microcosmo concentrazionario, a poco a poco si innesta nel figlio, e nei lettori, un desiderio insopprimibile di rinascita - essere sé stessi, vivere la propria vita, aprirsi agli altri senza il terrore delle ritorsioni. Con la certezza che, per mettersi in salvo, da lì niente può essere salvato. L’anniversario è prima di tutto un romanzo di liberazione, che scardina e smaschera il totalitarismo della famiglia. Ci ferisce con la sua onestà, ci disarma con il suo candore, ci mette a nudo con la sua verità. È lo schiaffo ricevuto appena nati: grazie a quel dolore respiriamo. Dieci anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.

Ieri, invece, dopo il pomeriggio passato a scuola per il gruppo di lettura, abbiamo preso in libreria l'Atlante sentimentale dei colori di Kassia St Clair, 76 storie straordinarie, da amaranto a zafferano, per superare l'abitudine a pensare ai colori come a entità astratte, eteree e immutate, codificate una volta per tutte in manuali e cataloghi. Non è così. Gli antichi greci per esempio non riconoscevano al blu una sua precisa identità cromatica, tant’è che il mare nell’Iliade è colore del vino e non sembra in nulla uguale al cielo. Anche i colori insomma hanno una vita: nascono, crescono e muoiono, e a volte hanno seconde e terze vite. Non solo: per ogni colore ci sono centinaia di tonalità, ognuna con caratteristiche e origini precise. Non esiste solo il rosso, ma un prisma intero dallo scarlatto al vermiglione, dalla cocciniglia che si spreme da un insetto alla lacca di garanza estratta da una radice, dal rosso corsa, antenato del celebre rosso Ferrari, all’esotico sangue di drago ricavato da una resina asiatica. E se ogni sfumatura ha la sua storia, è vero anche che ogni sfumatura ha cambiato la nostra storia: la calce con cui si imbiancano i muri si diffuse per disinfettare gli edifici durante le epidemie; il kaki rivoluzionò la guerra introducendo negli eserciti il concetto di camouflage; l’assenzio tinse di verde i sogni dei poeti maledetti; ed è grazie al lapislazzuli, giunto dall’Estremo Oriente, se l’oro degli sfondi medievali si tramutò nel blu oltremare dei cieli rinascimentali, facendo entrare prepotentemente quel colore nella storia dell’Occidente. Tra storia e arte, moda e politica, antropologia e cultura pop, il testo restituisce l’arcobaleno che dà forma al mondo che ci circonda, alla cultura in cui siamo immersi.
Stella distante di Roberto Bolaño, acquistato anche perché il tema dell'incontro del prossimo mese del gruppo di lettura è stelle. Chi è stato Carlos Wieder? Un poeta o un assassino? Un artista o un criminale? Un pilota spericolato che si esibiva in performance di scrittura aerea o un autore di snuff movies? E ha veramente arrestato e torturato e ucciso, nei mesi successivi al golpe di Pinochet, decine di persone, per poi esporre le foto dei cadaveri ridotti a brandelli perché convinto della assoluta, gratuita purezza del male - perché solo il dolore è in grado di rivelare la vita, e perché lo scopo della sua è l'esplorazione dei limiti? Nulla, sembra ribadire l'autore, è più sfuggente della verità. Tant'è che, una pagina dopo l'altra, un tassello dopo l'altro - attraverso un accumulo di indizi, molti dei quali di natura squisitamente letteraria, e di storie parallele, alcune tragiche, alcune grottesche, alcune paradossalmente fiabesche (ma tutte, sempre, eccessive, come il Cile di quegli anni) -, il nostro percorso di avvicinamento a quella che potrebbe essere la verità diventa via via più sdrucciolevole, come se l'autore medesimo ci invitasse a dubitare degli eventi che narra non meno che degli scrittori che cita, delle poesie, delle riviste, dei movimenti letterari a cui allude. Nonché, in definitiva, della esistenza stessa di un uomo chiamato Carlos Wieder.
Dal 1970 al 1987, Gilles Deleuze tenne un corso di filosofia settimanale all’Università sperimentale di Vincennes che a partire dal 1980 si trasferì a Saint-Denis. Le otto lezioni tenute dal filosofo francese tra il marzo e il giugno 1981, sono state trascritte e annotate nel volume Sulla pittura. Che rapporto intrattiene la pittura con la catastrofe, oppure con il caos? Come evocare il monocromo e affrontare il colore? Cos’è una linea priva di contorno? Cosa sono una superficie, uno spazio ottico puro, un regime cromatico? Cézanne, Van Gogh, Michelangelo, Turner, Klee, Mondrian, Pollock, Bacon, Delacroix, Gauguin o Caravaggio costituiscono per il filosofo francese altrettante occasioni per discutere concetti fondamentali come quelli di codice, diagramma, figura, analogia, modulazione. Insieme ai suoi studenti, Deleuze ripensa radicalmente i concetti ai quali fa abitualmente riferimento la nostra comprensione dell’attività creatrice dei pittori. Concreto e luminoso, il pensiero deleuziano si offre qui al lettore al più alto grado della sua particolarissima forza espressiva. 

giovedì 13 febbraio 2025

napoleone e l’arte dei dittatori moderni

Il secondo dei due testi che prendo e propongo per approfondire il tema del potere politico e della sua legittimità è il primo capitolo del saggio Il bello, il buono e il cattivo di Demetrio Paparoni, testo che indaga come la politica abbia condizionato l’arte negli ultimi cento anni.

Nel Seicento, con l’assolutismo di Luigi XIV, e nel Settecento, con l’Illuminismo e la Rivoluzione, la Francia si affermava come una grande potenza dominante in Europa, sia sul piano politico e militare, sia su quello culturale. Ma a imprimere la svolta che avrebbe incoronato Parigi capitale mondiale dell’arte moderna fu Napoleone. Consapevole del fatto che le conquiste militari portano espansione e potere ma non consenso, Napoleone aveva intuito che la Francia avrebbe ottenuto l’egemonia politica sul mondo solo se avesse acquisito anche quella culturale. Assunse così un ruolo attivo nella gestione dei teatri parigini, entrando nel merito delle scelte dei programmi e degli attori; promosse l’architettura e la realizzazione di grandi monumenti; esercitò una forte influenza sugli artisti francesi dell’epoca; favorì gli spettacoli musicali. Ma il suo vero colpo di genio fu la straordinaria raccolta di opere d’arte antica che, perlopiù requisite nel corso delle campagne militari in Europa, soprattutto nei Paesi Bassi e in Italia , fecero del Louvre uno dei più importanti musei del mondo. 

Fu Napoleone a dare una svolta al Louvre. Credette così tanto nella capacità della cultura di far grande una nazione che, oltre ad accumulare opere prestigiose, impose al Louvre l’apertura giornaliera al pubblico, ne affidò la direzione generale a Vivant Denon, amico di Jacques-Louis David e artista anch’egli, inventando così la moderna figura del conservatore di museo (Bonaparte conferì al pittore neoclassico Andrea Appiani, che gli avrebbe dedicato diversi ritratti, lo stesso ruolo per la Pinacoteca di Brera).

Convinto per altro verso che gli abiti con cui ci si presenta in pubblico denotano il proprio status, dunque il proprio potere, Napoleone intuì che anche la moda avrebbe potuto giocare un ruolo nell’accrescere la reputazione della Francia. Apprezzava e sosteneva pubblicamente la rivista di cronaca mondana e di moda Journal des Dames et des Modes, che, attraverso acqueforti dettagliatissime, propose nei suoi inserti abiti che per originalità e gusto delinearono uno stile che avrebbe fatto proseliti nel mondo, contribuendo all’affermazione di una scuola della moda francese che impose al mondo modelli di vita e di comportamento.

In quanto capo militare dotato di poteri straordinari, Napoleone si può considerare un dittatore. Fu indubbiamente un leader carismatico, sostenuto dal consenso del popolo che gli riconobbe la capacità di modernizzare la nazione. Napoleone fu dunque insieme dittatore e principe illuminato. Per rafforzare il suo potere diede grande importanza alla propria immagine, come testimoniano i tanti ritratti a lui dedicati. Nell’iconografia che lo riguarda, gli abiti e le pose lo rendono un personaggio subito riconoscibile. Facendo propria la strategia della Chiesa, che aveva affidato all’arte il grande racconto delle Sacre Scritture per parlare a chiunque, agli ignoranti come ai colti, rivoluzionò inoltre l’idea della propaganda politica, dando incarico ai migliori pittori e scultori del tempo di glorificare la sua figura attraverso opere intese come veri e propri manifesti pubblici. La capacità di Napoleone di creare nuovi modelli di comunicazione fu tale che l’arte che lo celebrò avrebbe rappresentato, ancora a distanza di un secolo, un modello per i principali dittatori del Novecento, sia sul piano stilistico, sia su quello formale. 

L’arte propagandistica sovietica e quella nazista hanno trovato nel Neoclassicismo, in virtù delle sue caratteristiche formali, stilistiche e di contenuto, il modello ideale per rappresentare il consenso popolare di cui godevano i propri leader. Non è un caso che il maresciallo bolscevico Georgij Žukov, identificato nell’immaginario collettivo popolare russo come il Napoleone dell’Unione Sovietica, sia stato raffigurato su un cavallo impennato sulle zampe posteriori. La posa evoca il Napoleone che varca le Alpi di Jacques-Louis David. Allo stesso modo, non è un caso che un altro ritratto dedicato sempre al maresciallo Georgij Žukov faccia il verso, in particolare nella postura e negli ornamenti onorifici, al ritratto di Napoleone realizzato da Andrea Appiani.

Ad accomunare l’arte gradita ai dittatori è l’idea dell’opera totale, dell’opera cioè che si identifica con l’intero contesto in cui è inserita. Muovendo dal presupposto che all’interno del regime tutto debba mirare al consolidamento di un progetto che si riconosce nel pensiero unico di chi governa, le dittature hanno considerato le arti strumenti al servizio del potere o dell’ideologia dominante. L’arte deve pertanto muoversi nella stessa direzione della politica. Questo implica che il suo linguaggio non può essere autonomo, libero di offrire una visione individuale. All’interno di una concezione univoca della storia, nella visione dei dittatori, tutte le forme di espressione creativa debbono mirare a costruire un sistema linguistico monolitico, in linea con i temi della politica. In base a questa logica, i regimi totalitari arrivano a eliminare fisicamente artisti e pensatori i cui ideali non coincidono con quelli della classe dirigente.

Nell’era napoleonica invece l’artista, pur aderendo a una concezione di opera d’arte totale, non fu costretto a muoversi in un contesto regolato da ordini, divieti e provvedimenti. Dal canto suo, Napoleone non accettava che artisti e intellettuali manifestassero pubblicamente dissenso nei suoi confronti. Non trasformò però la censura in repressione fisica, ma impose ai dissidenti l’allontanamento dai confini nazionali. Nonostante questo, nella Francia di Napoleone gli artisti furono liberi di scegliere i temi da affrontare.

Nel 1934, l’Unione Sovietica di Stalin mise nero su bianco che il realismo socialista “esige dall’artista una descrizione veritiera, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario”, precisando che “la veridicità e la concretezza storica della descrizione artistica della realtà devono coesistere con lo scopo del cambiamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”. Nella Germania di Hitler, le restrizioni furono altrettanto drastiche. Joseph Goebbels, ministro per la Propaganda, stigmatizzava come “arte degenerata” qualunque espressione artistica non rispondesse ai canoni dettati dal regime, costringeva all’esilio centinaia di artisti, organizzava roghi di libri non graditi. Nel discorso in cui elogiò il rogo di libri del 10 maggio 1933, Goebbels affermò che “il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri”, che era giusto “gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”. Nulla di simili avvenne nella Francia di Napoleone che, oltre a favorire le raccolte di sculture e dipinti, incoraggiò le collezioni di libri antichi, arazzi, stoffe, porcellane e qualunque altro tipo di manufatto testimoniasse sensibilità e impegno intellettuale.


Con la sua politica culturale, Napoleone creò i presupposti perché la Francia approdasse al Novecento come una straordinaria fucina di creatività.  Napoleone fu il primo dittatore moderno, sostenuto da un forte consenso popolare. Nessuno prima di lui aveva progettato un uso così determinato e diffuso su larga scala dell’arte figurativa propagandistica e autocelebrativa.

venerdì 7 febbraio 2025

napoleone e il bonapartismo

Nella classe quarta in cui insegno storia ho appena finito di spiegare l'età napoleonica e, prima di passare alla Restaurazione, mi fermo un po' con le ragazze e i ragazzi a riflettere sul potere politico e la sua legittimità. Come direbbe Max Weber, affinché lo Stato sussista, i dominati devono sottomettersi all'autorità di chi detiene il potere, e vi sono tre "giustificazioni interne", vale a dire tre tipi di legittimità di un potere: attraverso il costume, l'autorità tradizionale, ad esempio il potere esercitato dal patriarca o dal principe di stampo antico; attraverso la legalità, "in forza della disposizione all'obbedienza nell'adempimento di doveri conformi a una regola"; attraverso l'autorità carismatica, il carisma personale del "capo", ad esempio del condottiero in guerra o del demagogo nel parlamento. In qualche modo Napoleone sembra incarnare perfettamente tutte e tre queste giustificazioni e legittimità di potere.

Prendo e propongo allora due testi per approfondire. Il primo è il capitolo dedicato a Napoleone da Alberto Mario Banti nella raccolta I volti del potere.

Parigi, 2 dicembre 1804 Parigi. Chiesa di Notre-Dame. È mattina e tutto è pronto per l’incoronazione di Napoleone a Imperatore dei francesi. Ne è passato del tempo dal 18 brumaio 1799. Il potere di Napoleone è molto solido. Talmente solido che gli sembra sia giunto il momento di dargli la più clamorosa delle sanzioni ufficiali, combinando genialmente tradizione e innovazione. E così, il 18 maggio 1804 viene pubblicato un nuovo testo costituzionale che proclama Napoleone e i suoi discendenti titolari della dignità imperiale. Anche questa modifica viene sottoposta a plebiscito confermativo: i voti favorevoli sono oltre 3.000.000, i contrari 2.569, e di nuovo moltissimi sono coloro che non vanno a votare. Ma questa volta a Napoleone il plebiscito non basta. In forma singolarmente ibrida, l’esercizio della volontà popolare viene affiancato dalla messa in scena di un rito antico, quello dell’incoronazione dell’imperatore. Il ricorso al cerimoniale tardomedievale fa parte di una strategia che intende sottolineare il carattere dichiaratamente neomonarchico del potere riconosciuto a Napoleone. Però Napoleone non è un monarca per diritto ereditario. Lui ne è perfettamente consapevole e se ne vanta perfino, tanto che nel 1805 fa scrivere: “Le ricerche genealogiche sulla famiglia Bonaparte sono una fanciullagine. È facilissimo rispondere alla domanda ‘donde trae origine questa famiglia?’: dal 18 brumaio. Si può essere forse tanto importuni e mancare talmente di rispetto all’imperatore da annettere qualche importanza ai suoi antenati? Soldato, cittadino, sovrano, egli deve tutto alla propria spada e all’amore del popolo”. Non è un sovrano per diritto divino. E allora è necessario che nella cerimonia di incoronazione siano introdotte alcune varianti capaci di esprimere, in modo spettacolare, le peculiarità della nuova potestà imperiale. Quali sono?

Le corone imperiali non vengono poste dal papa sulle teste della coppia imperiale inginocchiata davanti a lui. Al momento giusto è invece Napoleone che si alza in piedi, prende la corona nelle sue mani, si volta verso il pubblico e, dando le spalle al papa, incorona se stesso; dopodiché pone la corona anche sulla testa di sua moglie inginocchiata davanti a lui.

Bonaparte incorona se stesso e la sua consorte dentro una chiesa sotto gli occhi di un annichilito e impotente pontefice, ma secondo un antico rito sacralizzante: è una rappresentazione che in una forma altamente sintetica esprime un modo di intendere la politica che unisce tradizione e innovazione. Napoleone è un sovrano che vuole conservare l’aura sacralizzante che da secoli è propria del potere, minimizzando però il ruolo di mediazione svolto dal vicario di Cristo; la vera legittimazione, il senso vero della sacralità che gli deriva da quel rito, Napoleone pensa di doverla solo a se stesso e alla forza che gli è stata data da atti molto terreni, come le vittorie militari, i colpi di Stato, i plebisciti: e così interiorizza l’aura sacrale che tradizionalmente appartiene alla figura del sovrano, facendola derivare principalmente da se stesso, come a voler sottolineare che tale aura è una funzione delle sue gesta più che l’effetto della mediazione papale e della benevolenza divina.


Il mito del grande dittatore, del condottiero capace di guidare masse di uomini al macello e alla gloria, non smette di brillare; e, ciò che è di più, è un mito che assume paradossali valenze “democratiche”.

Il dittatore bonapartista non è più il sovrano di antico regime. È un uomo uscito dall’oscurità del popolo, capace di farsi da sé, di imporsi per le sue doti magnetiche e carismatiche. È anche un “vero uomo”, dominatore di donne. È un leader che trova nell’esercizio della violenza bellica la massima espressione della sua mascolinità. Soprattutto, è un capo che vuole incessantemente ostentare il consenso popolare che sostiene la sua autorità: non importa se quel consenso è - in misura maggiore o minore - estorto con la repressione del dissenso o con la costante esibizione della forza militare: questo consenso è ciò che fa della dittatura bonapartista una sorta di dittatura “voluta” o “benedetta” dal popolo, e quindi ne fa qualcosa che potrebbe essere definito una “dittatura democratica”.

Ecco, questi sono i tratti di una figura e di un sistema politico che nascono con Napoleone, e che dopo la sua morte non smettono di esercitare il loro potere di fascinazione. In definitiva, la vera importanza storica di Napoleone consiste proprio nel fatto che con lui nasce la figura del dittatore contemporaneo, un “dittatore democratico” che, se non è propriamente “voluto” dal popolo, pretende sempre di parlare e di agire “in nome del popolo”: e, com’è piuttosto evidente, si tratta di una figura politica che sotto varie e diverse incarnazioni non ha mai smesso di abitare i sogni e gli incubi dell’Occidente e dell’America Latina, dai primi dell’Ottocento fino ai giorni nostri.

lunedì 3 febbraio 2025

libri acquistati con il bonus docente (1)

Abbiamo iniziato a spendere i nostri bonus docente, circa metà della somma totale di uno dei due è andata. Anche quest'anno in acquisto di libri.

Innanzitutto due romanzi pubblicati da piccole case editrici consigliati da Vanni Santoni.
Pubblicato nel 1926, a lungo tempo dimenticato, riscoperto nel 1970 diventando subito un’opera di culto nei paesi anglofoni, e  ora arrivato alla prima traduzione italiana, Lud nella nebbia, di Hope Mirrlees, è un'antica città separata da noi da abissi di tempo e dimensioni estranee. In essa non ci sono né spade né incantesimi, ogni oggetto fatato è da tempo al bando, ogni riferimento alla magia è un tabù infrangibile. Da qualche tempo, però, sempre più cittadini finiscono preda di focosi deliri e frenetiche allegrie, sintomi della tremenda intossicazione da tutti temuta: quella da frutta fatata. E così Nataniel Cantachiaro, sindaco della città, deve decidersi a indagare su chi, come e perché stia illegalmente importando l’oscena merce dal Paese delle Fate.
Aliena di Phoebe Hadjimarkos Clarke è il racconto di una caccia dentro e fuori se stessi, e della paura che avvolge le nostre vite. Fauvel è una giovane donna che ha perso un occhio a causa di uno sparo della polizia durante una manifestazione, e per sottrarsi alla violenza della grande città accetta di occuparsi di Hannah, il cane di Luc, padre della sua migliore amica, e di trasferirsi nella loro casa di campagna a Cournac, un piccolo paese dell’entroterra francese. Hannah in realtà̀ non è un cane come un altro, ma il clone di una precedente Hannah che ora troneggia impagliata in salotto, tanto dolce e allegra quanto la seconda Hannah è difficilmente gestibile. Da una parte - come in una favola antica - i boschi intorno a Cournac sono popolati da misteriose creature che uccidono gli animali e da cacciatori che cercano di catturarle, dall’alto incombe la minaccia di extraterrestri che secondo i racconti di questi stessi cacciatori li avrebbero in più̀ occasioni rapiti e trasportati nei loro vascelli spaziali, mentre sullo sfondo si sente il ronzare della fabbrica di imbottigliamento di acqua minerale, un ronzio che diventa anche eco dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali del tempo contemporaneo. Ad attraversare questo paesaggio ci sono quattro giovani e un cane: Fauvel e Hannah che si legano di una profonda amicizia che darà a entrambe la chiave per entrare l’una nel mondo dell’altra, in un rapporto che supera la verticalità della dominazione e diventa una delle forme dell’amore; Mado, la figlia di Luc e migliore amica di Fauvel, anche lei in cerca della sua parte di amore ma per ora volubile e spaesata, e catturata dal potere seduttivo di Julien, ex “gilet giallo” deluso, cacciatore, convinto di un prossimo ritorno degli extraterrestri; e poi Michel, che per la sua tesi di laurea indaga sui racconti che circolano intorno a questi extraterrestri e ne ricostruisce il legame con vecchi miti collettivi. Alla fine, tutti saranno prede e predatori insieme. 

Due volumi di Antonio Moresco.
Canto degli alberi, di cui l'autore dice: "Ho scritto questo libro nei mesi di isolamento per la pandemia. I suoi protagonisti sono gli alberi, in particolare gli alberi murati, quelli che crescono dentro i muri delle case degli uomini, visti come una nuova specie crocevia tra più mondi (vegetale, minerale, umano) e prefigurativa. L'ho scritto mentre ero anch'io murato, come tutte le donne e gli uomini del nostro Paese e del mondo, in un momento cruciale anche della mia vita personale, per di più bloccato dal divieto di viaggiare in una casa di Mantova, la città dove sono nato e ho trascorso l'infanzia e l'adolescenza, scatola nera della mia vita. Questo libro anche per me inaspettato è la mia risposta di scrittore a questo trauma e il mio appello a compiere un salto di piani e di specie e a dare vita a una metamorfosi. L'ho scritto giorno dopo giorno, in totale solitudine, con ispirazione, liberando in un unico flusso narrativo testimonianza, corpo a corpo col mondo, autobiografia trascesa, abbandono lirico, romanzo drammaturgico e figurale, canto, sogno, immaginazione, invenzione".
I pensieri per oltrepassare i nostri confini contenuti ne Il sogno del cammino, piccolo e intenso libro composto da due scritti sul cammino contenenti tante esperienze estreme e tanti anni di vita: il primo racconta i cammini metropolitani e solitari compiuti notte dopo notte durante l’arco di diversi decenni; il secondo è una riflessione più generale sul gesto di sconfinamento e parla dei cammini - anche di migliaia di chilometri attraverso l’Italia e l’Europa - compiuti da un gruppo di sconfinatori che si sono dati il nome di Repubblica nomade. Sono due modi opposti di camminare: il primo interiore, autistico, simile a una trance; il secondo vissuto come una trascendenza collettiva, un’impresa, una prova. Il primo è la testimonianza di un lungo dolore fronteggiato attraverso l’oltranza del cammino. Il secondo è una riflessione sulla potenza metamorfica del cammino. Per l'autore, non c’è opposizione tra i due modi di camminare: “nel camminatore collettivo c’è dentro il camminatore solitario, così come nel camminatore solitario c’è dentro il camminatore collettivo. Come se, anche quando cammino con altri, permanesse dentro di me una presenza nucleare irriducibile, inviolabile, irraggiungibile, e mentre cammino da solo camminassero dentro di me e attraverso di me tutti gli individui della mia e della nostra stirpe e persino i popoli che si sono forgiati attraverso migrazioni, esodi, diaspore”.

Non sono ancora arrivati, e la consegna è addirittura prevista per agosto, due interessanti saggi in inglese.
In Storytelling in the Modern Board Game - testo citato durante una delle lezioni del corso di perfezionamento in Gaming and Boardgame Design organizzato dall'Università di Genova che ho seguito la scorsa estate - Marco Arnaudo esplora le tendenze narrative dai tardi anni Sessanta a oggi: nel corso degli anni, i giochi da tavolo si sono evoluti fino a includere personaggi con cui è facile identificarsi, ambientazioni vivide e trame avvincenti e intricate; a loro volta, i giocatori sono diventati più emotivamente coinvolti, assumendo, in sostanza, il ruolo di coautori in una narrazione interattiva. Attraverso la lente degli studi sui giochi e della narratologia, applicando al mondo dei giochi concetti tradizionali di narrazione, questo libro esplora la sinergia tra giochi da tavolo, progettisti e giocatori in progetti orientati alla storia. L'autore fornisce una guida allo sviluppo per i progettisti di giochi e consiglia giochi da esplorare per i giocatori amatoriali.
In The Claremont Run, invece,  J. Andrew Deman dà conto di come, conclusasi nel 1991, la lunga gestione di Chris Claremont come autore di Uncanny X-Men abbia cambiato i fumetti per sempre, in particolare sovvertendo le questioni di genere. Durante i suoi sedici anni di scrittura della serie, Claremont ha rivitalizzato un franchise sull'orlo del collasso, dando forma agli X-Men che oggi amiamo. Ma, più di questo, Claremont ha raccontato un nuovo tipo di storia, articolando idee trasgressive sulla non conformità di genere, la mascolinità tossica e l'emancipazione femminile. L'indagine dell'autore abbina lettura attenta e analisi quantitativa per esaminare la rappresentazione di genere, i contenuti, i personaggi e la struttura della storia. Confrontando diverse centinaia di numeri di Uncanny X-Men con un migliaio di altri fumetti Marvel, viene fornito un resoconto completo delle sofisticate e progressiste politiche di genere di Claremont. Gli X-Men di Claremont hanno capovolto le norme di genere: dove storicamente i personaggi femminili erano semplici spunti per gli occhi, quelli di Claremont avevano ruoli da protagonista e personalità complesse e in evoluzione. Forse ancora più sorprendentemente, i suoi supereroi maschi sfidavano e complicavano gli standard di mascolinità. Innovativi per la loro epoca, i fumetti di Claremont sfidavano i lettori a vedere il mondo reale in modo diverso e trasformavano la cultura pop nel processo.

Non saranno certamente tra le mie letture, ma arricchiscono la scorta (stash) della nostra libreria il dizionario definitivo dei punti a maglia Vogue Knitting - con più di 800 schemi di punti, un volume enorme e completo con texture di dritti e rovesci, trecce, pizzi, lavorazioni a colori -, la guida a oltre 50 metodi di avvio e chiusura del lavoro a maglia Cast On, Bind Off,  la Collezione di punti a uncinetto tunisino - con 150 punti essenziali - e i tre volumi di Tunisian Crochet - punti di base e texture di dritti e rovesci, lavorazioni a colori.

sabato 1 febbraio 2025

collezionismo e modellismo

Avere molteplici hobby costringe all'ottimizzazione. Così, mentre si finisce di ascoltare su Audible il romanzo di A. K. Blakemore Le streghe di Manningtree, o mentre si recupera la visione degli ultimi episodi della serie tv su Mussolini, si assemblano un po' di miniature in attesa, con taglierino, lime, pinzette, colla.

Innanzitutto, di Scale 75 Miniatures, due miniature della serie Zodiac Mystic Signs, ovviamente il Leone - Dove solo pochi possono arrivare, e il sole brucia la terra e la vita, emerge un leader: Leo, "il re generoso". Un narratore, un guerriero barbaro che protegge i suoi. Letale in combattimento, non si tira indietro dal mostrare il suo lato più selvaggio quando necessario. La furia di Leo indica che non c'è ritorno, che è pronto a combattere, il ruggito della guerra che ferma il tempo - e il Capricorno - “il Caprone”: dopo aver portato la civiltà al mondo, riposa sul trono della richiesta. Mago dell’ironia, paziente, padrone delle vette e delle altezze; colui che sfiora le nuvole con le sue corna, colui che tinge di rosso la terra con la sua lancia. Aigókeros, sangue e magia.
E, in più, Ulhú, Dragon TrainerUlhú è uno dei migliori addestratori di Arena City. Due generazioni di draghi sono già passate per le sue mani e l'intera comunità lo adora. Spesso intrattiene i più giovani in piccole dimostrazioni in cui gli animali eseguono le manovre più audaci con precisione.

Poi, Dino Racers di Bold Miniatures, miniatura basata sull'artwork di Baldi Konijn che vede come protagonisti Bisa e il suo pterodattilo Tori.

Infine, della Games Workshop, Vizzik Skour, il Profeta del Ratto Cornuto dei caotici Skaven di Warhammer Age of Sigmar, orde murine che spuntano dal sottosuolo per destabilizzare le civiltà dei Reami Mortali. Nato tra le fiamme apocalittiche, è il sommo sacerdote del Ratto Cornuto, Signore dell'Erosione e padrone della folle frenesia mortale. La forza dello zelo diabolico di questo demone è sufficiente a spaccare la terra ed esaltare all'estremo gli sciami skaven. Con la Games Workshop, verso metà degli anni Novanta, ho cominciato, a collezionare, assemblare, dipingere, giocare, leggere lore, ambientazioni e avventure. Sempre più collezionare che giocare, ideare e realizzare eserciti, pattuglie da combattimento, unità, singoli eroi. 

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