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martedì 31 gennaio 2012

un test di rorschach

More about Watchmen and PhilosophyTra i tanti volumi pubblicati nella collana Philosophy and Pop Culture, uno dei più interessanti è Watchmen and Philosophy. A Rorschach Test. Una serie di articoli indaga il graphic novel di Alan Moore del 1985, Watchmen appunto, cercando di vagliarne le indubbie profondità filosofiche. 
Una prima parte degli interventi si prefigge, ad esempio, di valutare le politiche del potere che il motivo conduttore dell'opera – "chi controlla i controllori?" o "chi custodisce i custodi?" (who watches the watchmen) – implica e porta con sé: è lecito assumersi la responsabilità di provare a raddrizzare un mondo alla deriva? 
Altri articoli affrontano questioni etiche, quali il rapporto tra mezzi e fini dal punto di vista delle contrapposte prospettive consequenzialiste (rappresentate in Watchmen da Ozymandias) e deontologiche (di cui sembra farsi portavoce Rorschach), il valore delle aristoteliche virtù mediane (le virtù "con la pancetta" di Nite Owl, un tipo ordinario in un mondo straordinario che prova a fare del bene senza rovinare se stesso nel processo), l'interrogativo su se e quando dire la verità possa essere sbagliato.
Una terza parte del saggio tenta un approccio a questioni metafisiche quali la natura dell'identità personale, del tempo, della libertà umana. Infine, l'ultima sezione è relativa al valore letterario di un'opera a fumetti come Watchmen, cui non si può opporre la domanda critica e snobistica "perché non ti vai a leggere un bel libro?".

sabato 28 gennaio 2012

tutta boston guida la stessa fottuta macchina?

Nel saggio Materia e memoria il filosofo francese Henri Bergson propone una distinzione tra memoria, ricordo e percezione.
La memoria è la coscienza stessa, il nostro spirito che registra tutto ciò che ci accade, identificandosi così con il nostro passato che «ci segue, tutt'intero, in ogni momento».
Il ricordo, invece, è la temporanea materializzazione in un'immagine di un evento del passato, di una piccola parte della memoria complessiva (la maggior parte del passato viene mantenuta nell'inconscio).
La percezione, infine, agisce come un filtro di selezione dei dati del piano della realtà tra il corpo e la memoria.
Ma questo filtro che è la percezione, non funziona certo in maniera meccanica e automatica, bensì è mosso nel suo operare selettivo dalla memoria stessa, che ci fa percepire la realtà non in maniera oggettiva, impersonale, omogenea, universalmente identica e condivisa, ma in modo soggettivo, dipendente dalla vita, dalle esperienze e dalle esigenze del nostro singolarissimo spirito, dai moti e moventi della nostra coscienza.
Così, ad esempio, non solo può accadere che Daniele Silvestri si tormenti e rischi l'infarto alla vista di un'Y10 bordeaux – macchina evidentemente guidata dalla sua ex –, reazione evidentemente imputabile al suo personalissimo vissuto, ma addirittura che Amanda Palmer, cantante del duo Dresden Dolls, guidando in giro per la sua città non faccia altro che vedere jeep Cherokee del '96 – macchina evidentemente guidata dal suo ex –, percezione di certo non imputabile al fatto che tutta Boston guidi la stessa fottuta macchina nera, né superabile lasciando per un po' la città e aspettando che quell'auto vada fuori moda. Il numero insano, folle, di jeep dello stesso modello e colore visto da Amanda, lo dimostrano tutti i minori attacchi di cuore sofferti in ogni strada principale di Boston, dipende da un filtro selettivo e totalmente idiosincratico della sua memoria e non da una oggettiva e distaccata percezione sensoriale.



L'immagine è un particolare da Materia e memoria, di Ginevra Ballati, trovata sul suo blog Emporium.

venerdì 27 gennaio 2012

le astuzie dell'intelligenza

Nel terzo e nel quarto capitolo del loro libro Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, i due autori francesi Detienne e Vernant analizzano, rispettivamente, la conquista del potere da parte di Zeus nella Teogonia esiodea , e la genesi del mondo e dell’uomo nelle teogonie di matrice orfica, sempre tenendo come punto fermo il loro interesse per la metis, l’astuzia intelligente.
 
Nella Teogonia di Esiodo, le lotte di Zeus dimostrerebbero che senza metis non ci può essere sovranità, non si può né conquistare, né esercitare, né conservare il potere supremo. È, infatti, grazie ad uno stratagemma di Metis (divinità che è personificazione appunto dell’astuzia) che Zeus sconfigge il padre Crono, dimostrandosi così più astuto di lui, e conquista il potere prima da lui detenuto: Crono era inquietante, malefico, terribile, ma non prudente; lo è invece Zeus, riflessivo, equilibrato, saggio. Una volta salito sul trono, Zeus sposa Metis, ma non solo, la ingoia conservandola per sempre dentro di sé e divenendo così egli stesso l’incarnazione della pura astuzia. Ora che è Zeus la metis suprema, nessuno potrà superarlo così da sottrargli il potere, che egli può essere sicuro di esercitare e conservare. Ora che Metis non c’è più, l’avvenire non è più aleatorio, le cose non possono andare in un modo o nell’altro, non ci sono più pericoli per Zeus: la sua seconda moglie è Temi, divinità oracolare che non formula consigli ma pronuncia sentenze esponendo il futuro secondo i decreti divini dello sposo, necessari ed irrevocabili.
Tema ricorrente nei miti teogonici è quello dell’incatenamento del rivale, del nemico, che si collega al modo dell’esecuzione capitale chiamato apotumpanismòs, consistente in un’esposizione infamante del condannato, rigettato dal mondo al quale apparteneva, presso i santuari alla frontiera del paese: egli era mantenuto spogliato di tutti i suoi onori, immobile e impotente, legato in piedi o seduto, in uno stato di quasi morte, di morte virtuale. Zeus è divenuto il signore dei legami. Egli è sempre sveglio, non conosce mai la notte del sonno, ma sempre, invece, una vigilanza sovrana, che culmina nella sua capacità di sorprendere, di paralizzare e d’incatenare l’avversario.
Questa resistenza al sonno segnala la sua signoria sul potere di legare: Sonno (Hùpnos), infatti, ha reti magiche e catene invisibili, simili a quelle che getta sui mortali, per non lasciarli più, il suo fratello gemello Morte (Thànatos), e Zeus non se ne lascia imprigionare. Questo colpo d’occhio acuto di Zeus, a cui non ci si può sottrarre, è associato con il colpo del tuono e del fulmine: secondo la tradizione greca, infatti, lo sguardo è di natura ignea; inoltre esiste il collegamento tra l’occhio rotondo dei Ciclopi e la loro funzione di maestri del fuoco metallurgico, di fabbricatori del fulmine. Se l’incatenamento è la relegazione nell’immobilità buia della Notte del Tartaro, lo slegare significa, invece, ricondurre alla luce del Sole.
Potere di legare, incatenare, Occhio/sguardo e Fulmine/fuoco, sono dunque tra loro strettamente connessi. 


Anche nelle teogonie orfiche compare il nome della dea Metis, androgina, dalla doppia natura: grande divinità primordiale, potenza acquatica, fluida, polimorfa (contenente potenzialmente, quindi, tutte le forme suscettibili di apparire nel corso del divenire), è la generatrice all’inizio del mondo, colei che tesse, intreccia, combina e annoda (ancora una volta compare il potere di legare) i fili che compongono il tessuto del divenire. Quando Zeus ingloba Metis, tutta la sostanza di ogni essere torna allo stato primordiale, unito ed indistinto, ed egli, quando la fa uscire dal suo cuore per portarla alla luce, compie una seconda creazione.
Ma il processo teogonico non si ferma con Zeus, egli cede il suo trono al figlio Dioniso. Secondo il mito, per macchinazione di Hera (gelosa perché Dioniso era il frutto del tradimento di Zeus con la mortale Semele) i Titani sbranarono il fanciullo divino e banchettarono con le sue carni. Zeus, adirato, li fulminò, e dalla fuliggine dei vapori che si levarono da essi, sedimentata in materia, nacquero gli uomini; ma il corpo di Dioniso era mischiato tra quella cenere, essendosi i Titani cibati di lui. Così, gli uomini risultano composti delle ceneri sia di Dioniso sia dei Titani, partecipi, quindi, sia della vittima sia dei carnefici, sia del Bene sia del Male, sia del Celeste sia del Terrestre. Caratteristico della razza umana è quindi questo essere ambiguo, contraddittorio, enigmatico.
Il dio Dioniso rappresenta l’unità del mondo disperso, variegato ed incostante, l’oscillazione alternata dall’uno al molteplice. Il suo mito fonda anche, miticamente, l’infelicità della condizione umana, ed insieme la via della sua salvezza: la teogonia orfica diventa un’antropogonia. La razza degli uomini, uscita dalle ceneri dei Titani fulminati, non porta solo il peso della dispersione criminale delle membra divine, ma, purificandosi con i riti e il modo di vita orfici, può essa stessa far ritorno all’unità perduta del dio.

giovedì 26 gennaio 2012

libro-cruciverba

More about Paesaggio dipinto con il tèIl romanzo di Milorad Pavić, Paesaggio dipinto con il tè, è diviso in due parti. La prima è costituita dall’intrecciarsi della storia dei monasteri del Monte Athos, in Grecia (la loro fondazione, la divisione tra comunitari e solitari, il fenomeno dell’iconoclastia), e della vicenda dell’architetto “non praticante” Atanasio Svilar, che parte alla ricerca di suo padre, scomparso durante la guerra, e che giungerà proprio sul Monte Athos.
La seconda parte, invece, è un cruciverba risolvibile in orizzontale o in verticale: al lettore è lasciata libertà di scegliere come leggere il libro che tiene in mano, se in orizzontale (seguendo l’ordine delle pagine) oppure in verticale (saltando avanti e indietro); nel primo caso vedrà intrecciarsi le vicende del noto architetto Atanasio Rasin (fu Svilar) e della sua seconda moglie Vitacea Milut, quelle di molte generazioni delle loro famiglie e altri frammenti di storie e racconti; nel secondo caso seguirà separatamente le storie dei vari personaggi.
Tale seconda parte, poi, come ogni cruciverba, ha una soluzione che il lettore è invitato a trovare per sapere come finisce il libro, e ad ogni lettore è riservato un finale personale (come se il libro fosse stato scritto proprio e solo per lui).
Infine, esistono dei “racconti-intrusi” che si possono formare prendendo frammenti (frasi e parole) dal libro scritto dall’autore, ed il lettore è ancora una volta invitato all’azione creativa e alla scelta per trovarne quanti ne vuole. Insomma, un libro in cui il lettore è spronato a darsi da fare.

Perché introdurre ora un nuovo modo di leggere i libri al posto di quello che porta, come la vita, dall’inizio alla fine, dalla nascita alla morte? La risposta è semplice: perché ogni nuovo modo di leggere un libro è un tentativo vano ma onesto che l’uomo fa per ribellarsi a questa ineluttabilità della sua sorte almeno nella letteratura, se non anche nella realtà perché il lettore dovrebbe essere sempre come un ispettore di polizia, perché dovrebbe poggiare il piede in ogni orma del suo predecessore? Perché non consentirgli una scappatella? Per non parlare poi dei protagonisti e delle protagoniste!

martedì 24 gennaio 2012

morfogenesi della violenza

In Gangs of New York Martin Scorsese ribadisce la sua visione cupa e pessimistica della natura umana, cogliendo in essa latente una violenza ineliminabile, una componente di brutalità ferina. In Gangs of New York non soltanto la violenza è incancellabile, essa è anche produttiva. La violenza è fattore morfogenetico, creatore di nuove forme: crea, conferisce ordine, determina equilibri. È una regola inflessibile, riguardante le modalità di costituzione e di funzionamento degli Stati: a fondamento della società persiste ciò che ne è all’origine, vale a dire l’istituzionalizzazione della forza. Il mondo “pacifico” nel quale crediamo di vivere, è in realtà un mondo che si regge e si alimenta sulla base di una concentrazione monopolistica della violenza, non sulla sua estinzione.

(da Umberto Curi, Un filosofo al cinema)

Visto tra ieri e oggi in classe, tra la guerra d'indipendenza americana e la nascita degli Stati Uniti da una parte e la filosofia politica di Hobbes dall'altra, mi sembra che ci stava bene.


lunedì 23 gennaio 2012

mater terribilis

More about Mater TerribilisDue inquisitori sono stati uccisi nel territorio della Francia occupato dagli Inglesi. Ad affrontare una missione in una terra tanto pericolosa papa Innocenzio VI invia Eymerich, con la promessa di reintegrarlo nel ruolo di inquisitore generale del Regno d'Aragona che non ha più. Ad accompagnare l'inquisitore sono l'ironico confratello Bagueny e il fedele padre Corona.
Il mistero si rivela subito più complesso del previsto, e ruota intorno ad un'invasione di cervi volanti (animali che, come tutti gli insetti, Eymerich odia), al numero IV inciso sulle facciate di molte case, a un testo apocrifo di Tommaso d'Aquino di natura alchemica ed eretica (cosa che l'inquisitore non sopporta, visto che ammira molto l'aquinate e si batte affinché la sua filosofia sia scelta dalla Chiesa come propria ufficiale), ad un'antichissima eresia che sembra aver ripreso vigore.
Ma la storia non è rinchiusa nel XIV secolo: c'è la vicenda di Giovanna d'Arco e di Gills de Rais, in cui compare di nuovo il presunto testo di Tommaso d'Aquino; c'è la Guerra nel Golfo contro Saddam; c'è un futuristico sistema di comunicazione interattivo e un nuovo tipo di guerra.  
A legare il tutto una semplice constatazione: affinché la gente appoggi una guerra serve che il nemico non solo sia "cattivo", ma sia un mostro (un fedele di Satana, un uccisore di bambini, un gigantesco uccello preistorico,...).  
Mater Terribilis è, per me, il più bel romanzo della serie dell'inquisitore Eymerich di Valerio Evangelisti.

venerdì 20 gennaio 2012

summa ateologica

Nietzsche si accorse della falsità dei profeti che dicono: “fate questo o quello”; che indicano il male ed esortano alla lotta. “La mia esperienza” egli afferma in Ecce homo “ignora ciò che significa ‘volere’ qualcosa, ‘lavorarvi ambiziosamente’, mirare ad uno ‘scopo’ o alla realizzazione di un desiderio”. Nulla di più contrario al buddismo, al cristianesimo di propaganda.
Paragonati a Zaratustra, Gesù e Budda sembrano servili. Avevano qualche cosa da fare in questo mondo e anche un compito pesante. Erano soltanto “saggi”, “dotti”, “salvatori”. Zaratustra (Nietzsche) è qualcosa di più: un seduttore, che rideva dei compiti che si era assunto.
Il buddista come il cristiano prende sul serio ciò che comincia a fare – s’impegna a non avvicinare più donne, per quanta voglia ne abbia! Gesù, Budda avevano qualche cosa da fare in questo mondo: fissarono ai loro discepoli un compito arido e obbligatorio.
Il discepolo di Zaratustra impara soltanto, in fine, a rinnegare il suo maestro.
(Georges Bataille, Nietzsche. Il culmine e il possibile)

I testi critici, le annotazioni, le pagine di diario, gli scritti polemici che formano questo libro – terza parte di quella che voleva essere la summa odierna dell’eversione filosofica (e cioè i tre volumi della Somme athéologique: L'expérience interieure, Le coupable e Sur Nietzsche) – furono composti da Bataille nel 1944, durante gli ultimi combattimenti in Francia tra alleati e tedeschi, “nel mezzo dello scompiglio”.
Bataille vede in Nietzsche il filosofo del male, e lo accetta in pieno come tale. Le definizioni usuali del male e del bene, in Nietzsche come in Bataille, si capovolgono. Accedere al male e contestare il bene è la condizione stessa della libertà; il valore da perseguire è dunque il primo, mentre il secondo è una “regola” da infrangere.
E alla violazione del tabù morale o della norma sociale si collega la tesi dell’esistenza come “rischio”, come “chance”.
In una “Appendice” Bataille affronta specificamente il tema dell’ascendenza nietzschiana del nazismo. Questa ascendenza, per Bataille, è usurpazione. I nazisti hanno tradito, nella lettura, il significato dei testi di Nietzsche. La “morale” nietzschiana, in realtà, è la perfetta antitesi del nazismo, perchè il “male” esaltato da Nietzsche è proprio l’antitesi del “bene” aberrante definito da Hitler.

giovedì 19 gennaio 2012

la stirpe della sirenza

La storia de La stirpe della sirena, manga di Satoshi Kon realizzato nel 1990, presenta la contrapposizione, tipicamente giapponese (ricorda molto anche un certo Hayao Miyazaki, infatti), tra la conservazione del patrimonio naturale e culturale di una piccola comunità e la cieca avanzata del progresso che tutto vuole assorbire e modificare. All'interno di questo scenario, si inserisce la leggenda di un patto tra una famiglia del posto e una sirena, che in cambio della custodia di un suo uovo da parte degli umani garantisce protezione e un mare tranquillo e pescoso.
Cosa succederebbe se tale patto si dovesse rompere, se la promessa di custodire l'uovo della sirena non potesse essere mantenuta? Questo è il rischio che l'ammodernamento della comunità marittima provoca.La trama non originalissima è però accompagnata da un disegno realistico, piacevole e pulito.

martedì 17 gennaio 2012

bicchieri d'acqua e canguri

Se una forma di vita aliena stringendo tra le dita o tra i tentacoli l'oggetto in figura emettesse il suono «kavagai», cosa capireste voi?
Questo esperimento è un mix della teoria filosofica dell'interpretazione radicale di Quine e di una splendida e assai filosofica puntata di Star Trek. The next generation.  
È come per la storia dell'etimologia del nome "canguro". Gli uomini di Cook, sbarcati nel nuovissimo continente (poi australiano), indicando con il dito quello strano animale che non avevano mai visto chiesero agli aborigeni come si chiamasse. Gli aborigeni, da parte loro, chiesero agli uomini di Cook come loro si chiamassero: «Come ti chiami?», ovvero, nella loro lingua, «Kangaroo?».
E gli uomini occidentali, pensando che gli aborigeni stessero rispondendo alla loro domanda, pensando che capissero che indicando quello strano per loro animale ne volevano sapere il nome, credettero che "kangaroo" fosse il suo nome. E perciò noi oggi abbiamo i canguri. 

venerdì 13 gennaio 2012

ecologia

Madre Natura ha bisogno di un favore?
Beh, poteva pensarci quando ci affliggeva con siccità, carestie e scimmie infette.
(Mr. Burns)

giovedì 12 gennaio 2012

un viaggio in occidente

Saiyuki, un manga di Kazuya Minekura, è una interpretazione/rimediazione della famosa leggenda cinese, dello scrittore Wu Ch' eng-en, dello scimmiotto di pietra Sun Wukong, narrata nel libro Viaggio in Occidente (in giapponese, appunto, Saiyuki): i protagonisti di questo fumetto sono, infatti, il monaco Sanzo, che equivarebbe appunto al monaco della storia inizale; Son Goku, appunto la scimmia protagonista della storia; Sha Gojyo e Cho Hakkai, coloro che accompagnano i due nel loro viaggio e che prendono i ruoli dei due accompagnatori della leggenda originaria (un demone fluviale, dai giapponesi recepito come affine al kappa, ed un maiale).
Uno dei kanji che la Minekura usa per scrivere Saiyuki è diverso da quello usato per "Viaggio in Occidente" e, con un gioco di parole, pur leggendosi allo stesso modo, cambia il significato in "Viaggio all'Estremo".



La leggenda cinese del Viaggio in Occidente era già stata ripresa da un vecchio anime, The Monkey, e il personaggio di Son Goku, con la sua potente arma, il nyoibo, un bastone che si allunga a suo piacimento, è alla base anche dell'omonimo personaggio protagonista della serie Dragon Ball.



Anche un anime fantascientifico, Starzinger, è una rimediazione della stessa storia cinese: narra, infatti, il viaggio verso il Grande Pianeta della principessa Aurora, accompagnata da Cogh (che lottare nello spazio sa, col cerchietto d'oro in testa e il bastone allungabile), Gorgo (che sotto i mari lotterà, come un kappa, creatura marina) e Hakka (che in terra ci difenderà, massiccio come un maiale).


Edito il post perché ieri mi è stata segnalata da un mio ex studente l'uscita di un altro manga che riprende la leggenda del viaggio in Occidente, Saiyukiden di Katsuya Terada. Oggi stesso l'ho comprato.


mercoledì 11 gennaio 2012

profumi inefficaci

Era una festa meravigliosa, su questo non potevano esserci dubbi. Come tutto luccicava, profumava, rumoreggiava! Non si poteva decidere se fosse più intenso il luccichio dei gioielli o quello delle decorazioni. La luce che diffondevano i lampadari giocava e danzava sulle candide schiene nude e i volti accuratamente dipinti delle signore, sulle nuche grassocce, sulle camice inamidate e sulle uniformi rigide degli uomini impettiti, sulle facce sudate degli inservienti che si aggiravano per le sale con le bevande. Profumavano i fiori sparsi un po’ ovunque nel padiglione; profumavano le essenze parigine di tutte quelle signore tedesche; profumavano i sigari degli industriali e la brillantina dei giovani slanciati nelle loro eleganti, aderenti divise da SS; profumavano i principi, le principesse, i capi della Polizia segreta di Stato, i direttori dei feuilletons, le dive del cinema, i professori universitari, che occupavano una cattedra di scienza della razza o della guerra, e i pochi banchieri ebrei, la cui ricchezza e le cui relazioni internazionali erano tanto potenti da permettere loro di prendere parte a una manifestazione così esclusiva. Si diffondevano folate di effluvi artificiali come a coprire un altro aroma, il puzzo stantio e dolciastro del sangue, che in realtà era amato e impregnava ormai l’intero paese, ma di cui si provava un po’ di vergogna in un’occasione tanto straordinaria e in presenza dei diplomatici stranieri.

martedì 10 gennaio 2012

venerando e terribile

A Platone il vecchio Parmenide appariva "venerando e terribile", "tutto bianco di capelli, bello e nobile di aspetto". Col parricidio del filosofo di Elea, Platone giunge a poter ammettere la molteplicità e il divenire.
Il parricidio di Edipo nei confronti di Laio svela il conflittuale comporsi, nell'individualità, di identità ed alterità insieme, la condanna a non poter essere solo uno ma a dover esser molteplice. Insieme a Laio, Edipo uccide anche il "venerabile e terribile" Parmenide.
Così è come io mi immagino e visualizzo il "venerando e terribile" Parmenide.
Il disegno è tratto dall'illustrazione di una carta dei giochi della Rackham, e rappresenta un mago dei grifoni, adepto del fuoco e dell'aria, legato all'inquisizione.

 

lunedì 9 gennaio 2012

#1da woman

Disegnata da Frank Miller ne Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora.

Cantata da Tricky in una canzone in collaborazione con John Frusciante e Flea dei Red Hot Chili Peppers.

So tuck you hair behind you ears,
Your tears and your silly fears
I'll be your teddy bear
you choose the clothes I wear
For you I'll suffer much pain,
sharp glass my brain,
For you I lose, lose my focus
For you I swim, swim in locusts 

sabato 7 gennaio 2012

la filosofia in guanti bianchi

A pagina 122 del suo libro De la guerre en philosophie  Bernard-Henry Lévy cita il fantomatico Jean-Baptiste Botul. Ora, l'esistenza di Botul è diciamo... improbabile. Bernard-Henry Lévy si è detto vittima di uno scherzo. A dire la verità io non ho mai pensato di tendergli una trappola. La vita sessuale di Immanuel Kant, uscito undici anni fa, racconta una storia ben poco verosimile: dopo la guerra una colonia di "neokantiani" tedeschi si sarebbe rifugiata in Paraguay per tentare di vivere emulando Kant. Quasi come dei filosofi-Amish insomma... Nulla di tutto ciò ha suscitato il minimo sospetto in Bernard-Henry Lévy, e nemmeno nei correttori di Grasset, casa editrice parigina di ottima fama.
Che cosa ci insegna questa gaffe? Se l'affaire Botul/Lévy ha avuto tanta eco, è perché inceppa il gioco dei riferimenti. Per dimostrare la serietà del suo pensiero un filosofo deve fare riferimento ad altri filosofi. In questo modo egli suggella la propria appartenenza al club. La quantità di nomi che Bernard-Henry Lévy è in grado di enumerare nello spazio di una pagina rappresenta un vero e proprio record. Mette in pratica a livello professionale ciò che gli americani chiamano name dropping, operazione che consiste nello "snocciolare" il più gran numero di nomi celebri per far colpo in società.
La guerra evocata da Lévy è puramente mediatica. Le vittorie si misurano in termini di partecipazioni a talk-shows, interviste e i cannoni hanno l'aspetto di teleobiettivi fotografici. Per dire il Vero, conviene essere belli.
Eppure cinque lettere saranno bastate per incrinare l'insieme: B.o.t.u.l! Il nome di un invisibile, di un assente, di una brezza leggera, che trionfa con dolcezza, grazie alla non-azione, sull'attivismo mediatico.

(da Frédéric Pagès, La filosofia in guanti bianchi, postfazione a La filosofia o l'arte di chiudere il becco alle donne)

giovedì 5 gennaio 2012

crying freeman, il film

La versione per il grande schermo dello splendido manga di Kazuo Koike (autore anche di Lone Wolf & Cub) e Ryoichi Ikegami, Crying Freeman, è stata una coproduzione franco-canadese-americana del 1995, diretta da Christophe Gans. 
Molto belli i titoli di testa: «centimetro per centimetro la telecamera esplora il corpo muscoloso di un uomo, virato all'azzurro da un filtro colorato. Sulla pelle liscia e glabra si agita la sagoma policroma d'un drago cinese che morde una lama: avvolge l'uomo come una seconda pelle, poi lo abbandona puntando un cielo nero».
Così inizia l'articolo di Giorgio Viaro che fa da postfazione al terzo volumetto del manga. Personalmente concordo con lui quando sostiene che «le riduzioni richiedono una capacità di comprensione della materia a cui si applicano che travalica la semplice passione del fan e che necessariamente deve spingersi, in parallelo, tanto nella disamina dei meccanismi narrativi dell'opera (e, ancor prima, del media su cui nasce), quanto in quella degli snodi simbolici e diegetici che hanno determinato la fondazione del mito in adozione». Ma, proprio per questo, non posso concordare con la sua opinione che il risultato sia un film apprezzabile da tutti, fans e non del manga originale: non ritengo di avere l'oggettività necessaria per dire se il film potrebbe piacere a chi non conosce il manga, ma di certo è un prodotto che non può che lasciare insoddisfatto ogni suo appassionato ed estimatore. 
Va bene che non si poteva raccontare tutta la storia, va bene che si narrino solo le vicende dei primi due (dei tredici) capitoli di cui è composto il manga (cioè un volumetto e poco più su cinque), ma i problemi sono ben altri: la scelta degli attori protagonisti, troppo "belloccia" classica lei (mentre Emu Hino dovrebbe avere una bellezza più semplice, sommessa, particolare), troppo poco bello lui (mentre Yo Hinomura è un ottimo killer anche per il suo bel viso); le totalmente insensate rappresentazioni di alcuni personaggi, come Koh (che da migliore amico del Freeman e a lui totalmente devoto e fedele viene trasformato in un suo "supervisore" disposto anche a ucciderlo), la vecchia Hu Fengling (che non è assolutamente maligna come viene descritta) e, in generale, l'organizzazione dei cento otto draghi (che nel manga è una famiglia pronta ad accogliere la nuova venuta, pur mettendola alla prova, e non gelosa e contraria alla sua presenza nella vita del Freeman); l'assenza di alcune scene fondamentali, soprattutto quella della nascita della relazione tra l'assassino e la ragazza (così com'è descritta, alla svelta, non ha senso tutto il resto del film, la scelta di lui di non ucciderla e quella di lei di seguirlo) e quella della tatuazione (ricca di valore narrativo ed emotivo nel manga); l'eccessiva violenza degli scontri, mentre il Freeman è decisamente più elegante nel manga; in generale, poi, la totale mancanza dello struggente romanticismo e dell'erotismo del manga.  
Perciò, contrariamente a Giorgio Viaro, credo che il film tradisca completamente lo spirito e l'equilibrio narrativo del manga.

mercoledì 4 gennaio 2012

l'uomo parla

Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell'ozio. In un modo o nell'altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Proprio il linguaggio fa dell'uomo quell'essere vivente che egli è in quanto uomo. L'uomo è uomo in quanto parla.
(Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio)

martedì 3 gennaio 2012

un maiale epicureo

L'acquarello di pastelli lumeggiati a gouache di Félicien Rops, Pornocrate, racconta paradossalmente e ironicamente l'eterna figura del desiderio nelle categorie di un Occidente cristiano che penalizza la sessualità e associa il maiale agli istinti, alle pulsioni e alle passioni. Chiaramente è un'allegoria della Fortuna, gli occhi bendati, obbediente a un'imperiosa necessità pagana che assoggetta al suo passo tutte le muse perdute nel loro autismo. Da un'eternità il porco simboleggia le passioni sensuali e il piacere innocente provato nella semplice voluttà del fango.

(Michel Onfray, Teoria del corpo amoroso)
 

lunedì 2 gennaio 2012

la piega

L'anima nel Barocco intrattiene con il corpo un rapporto complesso: sempre inseparabile dal corpo, trova in quest'ultimo un'animalità che la stordisce, che la impastoia nei ripiegamenti della materia, ma pure un'umanità organica o cerebrale che le permette di innalzarsi, e la farà salire su tutt'altre pieghe.

domenica 1 gennaio 2012

ottimismo sul nulla

Dopo la lettura delle interviste di Philippe Sollers, ho riscoperto di avere in libreria il suo breve saggio su uno dei miei artisti preferiti: Le passioni di Francis Bacon. «Quando si dà un giudizio su Bacon» – quasi esordisce l'autore – «tutti si accordano automaticamente a dei cliché: la sua pittura accumulerebbe immagini di violenza, di angoscia, di tortura, di reclusione, di agonia; essa sarebbe, come si dice, al limite del sopportabile. Le parole ripetute più spesso sono: orrore, dolore, accanimento, repulsione, macelleria, smembramento, malessere, nausea, inferno, disperazione. Ecco, non è forse ciò a cui conducono la miseria dell'uomo senza Dio, il nichilismo compiuto, l'assurdo, il rifiuto del senso della vita? Non si nota mai, in queste reazioni, la più piccola traccia di humour. Si trova inquietante che un artista abbia potuto dire: "Noi siamo carne, siamo delle carcasse in potenza". E poi: "Dovremmo essere tutti consapevoli del disastro che si può abbattere su di noi in qualsiasi momento del giorno". Peggio ancora: "Quando sarò morto, mettetemi in un sacco di plastica e gettatemi tra le immondizie"».
L'idea di Sollers è che Bacon non esprima malinconia e acredine ma, anzi, gaiezza, voluttà, il suo essere "ottimista sul nulla". L'idea dell'uomo come gioco senza scopo e senza importanza, come – al di là di ogni identità e narcisismo – scene e incontri che hanno luogo e basta, come caso – che secondo Balzac "è l'artista più grande" – , non lo conduce al suicidio ma ad affermare: "Sono avido di vita. Sono avido di ciò che il caso può, e lo spero, darmi: ciò che supera di gran lunga qualunque cosa potrei calcolare logicamente". 
"Dal momento che l'esistenza è per un verso così banale" – sostiene Bacon – "si può tentare di farne qualcosa di grande, piuttosto che lasciarsi curare fino all'oblio". Ecco che le opere di Bacon esprimono un eroismo gratuito e insolito, forse tragico ma non patetico, serenamente violento e disincantato, esse «aiutano potentemente a sentire ciò che per un uomo senza illusioni è il fatto di esistere» (Michel Leiris, Francis Bacon), fanno pensare ad alcuni passi di Georges Bataille in cui il filosofo francese scrive: «Io sono il risultato di un gioco. Io sono, nel seno di un'immensità, un di più che eccede questa immensità. La passione ridente, il salto sragionevole e la tranquilla lucidità sono richieste al giocatore, fino al giorno in cui la sorte – o la vita – lo lasciano». Sollers accosta l'arte di Bacon anche alle parole di Oreste che non si oppone alle Erinni nell'Andromaca di Racine – «Dunque, figlie infernali, a colpire siete pronte? Per chi sono i serpenti che vi soffiano in fronte? A chi son destinati questi vostri strumenti? Venite per condurmi negli eterni tormenti? Su! Che ai vostri furori Oreste non s'oppone. Ma no, tornate indietro, lasciate fare a Ermione: Meglio di voi l'ingrata mi saprà lacerare, ed io vengo ad offrirle il cuore da sbranare» , e ricorda l'apprezzamento del pittore per il finale del Macbeth di Shakespeare, con "quei versi così celebri sulla morte e la fugacità della vita, il tempo che passa e che non ha più senso", il tutto senza deplorazione né spavento.
Caso, gioco, sorte, accidente, salto, riso, eccesso non sono rappresentati da Bacon, perché l'immagine è sempre falsa e bisogna, dunque, fare il giro della rappresentazione e togliere ogni schermo, lasciare che "delle figure sorg[a]no dalla loro propria carne senza che intervenga il cervello" e "aprire le valvole della sensazione per far sì che la figurazione raggiunga il sistema nervoso nel modo più violento e straziante possibile", rendere con delle contro-immagini immediate e muscolari l'apparenza oltre la deformazione o la distruzione, captare forze invisibili e sensazioni da foggiare contro immagini dalla pesante ricaduta realistica. «Bacon» – scrive Sollers – «sa che "il corpo è una grande ragione". "Strumento del tuo corpo, tale è anche, fratello mio, la tua piccola ragione che chiami 'spirito', piccolo strumento e giocattolo della tua grande ragione" [Così parlò Zarathustra]. Come Nietzsche, Bacon è in guerra contro gli idoli». Così Bacon applica alla forma umana l'abbattimento e il taglio del bestiame – e, ad esempio, «fulmina un'immagine di papa per dare la misura del tempo trascorso dal XVII secolo; dall'età del Cogito cartesiano, insomma, che ha creduto di poter porre l'essere sotto la prospettiva della rappresentazione. Giustamente: non funziona più, si stacca, bisogna andare a vedere altrove» – per mostrare non «ciò che appare nella rappresentazione, ma ciò che avviene nella sensazione» del corpo vivente che è l'uomo. «Come quella di Picasso, dunque, l'opera di Bacon disordina le pareti. Entrate in una casa dove ci sono dei dipinti: un buon Picasso, immediatamente, vi fa segno, respinge gli altri quadri, obbliga l'intera stanza, l'edificio e finanche la strada a mostrarsi nella loro relatività e nella loro fragile durata».

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