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domenica 10 aprile 2022

la femminilità, una trappola

Nella mitologia, nelle fiabe che leggiamo ai bambini, alla donna assegniamo sempre gli stessi ruoli. È Arianna abbandonata, Penelope al telaio, Andromeda incatenata. È Cenerentola, o la Bella addormentata nel bosco che attende di essere salvata dal Principe azzurro. È colei che attende, che può trovare il proprio posto nel mondo solo attraverso l’amore di un uomo. 
La bambina impara presto ad ammirare gli uomini, gli eroi tradizionali. Molto spesso prova solo pietà e disprezzo per la misera vita domestica di sua madre. Magnifica invece la personalità del padre: è lui a rappresentare la forza, il potere, una finestra sul mondo, sulla vita e sul futuro. La bambina desidera identificarsi con lui, e in questo modo riconosce e ammette la superiorità dell’uomo sulla donna che è destinata a diventare. Il desiderio di piacere agli altri è radicato in ogni bambino. I bambini amano sentirsi vivi. Giocando, sviluppano il senso dell’indipendenza, ma per loro è anche importante sentire di avere sopra la testa il tetto rassicurante dell’approvazione adulta. Il bambino maschio impara presto che, per guadagnarsi la stima degli adulti, non deve sforzarsi di compiacerli troppo. Dev’essere forte, autonomo, avventuroso, deve cercare di conquistare il mondo e dominare i compagni. La bambina invece è incoraggiata da genitori, insegnanti, amici, di fatto dal mondo intero, a sviluppare il suo potere di seduzione, a essere aggraziata, ben vestita, educata. Queste richieste le impediscono di godersi i piaceri del gioco, dello sport e dell’amicizia con la stessa spontaneità dei compagni maschi. Inizia a crearsi un circolo vizioso: più si conforma con docilità all’ideale che le è stato imposto, meno sviluppa le sue potenzialità personali e meno troverà delle risorse dentro di sé. È costantemente spinta a rivolgersi agli uomini, a cercare un aiuto esterno. Il suo senso di dipendenza e la sua debolezza aumentano. Il fatto che sia la prima a esserne convinta rende reale la sua inferiorità.
In questa prospettiva si spiega perché finora le donne abbiano raggiunto solo di rado quello che è comunemente chiamato genio. I geni sono creature eccezionali che in circostanze specifiche hanno osato ciò che nessuno aveva mai osato prima. Cosa che di per sé presuppone solitudine e fierezza. Presuppone che non si cerchi con ansia lo sguardo degli altri per capire se esso racchiuda approvazione o biasimo, ma che si guardi con coraggio verso orizzonti ancora insospettabili. L’educazione - il mondo intero, di fatto - insegna alle donne la timidezza.
Frivole o serie, le donne sono sempre ligie. In altre parole, accettano il mondo: il loro sforzo consiste solo nel cercare un posto su questa Terra. Le donne temono che perdendo questo senso di inferiorità possano perdere anche ciò che le valorizza agli occhi degli uomini: la femminilità. La donna che si sente femminile non osa partecipare alle attività politiche o intellettuali dell’uomo, né considerarsi una sua pari. Viceversa, se una donna si libera dal complesso d’inferiorità nei confronti degli uomini, se ha un brillante successo negli affari, nella vita sociale e professionale, spesso soffre di un complesso d’inferiorità nei confronti delle altre donne. Si sente meno affascinante, meno amabile, meno piacevole proprio perché priva di femminilità.
Sa che il successo non rappresenta un vantaggio agli occhi degli uomini, ma rischia anzi di allontanarli. L’uomo invece deve lottare a un solo livello. C’è una perfetta omogeneità nel modo in cui cerca di realizzare la propria personalità. Se ottiene potere nel mondo, prestigio agli occhi degli altri uomini, fierezza e sicurezza interiori, acquisisce al tempo stesso più virilità perché sono esattamente l’indipendenza e la forza le qualità che le donne si aspettano da un uomo. È questa la contraddizione che affligge molte donne oggi: o rinunciano in parte a realizzare la propria personalità, o rinunciano in parte al potere di seduzione sugli uomini. È un mondo maschile; sono gli uomini, con i loro desideri, le loro speranze, le loro paure, a creare le condizioni che le donne cercano di combattere nel proprio percorso di risalita.


[Simone de Beauvoir, La femminilità, una trappola]

mercoledì 30 marzo 2022

la nausea di sartre

Mentre nel tempo più classico del suo esistenzialismo esistenza e libertà costituiscono una coppia indissolubile di termini, in questo romanzo la nozione di esistenza appare disgiunta da quella di libertà. In primo piano al posto del pouvoir de néantisation, protagonista assoluto de L’essere e il nulla, c’è il carattere inerziale dell’esistenza. Mentre scrive La nausea Sartre non ha ancora messo a fuoco quel dualismo ontologico che separa dicotomicamente l’esistenza umana - il per sé - dall’esistenza inerte delle cose - l’in sé. La vita umana non appare nel romanzo del ‘38 come trascendenza, libertà, progetto. In primo piano è un fondo di ingiustificabilità del reale e della stessa presenza umana del mondo. Sicché, la fatticità non appare come una polarità, insieme a quella della trascendenza, ma si estende sino a pervadere integralmente il mondo precedendo e risucchiando all’indietro il movimento in avanti della trascendenza. L’esistenza appare come insuperabile. Il suo piano di immanenza si impone su quello della trascendenza del desiderio. La storia di questo romanzo è, dunque, la storia di una progressiva e paradossale rivelazione; la rivelazione del reale dell’esistenza. Perché l’esistenza è rimossa dalla nostra frequentazione abitudinaria del mondo. L’esistenza circonda, imprigiona, incatena, ma non la incontriamo mai; subisce un permanente processo di occultamento che nel romanzo assume la cifra della malafede di fondo che contraddistingue gli esseri umani.

Il reale informe dell’esistenza viene ricoperto dal quadro stabile della realtà, da un tempo omogeneo che torna sempre uguale a se stesso. Costanza, regolarità, continuità, stabilità. L’opposizione in gioco è quella tra il carattere difensivo della realtà e quello scabroso e indigeribile del reale, per fuggire di fronte allo scandalo della gratuità assoluta dell’esistenza. L’esperienza della Nausea svela invece l’impostura della malafede. Un reale di troppo, insensato, ingiustificato lacera la rappresentazione canonica del mondo. L’irruzione dell’esistenza fa cadere la maschera dell’Essere necessario rivelandone tutta la contingenza. È l’esperienza improvvisa e ingovernabile della Nausea a far cadere la maschera della malafede. Questa caduta è l’esito di una scossa che colpisce innanzitutto il corpo: urto, vertigine, smarrimento.

La Nausea sartriana rivela l’esistenza come bruta fatticità, protuberanza ingiustificata, superflua, contingente, di troppo. L’esistenza nel suo essere qui contingente sfugge ad ogni significazione coincidendo con la sua assoluta presenza, con il suo più puro e bruto être-là. In evidenza è qui la distinzione categoriale tra il quid sit e il quod sit - tra la quidditas e la quodditas - tra il che cosa è e il c’è dell’esistenza. Il c’è senza senso non può non evocare l’il y a dell’esistenza che in quegli stessi anni Lévinas pensa come campo neutro, brulichio informe, pura esistenza senza mondo. È il tema della prevalenza di una nozione di esistenza senza trascendenza, libertà, progetto, dell’esistenza come condizione priva di redenzione, senza vie di fuga, intrappolata, incatenata in un essere che è anteriore al mondo inteso come luogo della significazione.

Nella Nausea non si tratta però dell’angoscia che Sartre - seguendo Kierkegaard e Heidegger - definisce ne L’essere e il nulla come l’autopercezione riflessiva della nostra libertà, vincolata alla responsabilità di fronte al carattere sempre dilemmatico della scelta. Diversamente dall’angoscia che è in stretto rapporto con il campo aperto delle possibilità, con la libertà come fondamento infondato dell’esistenza, la Nausea è invece in rapporto con il reale impossibile dell’esistenza, con la sua fatticità. Sartre distingue chiaramente l’una dall’altra:

la percezione esistenziale della nostra fatticità è la Nausea, e l’apprensione esistenziale della nostra libertà, l’Angoscia.
Se l’angoscia kierkegaardiana e heideggeriana implicano la separazione, la perdita, il confronto con il nulla del proprio fondamento, la Nausea sartriana implica invece il sentirsi affondare nell’esistenza senza possibilità alcuna di separazione. Se l’angoscia è un’esperienza che ha al suo centro il rapporto dell’esistenza con la responsabilità della scelta che implica la possibilità permanente di fare un taglio netto col proprio passato, la Nausea appare piuttosto come un’esperienza di sprofondamento, di immersione, un segnale di intrappolamento nell’immanenza assoluta, irrelata, senza rapporto, dell’esistenza, segnala il ritorno dell’infanzia insuperabile dell’esistenza, mostra l’esistenza come il nucleo buio del soggetto che non si lascia mai metabolizzare integralmente dal simbolico, un passato traumatico che non si lascia dimenticare. La Nausea non è angoscia di fronte al nulla a fondamento della nostra libertà, né sorge dalla meraviglia di fronte all’essere, ma dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza. La Nausea non confronta, come accade per l’angoscia, il soggetto con la propria libertà - non rivela la trascendenza dell’esistenza - quanto con l’
assenza di libertà. Rivela la fatticità bruta di un’esistenza che si scopre come pura passività, inerzia, incatenamento. Non a caso Sartre avrebbe voluto intitolare il suo romanzo Melancholia a sottolineare come la condizione del soggetto nauseato evochi da vicino quella del soggetto malinconico: mentre nella paranoia il senso è dappertutto - nella paranoia tutto è diventato segno -, nella melanconia l’esistenza appare scissa dall’Essere, priva di ogni senso.


[Massimo Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio]

domenica 20 marzo 2022

esistenza, infanzia e desiderio

L'obiettivo che Massimo Recalcati si prefigge con il suo volume Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio è quello di correggere la versione stereotipata del soggetto sartriano come pura trascendenza della libertà, mostrando invece come il movimento più profondo del suo pensiero implica una concezione della soggettività come ripresa, assunzione retroattiva, soggettivazione di quello che il filosofo francese stesso definisce il carattere insuperabile e inassimilabile dell’infanzia.
Il soggetto, infatti, non è Sovrano, non è Sostanza, non è un Ego, e questo poiché, semplicemente, nessun soggetto può essere senza infanzia. La sua vocazione originaria non sorge dall’intenzionalità, non è, paradossalmente, una libera scelta del soggetto, ma proviene sempre, come direbbe Lacan, dal discorso dell’Altro. Il soggetto può certo guadagnare la sua singolarità, ma solo rimodellando incessantemente le tracce indelebili di questo discorso. Perciò, il Sartre più maturo dissolve l’idea di un’esistenza libera che precede ogni essenza, mostrando invece quanto l’esistenza si trovi da sempre sommersa, insabbiata, presa in circuiti di costrizione eterodiretti, inclusa nell’alienazione della storia, obbligata ad una passività di fondo costituita dalle marche traumatiche del desiderio degli Altri. Costituzione e personalizzazione scandiscono il rapporto necessario del soggetto con gli eventi contingenti della propria infanzia.
È allora possibile per il soggetto essere libero, se la sua vita è costituita dall’Altro? E come dobbiamo ripensare una libertà che non escluda il destino? Ancora, cosa significa scegliere la propria vita se la nostra prima vocazione è stata scelta dagli Altri? Cosa significa, insomma, pensare, come sostiene Sartre, l’infanzia al futuro?
L'interesse sartriano per l’infanzia è profondamente legato a quello nei confronti del processo di soggettivazione. L’infanzia viene infatti considerata un tempo originario dell’esistenza in cui l’evento della soggettività è preceduto dal discorso dell’Altro, anticipato come oggetto di questo discorso, costretto in una necessità profonda. Per questo l’infanzia viene descritta da Sartre come insuperabile, inassimilabile, un’opaca profondità che impone al processo di soggettivazione ritorni spiraliformi continui su di essa. Sono i resti indimenticabili, i traumi, le parole dell’Altro, le sue impronte a contrassegnare in modo indelebile ogni processo di soggettivazione. È qui che si gioca il destino del soggetto e la sua libertà di riuscire a fare qualcosa di ciò che lo si è reso.
Questa nozione di libertà come petit décalage (piccolo scarto) ci consegna una soggettività dai caratteri molto diversi da quella definita nell’ontologia esistenzialista de L’essere e il nulla come progetto e scelta.
È, secondo Recalcati, il grande tema dell’eredità. L’ereditare non come acquisizione passiva, ma come movimento in avanti, aperto sull’avvenire, riconquista, impegno a riscrivere le tracce già scritte nel nostro passato. È l’eredità come invenzione singolare che non può che generarsi come una conversione inedita e singolare della ripetizione che scaturisce dal nucleo opaco della nostra infanzia primordiale
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sabato 5 marzo 2022

nietzsche e l'antifilosofia [3]

Un argomento ancor più essenziale concernente la difficoltà d’interrogare il testo nietzscheano è che la causa centrale della sua impresa non è altro che Nietzsche stesso. È una singolarità filosofica davvero sorprendente. È Nietzsche stesso a trovarsi al cuore del proprio dispositivo in quanto principio di valutazione centrale della propria impresa. Vi si convoca da sé e chiama noi come testimoni. Non è soltanto un autore, ma è lui stesso un pezzo di testo, e un pezzo strategicamente centrale. Ricordatevi di quel
Nietzsche contra Wagner:
la follia può essere la maschera per un sapere infelice troppo certo.

Ciò che è depositato in questo enunciato come principio immanente alla propria valutazione è un regime della certezza soggettiva assoluta, una tensione del pensiero, un sapere troppo certo, un sapere in eccesso su se stesso tramite la propria tensione che vale come prova. È l’argomento centrale della disposizione del testo stesso, il testo nietzscheano è il depositario di un eccesso. Esso è ciò in cui tale eccesso si deposita e Nietzsche non ha nulla in contrario, in fondo, nel chiamarlo “follia”, nella misura in cui questa non è altro che la maschera di un sapere infelice troppo certo. Questo eccesso è una sovratensione della verità, una verità esposta nel regime di un’appropriazione così radicale o così tesa che essa è, di per sé, la propria esposizione provocante. Per quanto appassionato possa essere nella propria sincerità, Nietzsche è di quelli che sanno. “Conosco la mia sorte”, dice alla vigilia della sua caduta,

un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme - una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. (Ecce homo)

Conosce il pericolo a cui s’espone; sa che il suo pensiero ruota attorno a questo centro pericoloso e tragico che, chiaramente, annienterà la sua vita. Il grado di rischio nel quale un uomo vive con se stesso è per lui la sola misura valida di ogni grandezza. Soltanto colui che rischia sublimemente la propria vita può guadagnare l’infinito. Cosa importa se il costo è la vita, visto che raggiunge la verità. La passione è più dell’esistenza, il senso della vita è più della vita stessa. Il testo è lì solo per accogliere e al tempo stesso placare quest’eccesso. L’accoglie. Questa sarà la sua dimensione di tensione e di prova interna, ma lo calma e lo inscrive.


Allora, nella misura in cui il testo è depositario di un eccesso su di sé della verità, questa disposizione si attesterà nella sua forma o nel suo stile. Ciò che è sottratto all’argomento deve necessariamente ritrovarsi o superarsi, in quanto eccesso su di sé del vero, nella potenza della forma. Ciò che varrà come prova per la verità è esattamente questa potenza tale per cui la prosa la capta o l’organizza nel registro della sua forma. Nel suo ruolo organicamente filosofico, la poesia testuale nietzscheana è dunque contemporaneamente la possibilità della verità e la possibilità di sopportarla. È la sua potenza e la possibilità di sopportare tale potenza. In quanto poeta o filosofo-artista, in preda alla propria scrittura, Nietzsche è la via della verità che egli proclama. Bisogna esporre la verità come vita, e non come argomento convincente. Ma esporla come vita vuol dire esporre se stessi. Questa esposizione consiste nella poetica stilistica.

Nietzsche è colui che ha spinto all’estremo l’imperativo di parlare rigorosamente a proprio nome. D’altronde, c’è una connessione eclatante fra ciò che egli intende con “parlare per se stesso” e ciò che Lacan vuole dire con la formula “non cedere sul proprio desiderio”. Se quest’ultima massima evoca qualcosa nella storia della filosofia, Nietzsche ne è chiaramente l’incarnazione quando dice di essere o d’installarsi al cuore del proprio enunciato, al punto che l’espressione “non cedere” verrà naturalmente alla sua penna in Ecce homo:

il mio istinto si decise inesorabilmente a finirla di cedere [...] di procedere con altri, di scambiarmi con altri [...]. Io ho un dovere [...] e cioè quello di dire: Ascoltatemi! Perché sono questo e questo. E soprattutto non scambiatemi per altro!

È veramente di “non cedere” che si tratta, in maniera tale da essere ben convinti di ciò che si enuncia, dal momento che lo si enuncia in quanto se stessi, nel desiderio al quale si è coestensivi. Conquistare la possibilità di prendersi per se stessi è l’autentica posta in gioco del “dire filosofico”.

Parlare a proprio nome, prendersi per se stessi, si unisce a una convocazione del vero come figura della decisione, e non in quella dell’esteriorità o dell’adesione. La verità è sempre all’interno del registro della decisione.

Io per primo ho il metro per le “verità”, io per primo posso decidere. (Ecce homo)

Il che significa sempre anche: io sono il primo che parla [la verità], e io la decido, non all’interno del regime dell’approvazione o dell’argomentazione, ma in quello dell’enunciazione, perché è l’enunciazione che collega la verità alla sua potenza. C’è una decisione di verità, ma non c’è nulla che sovrasti questa decisione per garantirla o autorizzarla. Si autorizza soltanto da sé.

Ne consegue che la verità si dà sempre come figura del rischio, al contrario di ogni figura di saggezza o di contemplazione. Il problema consisterà interamente nel sapere ciò che si è capaci di sopportare. Non è la questione della ricerca [della verità] o della sua contemplazione, ma quella della maniera in cui la si tollera. La verità è, in parte, una questione di sofferenza. Una sofferenza che [Nietzsche] s’infligge, ma non nel senso redentore o cristiano, ovvero nel senso che occorre soffrire affinché dal fondo di questa sofferenza giunga la redenzione salvifica. No, è unicamente per sapere quale animale sono.

Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più. (Ecce homo)

Una verità non è mai ciò che si argomenta o si discute, ma ciò che si dichiara. Ogni verità si dà nella figura rischiosa di una dichiarazione, il cui principale testimone è il soggetto stesso dell’enunciazione nella sua capacità di sopportare, di reggere ciò che dichiara. Questa figura, a dispetto della sua somiglianza, è in realtà l’opposto della figura del martire.

Il dire autentico, vero, dunque il diro filosofico-artistico, è l’esposizione dell’enunciazione come rottura, l’esposizione dell’elemento del terribile come rottura interna al dire stesso. Ora, ogni volta che si verifica un’esposizione integrale dell’enunciazione come rottura, ciò coinvolge l’umanità intera, anche se questo coinvolgimento non riguarda che uno soltanto dei suoi punti. È in gioco la sorte dell’intera umanità. Ecco perché Nietzsche può dire: porto sulle spalle il destino dell’umanità senza che per lui questa frase sia esagerata o delirante. Semplicemente, infatti, è in procinto di stabilire un regime di discorso senza scarto fra colui che dice e ciò che è detto. È ciò che potremmo chiamare, con termini lacaniani, il punto di capitone della storia del pensiero.


[Alain Badiou, Nietzsche. L'antifilosofia 1. Seminario 1992-1993]

domenica 20 febbraio 2022

filosofia della nostalgia

Con Yesterday. Filosofia della nostalgia quel sentimento dominante in tempo di crisi quando il presente è opaco e il futuro incerto, viene indagato e raccontato da Lucrezia Ercoli in maniera puntuale e interessante, delicata e potente.
La nostalgia sembra essere un tratto proprio del XXI secolo, in cui il vento della Storia non è più quello della tempesta del progresso che, all'inizio del secolo scorso, spingeva più l'Angelus Novus di Klee e Benjamin verso il futuro, ma quello della retrotopia (Zygmunt Bauman) che, in un'epoca di incertezze e di un futuro sempre più imprevedibile, riconduce verso il passato e un paradiso perduto. E, come mostra la Ercoli, essa rappresenta un sentimento ambiguo, che può declinarsi tanto in una malattia paralizzante quanto in un indicatore per pensare l'avvenire, che può essere tanto affascinante quanto pericoloso.

Nostalgia (da nostos, ritorno in patria, e algos, dolore o tristezza) è un termine coniato nel 1688 - in cui confluiscono espressioni presenti in diverse lingue, dal tedesco Heimweh al francese mal du pays, dall'inglese homesickness al portoghese saudade - per indicare una malattia, una condizione clinica, causata da un eccessivo attaccamento alla patria lontana. Una patologia che accompagna l'accelerazione del tempo moderno, con i suoi cambiamenti radicali e veloci portati dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione del finire del XVII secolo. Certo già l'Odissea omerica ha delineato i contorni della nostalgia come malattia dell'esule che rimpiange la terra natia, ma è la modernità che la universalizza, la fa sfuggire ai confini della patria, per renderla nostalgia di paesi e di felicità sconosciuti (Charles Baudelaire), desiderio di una felicità che è sempre dove non si è noi. O, forse paradossalmente, l'odierno uomo di città ha eliminato da lungo tempo la nostalgia? (Martin Heidegger). E questo sarebbe il vero pericolo: l'esperienza della perdita della casa sembrerebbe incompatibile con l'omologazione moderna per cui è facile sentirsi a casa ovunque, in cui tutto è vicino e raggiungibile, immediato.  Una connectography (Parag Khanna) in cui i confini non sono più definiti tramite mappe geografiche perché trasporti, comunicazioni, reti mediali hanno trasformato i concetti di spazio e di viaggio.

Il film di Woody Allen Midnight in Paris rappresenta un vero e proprio saggio visivo sulla nostalgia dell'età dell'oro, mostrando come quello che per una generazione è prosaico e volgare, per la generazione successiva si trasforma in qualcos'altro, in qualcosa di magico e vintage. Ma mostra anche che l'età dell'oro non è la stessa per ogni epoca, che la costante è piuttosto la considerazione del presente come noioso e insoddisfacente. Questa sindrome dei bei tempi andati è sempre esistita, l'idea di una parabola discendente è narrata nel poema Le opere e i giorni da Esiodo ed è un mito che si rafforza nella cultura romana per esempio con l'Ovidio delle Metamorfosi, e non è una proprietà esclusiva della tradizione occidentale: si tratta di un archetipo universale che si rafforza nei periodi di crisi, necessario per elaborare la disperazione provocata dalla estrema miseria, dalla mancanza di libertà e dal crollo dei valori tradizionali (Mircea Eliade), di una nostalgia delle origini che è caratteristica permanente della memoria collettiva. I
l passato è costantemente frutto di una creazione che rinnova un mito immaginario tra realtà e sogno, che popola il nostro presente di spettri che non se ne sono mai andati, di fantasmi che continuano a condizionarci: il passato non è morto, non è nemmeno passato (William Faulkner).
Una serie televisiva come Happy Days costruisce gli anni Cinquanta come quel tempo felice della storia americana contemporanea prima della catastrofe della Guerra in Vietnam, e la formula seriale e ripetitiva è perfetta per creare la continuità e la stabilità di giorni felici. La cinquantezza (Fredric Jameson) propria di produzioni degli anni Settanta e Ottanta non racconta il passato nella sua totalità ma lo epura da ogni forma di conflitto e complessità storica, lo riesuma in forma innocua, lo crea nostalgicamente senza comprenderlo. Film come Pleasantville di Gary Ross o The Truman Show di Peter Weir decostruiscono questo paradiso dei fifties mostrandolo come un inferno repressivo e proibizionista o comunque mostrando come pura simulazione la sua perfezione.
La nostalgia, così, non corrisponde a un archivio di eventi ma a una visione irreale da sogno. Ed è con l'immagine in movimento - video, cinema, televisione - che dal secondo dopoguerra, ancora più che nei decenni precedenti, il passato acquisisce una natura immaginaria, completamente svincolata dalla storia.
Da questa dimensione anche nefasta e terribile della nostalgia mettono in guardia Milan Kundera - che nell'incipit del romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere mostra come essa speri nel ritorno del tempo perduto anche quando questo è segnato da atrocità irripetibili -, Vladimir Nabokov - che ne Il dono avverte dell'inestinguibile nostalgia per le cose a cui diciamo addio anche se non le abbiamo mai amate -, le ostalgie (crasi tra osten, cioè est, e nostalgia) nella Germania dopo la caduta del muro di Berlino dei popoli dell'ex blocco sovietico, per i quali liberazione e passaggio disorientante vanno insieme. Questo senso di continuità di una comunità, questo forte attaccamento nostalgico per un passato idealizzato, rischia di produrre un'inversione storica (Michail Bachtin) che riporti in vita anche i cadaveri di un passato che si era superato, di essere un potente veleno in cui orgoglio nazionale e tradizione religiosa formino un cocktail reazionario.
Una serie televisiva come Stranger Things dei fratelli Matt e Ross Duffer, invece, costruisce una ottantezza, una nostalgia degli anni Ottanta come epoca dell'immaginazione, in cui la tecnologia non è ancora esplosa a livello di massa, non è ancora una presenza pervasiva nelle vite di ognuno che condiziona lo spazio pubblico e privato, e c'è una promessa di liberazione ed emancipazione non ancora soppressa da un sistema di controllo digitale. Anni in cui cose strane possono ancora accadere.
Questa la dualità della nostalgia: da una parte una nostalgia restauratrice, una fissazione regressiva bloccata nella fascinazione del ritorno dell'ordine naturale e delle identificazioni forti, un revival reazionario legato a una propaganda faziosa, una retorica nazionalista, un'esaltazione della patria; dall'altra una nostalgia riflessiva, capace di riconoscere l'irrevocabilità del passato e di fare della memoria un'eredità per progredire, generando un'attesa carica di pathos e di storia.

A svelare il vero oggetto della nostalgia è la musica: non l'assenza contrapposta alla presenza, ma il passato in rapporto al presente. Ciò di cui si ha nostalgia è ieri - yesterday -, ieri in quanto ieri, il passato in quanto passato, il tempo in quanto tempo perduto. La canzone pop è così il linguaggio della nostalgia ai tempi della sua riproducibilità tecnica e i tormentoni musicali sono intimni (Peter Szendy) - cioè allo stesso tempo inni collettivi e melodie intime - che ripetono sempre la stessa frase, al contempo dolorosa e catartica: Tu eri e non sei più. In questo senso, la nostalgia evoca una scissione costitutiva, una cicatrice incancellabile, e rappresenta un'esperienza ineliminabile della condizione umana.
Ancora una volta si fa necessario evidenziare il potenziale venefico della nostalgia, il cui soddisfacimento allucinatorio può spegnere la vita rinchiudendola in un mondo popolato di fantasmi, in un paradiso artificiale che impedisce di affrontare il trauma della perdita e di compiere il lavoro del lutto. E tanto più nell'epoca contemporanea l'opportunità di registrare e conservare un numero di ricordi personali senza precedenti nella storia, può tramutarsi nel pericolo di perdere lo slancio verso il futuro che rende propositiva la nostalgia (Davide Sisto).
I tempi della nostalgia contemporanea continuano a accorciarsi, che la nostalgia diventa nostalgia del presente perché la sua operazione avviene per tutto e continuamente. Se ancora nei primi anni Novanta si immaginavano, con fiducia nel futuro e slancio prometeico, alternative, dai primi anni Duemila la cultura sembra essere nel segno della retromania (Simon Reynolds), del revival, della ristampa, del remake, della ricostruzione: il futuro non c'è più, è sconfitto, è perduto.
Per non essere solo il passato che non passa e torna a tormentare sotto forma di fantasma seducente, per non essere il crepuscolare e senile cliché dell'ai miei tempi che guarda con diffidenza le novità e mal si adatta ai cambiamenti, la nostalgia deve diventare un imparare dagli spettri delle rivoluzioni mancate e delle utopie non realizzate, dai revenant di chi non c'è più ma ci parla ancora. Una hauntology (Jacques Derrida) che si fa carico delle presenze spettrali, e che sembra essere il sentimento dominante delle produzioni contemporanee capaci di evocare immagini e suoni provenienti da futuri perduti (Mark Fisher). Una nostalgia che non rinuncia allo spettro - come il crepitio tipico della musica hauntologica che riproduce il rumore della puntina sul vinile e che ci rende coscienti del fatto che stiamo ascoltando un tempo che è fuor di sesto (Fischer) -, che parla al fantasma e sente cosa ha da dire, ma che oltre allo struggimento per ciò che è stato si fa carico dell'ingiunzione che viene dal passato quale motore dell'avvenire. Una nostalgia come post production (Nicolas Bourriaud) e reboot che riedita il passato in una versione che fa rivedere qualcosa di già visto ma con uno sguardo diverso, che riprogramma il non ancora dei vari futuri che si era preparati a attendere e che non ci sono mai stati.

sabato 12 febbraio 2022

nietzsche e l'antifilosofia [2]

Il vettore di questo seminario sarà Nietzsche. Lo abborderemo attraverso tre obiettivi:

  • Per cominciare, tentare d’individuare la statura del testo nietzscheano, d’interrogarne l’essenza filosofica.

  • In seguito, domandarsi in quale misura il XX secolo sia stato nietzscheano. Da Heidegger a Deleuze si dirigerà, mi sembra, una sorta di arco o di scarto massimale attorno alla questione della contemporaneità di Nietzsche.

  • Infine, si tratterà di determinare la natura del rapporto fra la filosofia e l’arte. All’annuncio hegeliano della fine dell’interesse filosofico per l’arte, in opposizione a questo, si è avviata, a partire dall'inizio del XIX secolo, una vigorosa promozione dell’arte come condizione radicale del pensare. L’arte è innanzitutto, per Nietzsche, un tipo soggettivo. Prima e più essenzialmente dell’opera, l’arte è la figura dell’artista. Rispetto al quale Nietzsche disegna il tipo del filosofo-artista, che non è o non è più il prete. È la questione dell’arte come figura di verità. Essendo l’arte, nel mio linguaggio, una procedura generica, come ogni procedura di verità.

La mia strategia in questo seminario consisterà dunque nell’intrecciare queste tre interrogazioni: topica, storica e generica.


Interrogare il testo nietzscheano suscita poi un’altra difficoltà. Quella di sapere cosa vuol dire con esattezza utilizzare il testo nietzscheano. O più precisamente: quale domanda possiamo rivolgere a un testo siffatto? Il testo è qui, ma non è aperto. Non si dà nella forma della proposizione: espone più di quanto non proponga. Il montaggio nietzscheano non è un montaggio in cui la negazione precederebbe o costituirebbe la possibilità dell’affermazione. Al contrario - ed è un punto che Deleuze sottolinea con grande pertinenza -, c’è una sorta di stallo, di distacco singolare fra la dimensione negativa, critica, o, diciamo, distruttiva, e il regime della serenità affermativa che Nietzsche chiama il “Grande Meriggio”. O ancora, se volete, il testo nietzscheano non è per nulla dialogico. Nietzsche è un pensatore che espone il proprio pensiero attraverso una figura sottratta tanto alla dialogicità quanto alla dialettica. Il sottotitolo del Crepuscolo degli idoli ce lo ricorda: Come si filosofa col martello. Un colpo di martello non è affatto ciò cui si rivolge una domanda. Il colpo di martello è contemporaneamente ciò che deve distruggere quel che merita di esser distrutto e ciò che deve conficcare il chiodo dell’affermazione primordiale. Su quest’incudine arroventata dal fuoco della potenza si forgia sempre più duramente, intensificata a ogni colpo, la formula che poi corazza di bronzo il suo spirito, quella della grandezza dell’uomo. Si può anche dire che il dispositivo nietzscheano consiste nel disfare il regime argomentativo. Ricordatevi della massima decisiva nel Crepuscolo degli idoli e della sua forza d’urto:

quel che si limita a lasciarsi dimostrare ha poco valore.

Bisogna intenderla in senso forte: è un giudizio essenziale, perché, beninteso, il valore, la valutazione è appunto l’operazione-chiave in Nietzsche. La sua filosofia è fondamentalmente una filosofia della valutazione, della trasvalutazione. Dal momento che la ragione è valutante, la filosofia non può essere dialogica.


[Alain Badiou, Nietzsche. L'antifilosofia 1. Seminario 1992-1993]

venerdì 4 febbraio 2022

woman in gold

Il film Woman in gold, del 2015, ricostruisce le vicende legate al celebre dipinto di Gustav Klimt Ritratto di Adele Bloch-Bauer.
In una scena la donna siede davanti al suo ritratto con la nipote e le chiede se è bella nel quadro. , risponde la bambina, però non sembri felice.
Adele pronuncia allora questa battuta:
Mi chiedo come sarà essere donna quando tu lo diventerai. Dovrai accontentarti di cose futili?



martedì 1 febbraio 2022

nietzsche e l'antifilosofia

Finite di correggere le ruminazioni sugli aforismi della Gaia scienza prodotte dai miei studenti di quinta, è ora di leggere il testo appena pubblicato da Mimesis del seminario del 1992-93 su Nietzsche tenuto da Alain Badiou presso l'École Normale Supérieure, il primo del ciclo dedicato al tema dell'antifilosofia.
Badiou stesso riconosce come, rispetto a altri seminari in qualche modo totalizzati e architettonicamente composti in opere poi pubblicate, il seminario su Nietzsche rimanga a sé stante, non preparato né successivamente ripreso ma lasciato da parte nella sua impresa filosofica.
Del resto, si chiede sempre Badiou, non è forse questo il destino di Nietzsche nonostante il chiasso - e il malinteso - intorno alla sua opera? E comunque, Nietzsche può essere amato da Badiou per lo stile e la lingua, ma resta sempre un avversario filosofico.
Badiou non se ne occupa, quindi, quando Foucault, Deleuze e tutto il gotha filosofico (Derrida, Klossowski, Lyotard, Nancy) ne fanno un loro riferimento, una fonte decisiva, consacrandolo come una sorta di re postumo del pensiero contemporaneo. Capisce, invece, che non può essere totalmente cattivo, quando nel 1991 viene pubblicato un libro-manifesto Perché non siamo nietzscheani nel quale a dichiarare guerra al filosofo tedesco sono quelli che Badiou definisce "filosofi" reazionari e rivali umiliati dei veri pensatori. Se tutti questi si riuniscono sotto il grido "morte a Nietzsche", allora...
Allora Badiou inizia a interessarsene, a partire dall'ultimo, da quella fine in cui un uomo "Nietzsche" diviene il personaggio centrale di Nietzsche senza virgolette, in cui tutto si rischiara discretamente da ciò che fu troppo ardente, in cui la vita del solitario in marcia verso la follia si ordina alla modesta rivoluzione totale di colui che, benché capace di sbarazzare una volta per tutte l'umanità dal veleno religioso, dalla figura disgustosa del prete e dagli effetti disastrosi della colpevolezza, capace d'instaurare il regno del grande "Sì" per tutto ciò che diviene, riesce a confessare che preferisce, comunque, essere "professore a Basilea piuttosto che Dio".

giovedì 27 gennaio 2022

la debilitata ragione del mondo

Per l'incontro mensile del gruppo di lettura che ormai da qualche anno organizziamo a scuola, il tema dell'appuntamento di gennaio è stato la letteratura italiana. Io ho scelto di leggere Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Trovandomi in una condizione simile a quella in cui l'autore, stando alla presentazione dell'edizione Garzanti, ha scritto il romanzo - parafrasando, lo ho letto a Prato nel ricordo non lontano di vissuti romani, rinverditi da recenti immersioni nella lettura e visione di Zerocalcare - mi sembrava fosse una buona scelta.

I delitti - un furto e, pochi giorni dopo, un omicidio - su cui si incentrano le vicende del romanzo avvengono nel palazzo degli ori, o dei pescicani, di via Merulana 219, scala A, piano terzo. Il commissario-filosofo Ingravallo, coinvolto nelle indagini, è subito presentato chiarendo l'opinione centrale e persistente che lo muove nel suo lavoro, quello secondo la quale andrebbe riformato il senso della categoria di causa, sostituendo alla causa le cause

Le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti.
Così, proprio così, avveniva dei "suoi" delitti. La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l'effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata "ragione del mondo". Come si storce il collo a un pollo.

Si tratta, quindi, di avere a che fare con un nodo o groviglio, o garbuglio, o gomitolo, con un pasticciaccio. E se il romanzo può considerarsi in ciò, secondo lo stesso Gadda, letterariamente concluso, perché il poliziotto capisce chi è l'assassino e questo basta, in esso però ogni ipotesi, ogni deduzione, per ben congegnata risulta offrire un punto debole, come una rete che si smaglia. E il pesciolino... addio! Il pesciolino della "ricostruzione" impeccabile. Nella ricostruzione dei fatti, quello spirito o demone che martella nelle tempie di chi indaga, le somme non si tirano a ragione, il colpevole non è smascherato. Questo infrangere lo schema del thriller, questa negazione e quasi dissoluzione parodica di un genere, è l'equivalente luogo della scrittura di un mondo la cui ragione è debilitata.

Altro aspetto interessante del romanzo è la scelta del dialetto, di uno strumento linguistico parlato o vissuto che per Gadda rappresenta, sottolinea la nota conclusiva del volume, un'insopprimibile esigenza etica e gnoseologica, in cui si fondono ansia di verità, affermazione della propria "autonomia del discernere", vocazione antiaccademica e sfiducia nelle possibilità della lingua-codice. In una breve nota in risposta a un'inchiesta del 1956 su Perché cinema e radio e scrittori ci parlano in romanesco?, Gadda argomenta:

Il romanesco ci ha offerto quella vivezza pittorica, quei liberi toni del parlato, quell'humor che arricchiscono di armoniche sapienti e profonde lo schematismo cachettico delle idee seriose.

Ecco quindi giustificato un espressionismo linguistico fatto di alterazione di s in z, rafforzamento delle consonanti iniziali, raddoppiamento intervocalico, rotacismo e voci tipicamente dialettali.

lunedì 24 gennaio 2022

la morte del tempo [2]

Saturno devorando a su hijo è una delle quattordici Pinturas negras, realizzate da Francisco Goya nella sua residenza di campagna fra la fine del 1820 e la metà del 1823. Un incubo denso di misteri, come ebbe a definirlo Baudelaire. Un'icona che evoca potentemente il legame inscindibile fra il tempo e la morte.

Le Pinturas negras hanno esercitato una grande influenza nella nascita e nello sviluppo dell'arte moderna. Del ciclo si è detto che esprime lo sconforto e la depressione personale dell'artista, alle prese con i malanni dell'età avanzata e con più generali condizioni di salute precarie, la delusione e l'allarme per l'orientamento autoritario del nuovo corso assunto dalla monarchia spagnola, l'inclinazione a tradurre in immagini gli incubi connessi con l'approssimarsi della morte.
Si deve riconoscere che mentre nessuna delle interpretazioni ora accennate sembra essere totalmente convincente, motivi quali quelli richiamati, spesso fra loro intrecciati, si possono effettivamente cogliere. Un comune denominatore può essere certamente individuato in quella tonalità emotiva dei dipinti, ottenuta facendo ricorso a una tecnica particolare e inconfondibile: bianchi sporchi, amalgamati a neri spessi come catrame, ocre fangose, violenti sfregi di rosso e giallo.
Altra caratteristica comune è la rottura dei tradizionali schemi rappresentativi ispirati all'ideale delle "belle forme". Figure deformate, corpi smembrati, sfondi tenebrosi, dettagli raccapriccianti.
Il baricentro del programma iconografico soggiacente alle Pinturas è costituito dalla raffigurazione di Saturno, come divinità della malinconia e della vecchiaia. Un Saturno col quale si identificava lo stesso Goya, o col quale l'artista intendeva stigmatizzare gli agenti dell'Ancien Régime. Un Saturno divoratore e al tempo stesso divorato, disperato e furente, angosciato e terrificante, spietato carnefice e insieme patetica vittima. Un Saturno attraversato da una violenza irrefrenabile, e insieme disarmato nell'ossuta vecchiezza delle membra. Un Saturno - infine - consumato da ciò che per oltre due millenni e mezzo era stato il suo ruolo di implacabile consumatore.

Del dipinto intitolato Saturno devorando a su hijo, si conoscono due precedenti importanti. Il primo è un disegno a matita realizzato dallo stesso artista spagnolo. Il secondo è un quadro di Peter Paul Rubens risalente al 1636, al quale Goya si sarebbe parzialmente ispirato, o che comunque avrebbe avuto la possibilità di vedere. 
Molto probabilmente il disegno precede il dipinto, anche se le differenze sono tali da far escludere che si tratti di uno schizzo preparatorio della pintura. Va in ogni caso sottolineato un aspetto che le accomuna, e nel contempo rende entrambe irriducibili ai moduli di rappresentazione tradizionali di Kronos: il dio non è accompagnato da nessun simbolo temporale, né da alcun altro segno convenzionale di riconoscimento. Salvo uno: il pasto cannibalico.
Già realizzando il disegno, dunque, Goya rompe radicalmente con la tradizione iconografica relativa a Saturno e ce lo presenta nella sola dimensione del dio cannibale.
In entrambe le opere emergono due rilevanti "anomalie". La prima riguarda la mancanza della falce, o di qualsiasi altro strumento che possa svolgere una funzione analoga. La seconda riguarda specificamente l'immagine di Saturno che divora.
Tutte le incisioni, compreso il quadro di Rubens, rappresentano i figli del dio come bambini quasi neonati, secondo quanto si ritrova nella narrazione di Esiodo. Goya, al contrario, introduce una figura giovanile che in nessun modo può essere qualificata come un bambino (Bozal, Pinturas negras).
Si può segnalare un primo e fondamentale aspetto relativo al Saturno raffigurato da Goya, vale a dire la discontinuità rispetto a una lunga e sostanzialmente ininterrotta tradizione iconografica. L'artista spagnolo converte Saturno in un vecchio che divora un giovane, in una frenesia orgiastica che deforma il volto e tutto il suo corpo. Siamo dunque in presenza di una figura spogliata di ogni riferimento meramente metaforico, non più destinata a rinviare ad altro, non investita di altro significato che non sia quello che il dipinto mostra in tutta la sua feroce evidenza: un uomo vecchio che divora il corpo di una giovane donna. Nel Saturno, Goya ha aperto un varco verso l'unico autentico "sfondo" - il nulla che la grande arte occidentale, nelle sue espressioni più lucide, aveva presentato al di sotto della messa in scena delle figure.
È questo il senso, ciò che resta del senso, del Saturno. È sorto ciò che sta al di sotto del linguaggio e del pensiero, al di sotto del loro mondo e delle loro illusioni, e tutto ciò non è altro che il rapporto fra preda e predatore, la vita che ha l'unica esigenza di distruggere la vita (Bonnefois, Goya, le pitture nere).
In Goya l'idea nasce a partire dall'immagine e per questa ragione è più difficile da cogliere. L'anteriorità dell'immagine rispetto al concetto balza evidente dal ciclo delle Pinturas negras, e in particolare dal Saturno. Del dipinto sono più le cose che ignoriamo, o comunque controverse, rispetto a ciò che si può considerare accertato: non sappiamo, anzitutto, quale fosse il titolo posto dall'autore; di conseguenza non possiamo neppure essere certi di ciò che il dipinto raffiguri. 
Nel tentativo di ritrovare il bandolo di una matassa assai intricata, a risultati significativi è possibile pervenire mettendo a confronto l'opera di Hogarth e quella attribuita a Goya. Il percorso concettuale che esse descrivono è esattamente l'uno l'opposto dell'altro. L'artista inglese ricapitola e accumula, con accuratezza perfino puntigliosa, tutti i dettagli che, sotto il profilo storico, sono stati aggiunti per descrivere il processo che conduce da Kronos alla morte attraverso chronos, quasi a volersi assicurare che il "messaggio" giunga forte e chiaro.
Nulla di questo ritroviamo nel dipinto di Goya. La cura posta da Hogarth nell'accumulazione pedante dei simboli del tempo si rovescia nella scelta di cancellarli altrettanto meticolosamente tutti. Ciò che balza fuori dall'opera con devastante incisività è il pasto cannibalico. Di ciò "parla" questa sconvolgente pintura.

In altre opere, a parte il Saturno, non sono pochi né di scarso significato gli elementi propriamente "saturnini", i quali confermano dunque un interesse non effimero né superficiale per la figura della divinità greco-latina. È il caso di Dos frailes, dove una figura demoniaca e cadaverica parla all'orecchio di un anziano provvisto di una folta barba bianca, il quale cammina sostenendosi con un bastone, manifestando chiaramente la sua età avanzata e la sua sordità. Questa immagine costituisce la rappresentazione pittorica tradizionale del dio Kronos ed è stata altresì generalmente interpretata come autoritratto di Goya ormai decrepito e incerto nel camminare (Hervàs Leòn, La Quinta de Goya y sus Pinturas Negras).
Un'immagine molto simile la ritroviamo in un disegno nel quale l'artista ha verosimilmente ritratto se stesso appoggiato a due bastoni, impossibilitato a camminare da solo, aggravato da un'età molto avanzata e da una salute malferma. Aun aprendo - "ancora imparo". Il vecchio cadente, incurvato sotto il peso degli anni, quasi nascosto alla vista da una grande chioma bianca ricongiunta a un'imponente barba incolta, di cui si coglie l'estrema difficoltà nel camminare - ancora impara.
Di questa citazione è stato ricostruito il percorso che, con tutta probabilità, mette in relazione Goya con la pittura dell'età moderna, dal Cinquecento (e forse anche molti secoli prima) fino alla fine del XVIII secolo.
Il titolo Ancora imparo ha la sua origine nella sentenza utilizzata da Platone e da Plutarco, mentre l'immagine di un vecchio appoggiato a due bastoni è in relazione con la stampa omonima di Girolamo Fagiuoli. Nella prima metà del secolo XVI era un luogo comune rappresentare Cronos come un anziano barbuto, vestito con una tunica e appoggiato a due bastoni, come risulta da una stampa di Marcantonio Raimondi. Più vicina nel tempo è la stampa di William Blake che illustrava il libro di Henry Füssli Lectures on Painting che Goya poteva conoscere. In essa si mostra Michelangelo Buonarroti appoggiato a un bastone (Matilla, Aun aprendo, in Goya: Luces y Sombras).
La ricostruzione è certamente utile, ma rischia di essere fuorviante se non viene completata con il riferimento alla fonte originaria. La citazione è completa solo se non si tiene separato il disegno dalla citazione, perché essi costituiscono un unico lemma, semplicemente articolato in una parte disegnata e in una parte scritta.
La frase riportata, di per sé, è solo la metà di una sentenza, che non risale affatto (se non in maniera derivata) a Platone, il quale si limita a citare la fonte originaria, e cioè Solone. L'espressione aun aprendo traduce aei pollà didaskomenos - "sempre molte cose imparando". Ma nella formulazione ellittica implicitamente rinvia a ciò che precede. E ciò che precede è gherasko - "invecchio". Il disegno va "letto" nella relazione organica fra l'immagine e la citazione: Goya cita per intero la sentenza di Solone, solo che la scinde in due linguaggi diversi e complementari, affidando alle parole scritte il "sempre imparando", e all'immagine del vecchio la malinconica confessione: "invecchio".
Anche per questa via è dunque possibile escludere che nel Saturno l'artista spagnolo abbia semplicemente "dimenticato" di raffigurare gli attributi che infallibilmente accompagnano la rappresentazione del dio. Se nel dipinto non compaiono i tradizionali simboli temporali, essi mancano perché una loro eventuale presenza renderebbe meno leggibile la chiave di interpretazione di Kronos-chronos che Goya intendeva rendere evidente. Mancano perché, ciò che resta, e balza dunque in primo piano, è un aspetto che non è riconducibile alla pluralità indistinta dei segni che scandiscono il passaggio da Kronos a chronos e poi alla morte.
Per Goya, Saturno è il dio cannibale, il tempo che tutto tutto divora e consuma. L'acquaforte di Hogarth segna il culmine di un processo di accumulazione di simboli temporali che hanno condotto al compimento - ma insieme anche alla dissoluzione - dell'immagine tradizionale del tempo. Dopo quell'esito, non è più possibile ornare l'immagine del tempo con attributi che ne addolciscano la forza devastatrice. Saturno compare in tutta la selvaggia ferocia del tempus edax, che non lascia alcuno scampo. Nessuna divagazione, nessun cedimento all'eufemismo della metafora, ma il tempo come potenza instabile e distruttiva, rappresentato nella sua brutale quintessenza del divoratore.

Ma il disegno esige un ulteriore approfondimento sul piano specificamente filosofico. Con uno scatto d'orgoglio, quel vecchio rivendica di essere ancora capace di imparare. Anzi, nella connessione fra il disegno e la citazione, Goya ci dice che la sofferenza gli ha insegnato.
Che la sofferenza [pathos] possa produrre conoscenza [mathos] è convinzione che affiora ripetutamente. Lo afferma Eschilo (Agamennone), ma una convinzione analoga è espressa anche da Sofocle (Elena, Edipo re). Il pathos è dunque il tramite di un'esperienza che conduce verso un arricchimento della conoscenza, come già aveva solennemente affermato Erodoto, sostenendo che le sofferenze producono conoscenze.
Se davvero il vecchio raffigurato nel disegno corrisponde a un autoritratto; se l'immagine appena delineata di un personaggio che procede con fatica appoggiandosi a due bastoni e che di sé dice di aver imparato coincide con quella dell'artista spagnolo - questo è ciò che Goya ha imparato e vuole trasmetterci. Egli ha "imparato" che il tempo consuma e distrugge tutto ciò che ricade sotto il suo dominio, fino al punto da divorare ciò che ha generato. A differenza di quello descritto da Hogarth, il Kronos di Goya lotta disperatamente per sopravvivere. Gli occhi ne dicono la follia, per sopravvivere distrugge ciò che soltanto ne può assicurare la continuità. Un impulso di morte che si esprime in disperata e cieca volontà di vita (Cacciari).

[Umberto Curi, La morte del tempo]

venerdì 21 gennaio 2022

la morte del tempo

Il pensiero greco conosce due modi distinti per definire il tempo (Per la verità, oltre ai termini aion e chronos, di cui ora si dirà più ampiamente, nei testi letterari e filosofici greci antichi si possono ritrovare altre due accezioni diverse, corrispondenti a categorie temporali. Kairos è il termine con cui ci si riferisce a una dimensione qualitativa del tempo. Coincide dunque con quello che si potrebbe chiamare il "momento opportuno", il "tempo debito", nel quale la continuità chronologica si interrompe per l'irruzione di un "istante" diverso e più "intenso" rispetto ai precedenti. Eniautos, infine, è il tempo ciclico, il "grande anno", un periodo di tempo relativamente lungo, nel quale si ripresentano gli stessi avvenimenti): da un lato esso è qualificato come aion, il "sempre-essente", la "durata" senza limiti, che non ha né principio né fine. Dall'altro lato esso è chronos, grandezza misurabile, forma temporale del divenire e del perire.

Per Anassimandro la nascita e la morte degli enti, il ciclico compimento di una giustizia universale che reintegra l'unità originaria dissipata dalla molteplicità del divenire, avvengono secondo l'ordine del tempo (chronos). 
Per Eraclito il tempo è aion, ed è un fanciullo che si comporta come tale, e dunque gioca disponendo le pedine sulla scacchiera. 
Questa scissione fra tempo aionico e tempo cronico, tra la durata "sempre-essente" dell'essere e l'irreversibilità del divenire, è riconfermata nel mito cosmologico descritto nel Timeo platonico, dove aion è la forma del tempo riferita all'essere, e chronos è il tempo attribuito al divenire.

Nelle fonti più antiche che ne hanno tramandato la figura, Kronos è provvisto di un'intelligenza contorta e terribile, anzi, la cosa più terribile. I due aggettivi formano in realtà un'endiadi. Egli è infatti terribile, perché la sua metis non è lineare, non ha la trasparenza del logos, né il "naturale" orientamento verso il bene che è proprio della sophia.
Una saggezza "ricurva", una falce affilata, la propensione a cibarsi di carne umana. Con questi attributi egli comparirà frequentemente nelle raffigurazioni rinascimentali e barocche, fino alle soglie dell'età contemporanea.

Nella lingua greca antica, Kronos si scrive con la lettera kappa. Con una leggera differenza (all'ascolto, quasi impercettibile) nella lettera iniziale - una chi, anziché una kappa - si scriveva il termine impiegato per indicare il tempo - chronos. La fortuita somiglianza fra le parole venne adottata a prova dell'identità reale fra le due concezioni, che per la verità avevano alcuni tratti in comune.
Poco alla volta, soprattutto a partire dal IV e dal V secolo dopo Cristo, Kronos viene raffigurato attraverso simboli che hanno un evidente significato temporale, mentre anche i tratti originali vengono interpretati come simboli del tempo.
Il falcetto, tradizionalmente spiegato come utensile agricolo o strumento di castrazione, giunse a interpretarsi come simbolo dei tempora quae sicut falx in se recurrunt, e la favola mitica, che egli avesse divorato i suoi figli, significava che il Tempo divora tutto ciò che ha creato (Panofsky, Il Padre Tempo, in Studi di iconologia).
Kronos diventa chronos. In quanto è edax rerum, divoratore di tutto ciò che ha creato, il tempo coincide con l'immagine di Kronos che divora i suoi figli. Analogamente, la falce, "ricordo" dell'evirazione inflitta a Urano, è insieme anche lo strumento che richiama l'attività agricola ed è inoltre il simbolo della ricorrenza curvilinea del tempo.
Ma poiché la morte era rappresentata con una falce, si realizza una sovrapposizione. Appropriatosi delle qualità di Kronos, il tempo entra così in una relazione sempre più stretta con la morte.
Questa è dunque l'origine della figura di Padre Tempo quale la conosciamo. Mezzo classica e mezzo medievale, questa figura illustra tanto la grandiosità astratta di un principio filosofico, quanto la voracità maligna di un demone distruttivo, e appunto questa ricca complessità dell'immagine nuova spiega il frequente apparire e il diverso significato del Padre Tempo nell'arte rinascimentale e barocca. Verso gli ultimi anni del XV secolo, le rappresentazioni della Morte cominciano a desumere la caratteristica clessidra e talvolta perfino le ali. Il Tempo a sua volta poteva raffigurarsi come ministro della morte, che egli provvede di vittime, o come demone dai denti di ferro ritto in mezzo alle rovine (ibid.).
Ciò che concettualmente era ancora possibile - la distinzione fra la morte e il tempo e fra questo e Kronos-Saturno - sfuma dal punto di vista iconologico. Dall'immagine del tempo si prelevano le ali, da quella di Saturno l'aspetto tetro e decrepito, e inoltre alcuni tratti strettamente saturnini, come il falcetto e il motivo cannibalico.

La miseria dell'esistere, l'evanescenza che nulla risparmia e da cui nulla può sottrarsi. Testimonianza di questo modo di concepire la condizione dei viventi è la ricca e diversificata tradizione iconologica fiorita in età rinascimentale e moderna sul tema della vanitas vanitatum.
Il termine "Vanitas" come distintivo di una categoria particolare di Nature morte è già presente negli inventari del primo Seicento rispetto a una classificazione che comprendeva in un primo tempo gli oggetti preminenti nella composizione e in un secondo tempo classificava genericamente la pittura come StillelebenVie coyeNatura in posa. Sulla fortuna, sull'estensione e sulla resistenza del termine "Vanitas" ha giocato un ruolo fondamentale il riferimento al passo dell'Ecclesiaste (Veca, Vanitas. Il simbolismo del tempo).
La traduzione latina favorisce una lettura dell'espressione chiave della Bibbia secondo un'accezione solo parzialmente corrispondente al significato originale. Il sintagma del testo biblico - hevel hevelim - una volta reso col latino vanitas vanitatum assume talora un'intonazione moraleggiante che appare riduttiva e unilaterale. Ciononostante, almeno alcune opere dell'arte figurativa, fra il XIV e il XVIII secolo, esprimono incisivamente il "senso" di quel discorso, nel momento in cui rappresentano la realtà vivente nei termini di un processo di universale dissoluzione, come irreversibile e irrimediabile venir meno dell'essere.
Fra esse, una delle più suggestive è certamente il tailpiece (ultimo foglio di un'edizione completa delle opere grafiche) col quale William Hogarth suggella la sua fertile produzione grafica e pittorica. Al centro di questa incisione campeggia una pipa appena rotta, dalla quale esce ancora una nuvoletta di fumo in cui è iscritta la parola "Finis" (a questo proposito, pur non riferendosi all'incisione di Hogarth, Veca osserva che se teniamo conto che il termine ebraico corrispondente al latino Vanitas (Hével) significa Fumo, Vapore e si fa riferimento alla consueta presenza di bugie, faci o braceri fumiganti che possiamo riscontrare nella produzione moraleggiante cinquecentesca e secentesca la coincidenza fra testo biblico e rappresentazione plastica rasenta l'ovvietà dell'evidenza). Colui che fumava giace riverso, con lo sguardo rivolto verso l'alto, e reca i segni caratteristici con i quali viene rappresentato il tempo: è un vecchio alato, accompagnato da una falce e da una clessidra.
Intorno, una serie di altri oggetti, indicanti tutti la morte, la distruzione, la fine: il carro del sole che precipita, il testamento che nomina quale esecutore delle ultime volontà il Chaos, testimoni Cloto, Lachesi e Atropo, una colonna rotta, le fiamme che consumano uno degli ultimi dipinti dello stesso pittore. E ancora: il borsello logoro e consunto, l'arco ormai inservibile di Eros, la corona in frantumi, la tavolozza e il fucile, simboli rispettivamente dell'arte e della guerra, infranti, la campana incrinata.
Sulla sinistra dell'incisione, proprio ai piedi della pietra sepolcrale, un documento con grande sigillo avvisa della bancarotta della Natura; il sigillo poggia su un libro aperto sull'ultima pagina: exeunt omnes - la commedia è finita, l'all the world's a stage, quella scena che è la terra intera, ha finalmente terminato la sua dira cupido di finzioni, apparenze, idoli, sogni, contese (Cacciari, La morte del tempo).
Tutti i dettagli di questa composizione recano i segni di una immane ruina, di una dissoluzione che investe e distrugge ogni cosa, umana e naturale. Alle imprese del tempo, corrisponde qui la morte del tempo stesso. Anche la falce di Kronos è rotta, come rotto è pure l'astuccio della clessidra, dalla quale esce la sabbia, e rotta è la pipa ancora fumante. Muore il tempo stesso, e con esso tutto ciò che esiste in questo mondo.
Il titolo dell'acquaforte di Hogarth, The Bathos, riprende la definizione fornita da Alexander Pope (Peri Bathous, Or the Art of Sinking in Poetry), e poi più volte ricorrente nelle controversie sull'arte del XVIII secolo in Inghilterra (al significato originario di "profondità", col quale compare nella lingua greca, Pope sostituisce un'accezione spregiativa: bathos è la trasformazione del sublime in triviale e lo "sprofondamento", di cui dice il verbo to sink, mentre apparentemente riprende il termine greco originario, in realtà allude a un "andare a fondo", "cadere in basso", che è in qualche modo l'opposto dell'accezione originaria). Attraverso un rovesciamento, nel caso dell'acquaforte di Hogarth, Bathos indica soltanto sentimentalità "facile", una pateticità superficiale e infine ridicola. Le cose che pretendono di apparire sublimi, in realtà suscitano la derisione, mentre il sarcasmo dell'artista nei confronti della propria composizione comnprende in sé quella rivolta all'idea stessa di un Sublime nelle cose del mondo, capace di non finire preda della ruota vorace del tempo (Cacciari).
In altre parole, un vecchio tema di elegie poetiche sul carattere transitorio di tutte le cose, sul potere che ha il tempo di livellare, logorare, abbassare tutto, si è trasformato in un quadro (Sedlmayr, La morte del tempo). Indubbiamente, in The Bathos si possono ritrovare, raffigurati analiticamente, in maniera perfino puntigliosa, tutti i segni impressi dall'azione del tempus edax, i trofei accumulati da Kronos, culminati con l'immagine che si scorge sul fondo del quadro, la forca da cui penzola l'ultimo uomo, richiamata dalla quasi identica struttura di sostegno dell'insegna che campeggia al centro, recante la scritta "Alla fine del mondo". Ma ciò che caratterizza peculiarmente questa originale variante della tematica tradizionale della vanitas vanitatum è la rappresentazione riflessiva del potere distruttivo del tempo, il fatto che lo stesso Kronos sia coinvolto direttamente nell'immane ruina che egli stesso ha provocato. La morte del Tempo - genitivo oggettivo - è il tema principale. L'apocalisse a cui allude l'incisione non reca un nuovo cielo o una nuova terra; essa non rivela altro che non sia la nullità dell'ente come tale, la sovranità assoluta del Nulla sull'ente (Cacciari).

[Umberto Curi, La morte del tempo]

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