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venerdì 29 aprile 2011

un anime per tutti e per nessuno (2di2)

Per l’ultimo angelo, il diciassettesimo, Tabris, la missione, come per i suoi simili, è arrivare nel cuore sotterraneo di Neo Tokyo 3 per entrare in contatto con Adam – il principio –, scatenando così, però, la fine del mondo e l’estinzione della razza umana. Non ha scelta, deve farlo, come hanno provato a farlo gli altri Angeli prima di lui.
Che scelta si ha? Scegliere è assurdo, non c’è azione moralmente migliore e, per dirla con Sartre, ai fini dell’essere «è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli» (L’essere e il nulla). Essere Angelo o essere umano è ugualmente assurdo, ma se gli Angeli, che compulsivamente sono attratti dal sottosuolo di Neo Tokyo 3, sembrano non possedere il libero arbitrio, gli esseri umani sembrerebbero averlo a portata di mano. Eppure alla domanda “perché piloti l’Eva?” Shinji non sa rispondere. Cosa rimane dunque? La morte, anzi la possibilità della morte.
Una volta arrivati al cuore di Neo Tokyo 3, dopo uno scontro con l’Eva 01, l’angelo Tabris scardina le regole e sceglie, si fa responsabile del suo destino e si libera: l’Angelo sceglie di suicidarsi – lasciandosi stritolare dall’Eva 01 – per affrancarsi dalle catene dell’eternità e della non scelta, per stanchezza, un grado di spossatezza così elevato da portare all’abolizione dello spirito di sopravvivenza e di autoconservazione.
L’assurdità della vita e l’altrettanto assurdità di quella finzione che chiamiamo male non hanno modo di essere affrontate in chiave morale? Vale la pena lottare, anche quando spingere il masso su per la collina è impossibile? Davvero Sisifo è felice? (Albert Camus, Il mito di Sisifo).
L’istinto di conservazione, la volontà di vivere, non sono una mera questione di specie, ma sono il fulcro stesso dell’individualità e Shinji fa un passo da oltreuomo scegliendo, innescando la volontà di potenza. Il corpo appena abbozzato del ragazzo fluttua nel vuoto, un tratto disegna una linea che fa da terreno: «Guarda, con questo sono nati il sopra e il sotto. Però, con questo è sparita una libertà. Ora sei costretto a stare in piedi sul sotto. Però, questo ti tranquillizza. Perché il tuo stesso animo ha ottenuto un po’ di semplificazione. E così puoi camminare. Tale è la tua volontà. Il mondo che ti circonda è il mondo in cui esistono il sopra e il sotto. Ma in questo mondo tu puoi camminare liberamente. E se lo volessi, potresti anche cambiare la posizione del mondo. Quindi anche la posizione del mondo non resta sempre la stessa. È qualcosa che muta nello scorrere del tempo. E anche tu stesso puoi cambiare. Poiché a dare forma a te stesso sono il tuo stesso animo e il mondo che lo circonda. D’altronde, questo è il tuo mondo. È la forma della realtà che tu percepisci. Senza un altro essere distinto da te stesso, tu non puoi comprendere la tua stessa forma. È nel guardare la forma delle altre persone, che si conosce la propria forma. È nel guardare le mura tra sé e le altre persone, che si conosce l’immagine della propria forma. Senza l’esistenza delle altre persone, tu stesso sei invisibile a te stesso. Prendendo coscienza delle differenze tra te e gli altri, dai forma a te stesso». Shinji, individuo, sceglie, sceglie di vivere, di affermare la sua particolarità, nonostante l’assurdo, nonostante l’illusione, e manda in frantumi il Progetto per il perfezionamento dell’uomo con il quale la SEELE si apprestava ad affrontare l’Armageddon – l’unico modo per scongiurare l’estinzione della razza umana è costringerla a evolvere, a uscire dal tempo e ricercare una nuova eternità, a compiere un salto verso un unico essere di natura divina, un’unica forma di coscienza che elimini gli individui, che elimini l’altro, inverta l’AT-Field così che i confini dell’individualità siano aboliti.
In questo è sartriano. Allo stesso modo, la scelta di Shinji è una rivolta, e in questo è camusiano. Tornando alla sua individualità, scegliendo di vivere, esercita la volontà di vivere, quella che agli Angeli è sconosciuta, e si ritrova proprio nella condizione di Sisifo, in lotta ma felice. La rivolta di Shinji – un percorso inverso rispetto a quello della SEELE – ha un valore individuale e al contempo universale: è il dovere morale della rivolta nonostante l’assurdo.

(da Jadel Andreetto, Neon Genesis Evangelion (Un anime per tutti e per nessuno), in Pop Filosofia)

giovedì 28 aprile 2011

un anime per tutti e per nessuno (1di2)

Evangelion ha una complessità drammatica che implica una stratificazione concentrica di possibili interpretazioni e comprende un’altrettanto intricata serie di riferimenti ipertestuali e interdisciplinari, ha una fabula e un intreccio che si fanno talmente ingarbugliati e densi, da renderlo un’opera bifronte, essoterica ed esoterica come lo Zarathustra di Nietzsche, che il suo autore sottotitolò un libro per tutti e per nessuno.
Già da subito, lo scontro tra l’angelo Sachiel e l’Eva 01 guidato dal protagonista della serie Shinji, potrebbe essere letto, parzialmente ma legittimamente, come una riflessione sul tema dell’altro. Chi è l’altro? Cosa comporta venire in contatto con l’altro? Cosa cerca nell’altro? In Evangelion sembrerebbe un topos centrale, tanto da ritornare quasi in ogni episodio e venire esplicitato nel terzo da uno scambio tra due personaggi in cui, parlando di Shinji, si dice che il ragazzo sta vivendo il dilemma del porcospino, secondo cui tanto più due esseri si avvicinano tra loro, molto più probabilmente si feriranno l’uno con l’altro: «Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione» (Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena). Allegoricamente potrebbe succedere proprio questo nello scontro: l’Eva 01 si avvicina all’Angelo, all’altro, ne supera la barriera emotiva, l’AT-Field – Absolute Terror Field, lo scudo protettivo generato da Eva e Angeli, e anche la barriera dell’animo, il confine dell’individualità umana, è termine preso a prestito dalle teorie psichiatriche relative all’autismo e allo stato di terrore assoluto in condizioni di violazione grave del dominio dell’io –, e viene in contatto con il nucleo, con l’essenza intima dell’altro. La cosa però è molto, molto dolorosa. Addirittura letale per uno dei due. A restare in piedi sarà il più adatto a vivere. Gli Angeli, i “mostri”, i nemici, gli altri, non sono che diverse possibilità di esistenza, ma il più adatto a vivere non significa il più forte, non è una questione darwiniana, è semmai una questione di volontà, al limite del nietzschiano. Il più adatto alla vita è colui il quale vuole vivere. Shinji non sa perché vive e non sa se vuole vivere, perché la vita fa male. Vivere significa entrare in contatto con gli altri, e allora la felicità è fare quello che agli altri fa piacere, fare quello che dicono gli altri per piacere agli altri ed essere accettati appagando il proprio bisogno di consolazione.
Affrontando l’angelo Leliel, l’Eva 01 viene inghiottito nel Mare di Dirac (la zona dei numeri immaginari, un modello teorico del vuoto visto come un mare infinito di particelle di energia negativa). Shinji rimane ore all’interno del nulla e si trova a fare i conti con la sua vita ma soprattutto con se stesso: «Ciascun individuo ha dentro se stesso un altro se stesso; ogni individuo è in effetti costituito da due diversi se stessi. Il se stesso che è soggetto osservante e il se stesso che è oggetto osservato. Ogni oggetto d’osservazione ha però natura molteplice ed esistono quindi molteplici Shinji Ikari. Ognuno di essi è un diverso Shinji Ikari, ma sono tutti il vero Shinji Ikari. Tu hai paura degli Shinji Ikari contenuti nelle altre persone».

(da Jadel Andreetto, Neon Genesis Evangelion (Un anime per tutti e per nessuno), in Pop Filosofia)

mercoledì 27 aprile 2011

amor fati e la lotta degli uomini liberi

«”Ascoltami bene, Harry. Si dà il caso che tu abbia molte qualità che Salazar Serpeverde apprezzava nei suoi alunni, che selezionava accuratamente. E tuttavia, il Cappello Parlante ti ha assegnato al Grifondoro. Tu sai perché. Pensaci”. “Lo ha fatto” disse Harry “perché gli ho chiesto io di non andare fra i Serpeverde”. “Appunto” disse Silente raggiante. “Il che ti rende assai diverso da Tom Riddle. Sono le scelte che facciamo, Harry, che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità» (Harry Poter e la camera dei segreti). Harry Potter è diverso da Voldemort, come da Salazar, non per le sue caratteristiche ma perché ha fatto scelte diverse a partire da cui, solo, quelle caratteristiche assumono forma e valore. È stato Jean-Paul Sartre a esprimere nel modo più radicale quest’idea per cui l’uomo è ciò che, in assoluta libertà, sceglie di essere: «Tu sei libero, scegli, cioè inventa. Nessuna morale generale ti può indicare ciò che è da fare» (L’esistenzialismo è un umanismo).
Il valore etico della libera scelta non consiste nell’esercizio di una libertà astratta e assoluta, ma nella pratica di una libertà sempre inscritta in un contesto, in una ben precisa situazione in cui si tratta di rispondere a ciò che accade. È proprio dove l’ombra di un destino già segnato sembra allungarsi sulla serie delle libere scelte, che Harry comprende il senso profondo della sua libertà di fronte a ciò che accade: «Finalmente capiva quello che Silente aveva cercato di dirgli. Era, si disse, la differenza fra l’essere trascinato nell’arena ad affrontare una battaglia mortale e scendere nell’arena a testa alta. Forse qualcuno avrebbe detto che non era una gran scelta, ma Silente sapeva – e lo so anch’io, pensò Harry con uno slancio di feroce orgoglio, e lo sapevano i miei genitori – che c’era tutta la differenza del mondo» (Harry Potter e il principe mezzosangue). Che differenza c’è tra essere costretti ad affrontare la battaglia mortale e scegliere di affrontarla? È la differenza tra essere o non essere degni di ciò che accade, tra il sì di rassegnazione di fronte a ciò che accade, all’evento, e il sì di affermazione. È Deleuze ad aver descritto, nel modo migliore, questa forma di libertà in cui un certo Amor fati (“amore per il fato, per il destino”) alla Nietzsche come sì all’evento fa tutt’uno con la lotta degli uomini liberi: «Non essere indegni di ciò che accade. Cosa vuol dire allora volere l’evento? Vuol dire forse accettare la guerra quando capita, la ferita e la morte quando capitano? È molto probabile che la rassegnazione sia ancora una figura del risentimento. Se volere l’evento è innanzitutto liberarne l’eterna verità, come il fuoco che lo alimenta, tale volere raggiunge il punto in cui la guerra è condotta contro la guerra, la ferita, tracciata vivente, come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti. In questo senso l’Amor fati fa tutt’uno con la lotta degli uomini liberi» (Logica del senso). La libertà dell’atto etico è dunque un sì all’evento come esposizione incondizionata a ciò che accade, come una passività senza rassegnazione. Una passività che ha la forza di controeffettuare ciò che arriva. Ed è qui che il ragazzo che reca sulla fronte la cicatrice a forma di fulmine sembra incrociare i passi dell’Übermensch, dell’oltreuomo di Nietzsche.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

martedì 26 aprile 2011

da grandi poteri derivano grandi responsabilità

Secondo una prospettiva utilitaristica la giustezza o meno di un’azione è determinata interamente dalle sue conseguenze: nello specifico è determinata dalla quantità di bene  e di felicità prodotta dall’atto mediamente, non solo per la persona che lo ha compiuto. Si tratta di massimizzare il piacere e minimizzare il dolore. In accordo con questa filosofia, gli individui dotati di superpoteri hanno il dovere morale di essere supereroi: Peter Parker è obbligato ad essere Spider-Man, perché la possibilità di grande dolore personale è compensata dal bene che la sua attività da supereroe produce nel mondo.
Ma può essere vero che Peter Parker è obbligato ad essere Spider-Man, anche a qualunque costo personale? L’utilitarismo non riesce a dar conto degli atti supererogatori, che vanno al di là del richiamo del dovere, atti che è bene compiere ma che non è malvagio non compiere. Un altro problema dell’utilitarismo è il suo rapporto con la giustizia. In Joker: L'avvocato del diavolo, Joker si ritrova nel braccio della morte perché ritenuto colpevole di un crimine che non ha commesso. Batman sa che il Joker non ha commesso tale crimine, ha le prove per dimostrarlo: dovrebbe lasciare che il Joker paghi per un crimine che non ha commesso? Secondo una prospettiva utilitaristica sì, ma Batman si rifiuta di far giustiziare il suo nemico sulla base di un errore giudiziario.
Le teorie non-consequenzialiste, invece, negano che il valore morale delle azioni sia interamente determinato dalle loro conseguenze. Immanuel Kant ritiene che si debba agire per il dovere e che quindi siano le intenzioni ad avere un ruolo cruciale nel determinare il valore morale di un’azione. Kant, in una delle sue tre formulazioni dell’imperativo categorico che dovrebbe essere la guida delle nostre azioni morali, esprime la necessità di trattare gli altri esseri umani sempre come fini e mai unicamente come mezzi, ponendo una maggiore enfasi sull’importanza di non trattare mai gli individui come semplici mezzi che su quella di trattarli come fini in se stessi. Così, i non-consequenzialisti distinguono  tra doveri negativi e positivi, ponendo una maggiore enfasi su quelli negativi, e poiché questi sono più forti, ci è proibito adempiere ai nostri doveri positivi violando quelli negativi. Se nessun dovere negativo è violato dalla scelta di Peter Parker se essere o meno Spider-Man, entrambe le scelte sono moralmente ammissibili e optare per essere un supereroe è un atto supererogatorio, che va oltre il richiamo del dovere, e proprio per questo è ancor più degno di lode. La grande responsabilità che deriva dall’avere grandi poteri non è tanto il dovere di usare quei poteri come supereroe, quanto l’obbligo di non usarli a fin di male.
Un’altra questione che merita una riflessione è come, nella loro lotta al crimine, i supereroi dovrebbero interagire con la legge e le istituzioni che la applicano. Batman non è un ufficiale di polizia: non ha mandati per irrompere nei covi dei criminali, usa tattiche di intimidazione fisica per ottenere informazioni, spesso arresta criminali senza avere prove legalmente sufficienti contro di essi e certamente non legge loro i propri diritti. Dovrebbe e potrebbe Batman fare queste cose? Come mostra l’esame della prospettiva utilitaristica, delle azioni che producono il bene più generale potrebbero ancora essere ingiuste. I supereroi non dovrebbero avere delle esenzioni speciali, a meno che non pensiamo che anche gli agenti di polizia dovrebbero averle: il potere da solo non giustifica uno speciale trattamento legale. Delle esenzioni dalla legge potrebbero essere ammissibili se queste leggi non esprimono i nostri doveri negativi, che sono i più importanti doveri morali che abbiamo: potrebbe essere possibile esentare Superman dal rispetto di una zona interdetta al volo, o Batman da quello del codice della strada (la batmobile va piuttosto veloce), ma non è ammissibile esentarli dalle leggi che esprimono i nostri doveri negativi fondamentali.

(da Christopher Robichaud, With great power comes great responsibility: on the moral duties of the super-powerful and super-heroic, in Superheroes and philosophy)

venerdì 22 aprile 2011

sisifo è felice

Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza.
I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi. In quanto a quello di cui si tratta, vi si vede soltanto lo sforzo di un corpo teso nel sollevare l'enorme pietra, farla rotolare e aiutarla a salire una china cento volte ricominciata; si vede il volto contratto, la gota appiccicata contro la pietra, il soccorso portato da una spalla, che riceve il peso della massa coperta di creta, da un piede che la rincalza, la ripresa fatta a forza di braccia, la sicurezza tutta umana di due mani piene di terra. Al termine di questo lungo sforzo, la cui misura è data dallo spazio senza cielo e dal tempo senza profondità, la meta è raggiunta. Sisifo guarda allora la pietra precipitare, in alcuni istanti, in quel mondo inferiore, da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende al piano.
È durante questo ritorno, questa pausa, che Sisifo mi interessa. Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra egli stesso! Vedo quell'uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest'ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest'ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. E' più forte del suo macigno.
Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l’estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo.
Se codesta discesa si fa, in certi giorni, nel dolore, può anche farsi nella gioia. Questa parola non è esagerata. Immagino ancora Sisifo che ritorna verso il suo macigno e, all'inizio, il dolore è in lui. Quando le immagini della terra sono troppo attaccate al ricordo, quando il richiamo della felicità si fa troppo incalzante, capita che nasca nel cuore dell'uomo la tristezza: è la vittoria della pietra, è la pietra stessa. L'immenso cordoglio è troppo pesante da portare. Sono le nostre notti di Getsemani. Ma le verità schiaccianti soccombono per il fatto che vengono conosciute. Una sentenza immane risuona allora: "Nonostante tutte le prove, la mia tarda età e la grandezza dell'anima mia mi fanno giudicare che tutto è bene." L’Edipo di Sofocle, come Kirillov di Dostoevskij, esprime così la formula della vittoria assurda. La saggezza antica si ricollega all’eroismo moderno.
“Io reputo che tutto è bene” dice Edipo e le sue parole sono sacre e risuonano nell'universo selvaggio e limitato dell'uomo, e insegnano che tutto non è e non è stato esaurito, scacciano da questo mondo un dio che vi era entrato con l'insoddisfazione e il gusto dei dolori inutili. Esse fanno del destino una questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini.
Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimenti, l'uomo assurdo, quando contempla il suo tormento, fa tacere tutti gli idoli. Nell'universo improvvisamente restituito al silenzio, si alzano le mille lievi voci attonite della terra. Non v'è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se l'uomo assurdo dice sì, il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è soltanto uno, che l'uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l'uomo si volge verso la propria vita, Sisifo, tornando al suo macigno, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Quest'universo, ormai senza padrone, non gli appare né sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.

(da Albert Camus, Il mito di Sisifo


giovedì 21 aprile 2011

il coraggio dell'atto etico (2di2): un altro genere di coraggio

L’atto etico espone dunque – in quanto atto di rottura radicale – il soggetto al rischio della morte simbolica e/o reale. Slavoj Žižek in alcune pagine de Il soggetto scabroso, commentando Lacan, lega atto etico e pulsione di morte, in quanto l’atto etico non si produce secondo le regole dell’orizzonte socio-simbolico dato, ma è il rischio di un gesto che rompe con il grande Altro, che si priva della sua assicurazione rischiando, così, la morte simbolica e/o reale: «Lacan ha riconcettualizzato la pulsione di morte freudiana come forma elementare dell’atto etico. Per Lacan, non c’è atto etico vero e proprio senza il rischio di questa momentanea “sospensione del grande Altro”, della rete socio simbolica che garantisce l’identità del soggetto: si assiste a un atto autentico solo quando il soggetto rischia un gesto che non è più “coperto” dal grande Altro». Ecco la differenza, sostenuta nella saga di Harry Potter, tra ciò che è giusto e ciò che è facile. Ma l’esposizione a questo limite del dover morire come elemento essenziale dell’atto etico non ha nulla dello sprezzo della morte o del pericolo, è un’esposizione angosciata ma risoluta che è cura della morte che alimenta la vita etica come pratica della libertà: «La morte, improvvisa e definitiva, era con loro come una presenza» (Harry Potter e i doni della morte).
Nel dialogo tra Harry e il ministro della magia al termine del funerale di Silente,  Harry ribatte che Silente «avrà veramente lasciato la scuola solo quando non ci sarà più nessuno che gli sia fedele» (Harry Potter e il principe mezzosangue). È il legame tra giustizia e fedeltà allo spettro dell’altro scomparso, a coloro che non sono più presenti viventi, di cui ha parlato Jacques Derrida: «Non c’è rispetto e quindi giustizia possibile, senza questo rapporto di fedeltà o di promessa, in un certo modo, con quello che non è più vivente. Non ci sarebbe esigenza di giustizia né responsabilità senza questo giuramento spettrale» (Ecografie della televisione).
Voldemort, disposto a tutto pur di salvarsi la vita – anche a uccidere e frantumare la propria anima –, non sa accettare di dover morire, per questo non è capace di atti etici ma solo di calcoli per salvare la propria vita: «L’incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza» (Harry Potter e l’ordine della fenice) gli dice Silente. Questa incapacità ha sempre impedito a Voldemort di accedere, nel corso della sua vita, alla vita stessa nel suo valore. La vita, infatti, come ha scritto Derrida, non vale niente se non vale più della vita, più del semplice fatto biologico di vivere. Il limite dell’enorme potere di Voldemort consiste nel non avere la forza per accedere a quella libertà appassionata ed effettiva che Heidegger chiamava, in Essere e tempo, “libertà per la morte”. Cosa che invece sa fare Harry: «Tu sei il vero padrone della morte» – dice Silente a Harry – «perché il vero padrone non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire» (Harry Potter e i doni della morte).
Il coraggio evocato da Silente è quello di esporsi e rendersi vulnerabili alla morte, o come dice Aristotele al «dolore distruttivo, letale»: «E dunque si crede, in sostanza, che sia proprio del coraggio avere un certo atteggiamento relativamente alla morte e al dolore che le si accompagna» (Etica Eudemia). Il coraggio non esclude, semplicemente, la paura che fa tremare il corpo: il coraggioso, certo, non è un vile, ma non è nemmeno il temerario. Harry, nel momento di andare incontro alla propria fine, «non riusciva più a controllare il proprio tremito. Non era poi tanto facile morire. Pensò che non sarebbe riuscito a continuare e nello stesso momento seppe che doveva» (Harry Potter e i doni della morte). Ecco l’atto etico nella sua forma più pura: incondizionata esposizione all’evento della morte, la forza di una certa debolezza come forza di rendersi vulnerabili alla morte.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

mercoledì 20 aprile 2011

il coraggio dell'atto etico (1di2): ciò che è giusto e ciò che è facile

Il Torneo Tremaghi si è concluso nel modo peggiore. Cedric Diggory è morto nel corso dell’ultima prova, assassinato da Lord Voldemort risorto in tutta la sua potenza. A Hogwarts, nella Sala Grande listata a lutto, le giovani streghe e i giovani maghi sono pronti ad ascoltare il discorso del loro preside, Albus Silente. Sono parole pacate e precise, di una forza misurata ma dirompente, e rendono omaggio alla memoria del giovane Cedric. Un omaggio che, senza enfasi né retorica, prende la forma tragica e bellissima della formula perfetta dell’etica. Formula tragica perché attraversata dallo spettro incancellabile della morte. Bellissima e perfetta perché – in consonanza con l’idea di etica come pratica della libertà espressa nella saga di Harry Potter – non comanda né ammonisce, non dice che cosa si debba fare, ma richiama ciascuna e ciascuno alla propria singolare responsabilità come capacità di produrre, in una data situazione, un atto etico. Cioè un atto ispirato all’idea di giustizia.
È questa la modalità di insegnare senza ammaestrare di Albus Silente: dare ai propri studenti tutti i mezzi perché possano affrontare le situazioni difficili ma lasciare al contempo loro anche la possibilità di affrontare liberamente, e da soli, tali situazioni. Anche a rischio dell’errore o del peggio. Di questo rischio fa esperienza Harry durante il primo anno trascorso a Hogwarts, quando si trova a dover affrontare da solo Voldemort. Silente avrebbe anche potuto fermarlo, avrebbe potuto dirgli che cosa fare, dargli consigli su come fronteggiare il pericolo o, al limite, intervenire in suo soccorso. Ma non fa nulla di tutto ciò: «Invece di fermarci, ci ha insegnato tanto da darci una mano» (Harry Potter e la pietra filosofale). Se l’etica è l’imparare a vivere soli, da sé, tra la vita e la morte, il diritto a un certo rischio non può mai essere cancellato: «Silente mi ha sempre fatto scoprire le cose da solo. Voleva che sperimentassi le mie forze, che corressi rischi» (Harry Potter e i doni della morte). L’atto etico non è un qualche particolare e potentissimo incantesimo in grado di risolvere i problemi o i dilemmi che si pongono al soggetto, ma l’atto di una decisione che trasforma lo stato delle cose senza l’ausilio di nessuna magia.
Ecco le parole che Silente rivolge ai propri studenti in occasione della morte di Cedric: «Ricordatevi di Cedric. Quando e se per voi dovesse venire il momento di scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile, ricordate cos’è accaduto a un ragazzo che era buono, e gentile, e coraggioso, per aver attraversato il cammino di Voldemort. Ricordatevi di Cedric Diggory» (Harry Potter e il calice di fuoco). Il preside di Hogwarts evita accuratamente di fare la morale, non predica, non invoca leggi o valori sommi, gesti esemplari, regole infallibili cui attenersi, o un qualche nobile insegnamento che la scuola avrebbe impartito alle giovani streghe e ai giovani maghi e che sarebbe venuto il momento di mettere in pratica. Lo spettro dell’amico morto, e la morte tout court, gioca un ruolo chiave in questa scelta etica. La formula perfetta dell’etica è la composizione di questi tre elementi: ciò che è giusto, ciò che è facile e lo spettro della morte. Quasi che facile fosse sinonimo di ingiusto – cosa che è tutt’altro che scontata – perché l’etica richiede al soggetto di saper rompere con ciò che è facile per produrre una decisione che abbia la forza di creare, tra la vita e la morte, giustizia. Sicuramente esistono scelte giuste che sono anche facili –  e non sono scelte senza valore nell’ambito della quotidiana convivenza –, ma tali scelte non possono essere definite propriamente etiche. Queste scelte si muovono in quelle che Heidegger chiamava «la medietà di ciò che si conviene», che determina «ciò che è possibile o lecito tentare», che «sorveglia ogni eccezione» e soddisfa così la tendenza a «prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili» (Essere e tempo).
L’etica è qualcosa di più, e di altro, rispetto al comportamento socialmente accettabile, conformistico, attento a obbedire alle regole e alle leggi. L’etica è il coraggio di ciò che è giusto, il coraggio di fare ciò che è giusto e che si alimenta in ciò che è giusto, il coraggio di sospendere l’orizzonte di ogni regola al momento di decidere per ciò che è giusto. «Se l’idea di giustizia, di ciò che è giusto, si confondesse con la legge, qualcosa non quadrerebbe. Sentiamo che ciò rinvia a qualcosa di più della legge, a qualcosa di diverso dalla legge», per usare una formula di Jean-Luc Nancy (Il giusto e l’ingiusto).
Ciò che è giusto richiede coraggio perché rompe con il normale corso delle cose, con l’orizzonte delle abitudini e del comportamento socialmente accettabile. L’atto etico eccede il semplice dovere morale – ad esempio la scelta di combattere, di entrare in clandestinità, di organizzare la resistenza contro Voldemort e i Mangiamorte, rinunciando, così, a una vita normale e rischiando la vita stessa –, potrebbe sembrare un atto supererogatorio (dal latino supererogare, “pagare più del necessario”). L’idea di etica che emerge dalla saga di Harry Potter, nel suo legame con l’idea di giustizia al di là della legge, eccede i limiti che Rawls traccia tra morale per le persone comuni e morale supererogatoria per santi ed eroi (Una teoria della giustizia): non c’è etica né possibilità di giustizia, non c’è atto etico degno di questo nome se non là dove un soggetto si spinge al di là dei limiti del semplice dovere. Non c’è nulla di etico, infatti, nel fare semplicemente ciò che si deve fare.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

martedì 19 aprile 2011

il paradosso dell'appello amoroso

Nel corso di un trasferimento in elicottero verso la nave ancorata a qualche miglio dall’isola di Lost, Desmond Hume, o meglio la sua mente, comincia a viaggiare avanti e indietro nel tempo, oscillando tra il 1996, quando ancora era arruolato nel Primo Battaglione dell’Esercito Reale Scozzese, e il presente in cui vive, il 2004. nessuno è in grado di aiutarlo, eccetto Daniel Faraday, il fisico arrivato da poco sull’isola. C’è una sola soluzione per mettere fine all’oscillazione: trovare una costante, qualcosa di comune a entrambi i tempi e che sia veramente importante per Hume. Ora, la costante di Hume è Penny, la donna che ama. Per arrestare i salti tra i due tempi, Hume deve cercare di entrare in contatto con Penny in entrambi i tempi. Così Hume si reca, nel 1996, a casa di Penny, che non vede ormai da molto tempo, pregandola di dargli il suo numero di telefono e di non cambiarlo per i successivi otto anni. Perché lui la chiamerà, il 24 dicembre del 2004. la salvezza di Hume è legata a questo. Al fatto che Penny, otto anni dopo il loro ultimo incontro, risponda al telefono: «Ti sembrerà incomprensibile, perché neanche io lo capisco. Ma tra otto anni io avrò bisogno di chiamarti. Se c’è una parte di te che ancora crede in noi, allora dammi il tuo numero. Non ti chiamerò per otto anni. Il 24 dicembre 2004, la vigilia di Natale, se provi ancora qualcosa per me dovrai rispondere».
Questa incredibile salvezza che ti viene dalla risposta dell’altro, dal fatto che l’altro accetti di rispondere alla tua chiamata, non è altro che ciò che si chiama amore. In questo Lost riprende, ribaltandola, un’immagine che Derrida ha usato per descrivere il paradosso dell’appello amoroso che, mentre si rivolge all’altro e lo chiama, gli prescrive al contempo di essere libero di non rispondere alla chiamata. Perché senza questa libertà per l’altro di non rispondere non c’è possibilità di vera risposta, e dunque di legame amoroso, ma solo costrizione. «Come se chiamassi qualcuno, ad esempio al telefono, dicendogli in poche parole: non voglio che tu attenda la mia chiamata e che tu ne dipenda, vai a fare una passeggiata, sentiti libero di non rispondere. E per provarlo, la prossima volta che ti chiamerò, non rispondere, altrimenti rompo con te. Se tu mi rispondi, è finita tra noi» (Politiche dell’amicizia). La possibilità che l’altro non ti risponda deve sempre rimanere tale, altrimenti la sua risposta perderebbe tutto il suo significato di libera risposta all’appello amoroso. Il che significa che lo spettro della non-risposta assilla sempre la risposta come minaccia. Per questo siamo continuamente costretti a chiedere conferma all’altro. L’amore non è altro che questo: il fatto che l’altro possa non rispondere alla tua chiamata, che sia sempre libero di non rispondere, e che tuttavia, nonostante tutto – nonostante il tutto, tutto il resto e tutti gli altri – risponda.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

lunedì 18 aprile 2011

perché i supereroi dovrebbero essere buoni?

Kierkegaard descrive la vita che un uomo dovrebbe essere chiamato a condurre come una vita di amore universale, di amore per il prossimo come per noi stessi. Ovviamente non è facile una tale vita d’amore. Un primo pericolo che minaccia il nostro essere morale è un ostacolo interno al bene, alla giustizia, all’amore. Un secondo pericolo, invece, è esterno. La lotta implica un doppio pericolo, è una lotta su due fronti: un primo interno alla persona, una lotta con se stessi, e poi un secondo esterno, una lotta con il mondo. Afferma Kierkegaard: «Abbandona i tuoi desideri egoistici e i tuoi bisogni, abbandona i tuoi piani e scopi di ricerca personale, cosicché tu possa agire veramente e altruisticamente per il bene – e poi, proprio per questa ragione, preparati ad essere disprezzato come un criminale, insultato e ridicolizzato» (Atti dell’amore). Per Kierkegaard, il livello ordinario del valore morale non è molto alto: possiamo ammirare i santi a distanza di sicurezza, ma un vero incontro con l’altruismo eroico ci disturba.
Spider-Man sembra affrontare entrambi i tipi di minacce presentate da Kierkegaard. La sua felicità personale entra in conflitto con la sua vocazione di supereroe. Egli non è mai tentato dall’usare i suoi poteri per il male – nonostante il breve periodo in cui li ha esercitati per il semplice guadagno economico, appena aveva scoperto di averli –, ma la sua scelta è tra l’usare i poteri per il bene o ritirarsi in una normale vita privata. Non c’è pericolo che Peter Parker diventi un cattivo, ciò che è in questione è la possibilità di raggiungere il tipo di altruismo richiesto dal vero amore per il prossimo. Spider-Man affronta la lotta interiore che Kierkegaard chiama primo pericolo, e in questo è come ognuno di noi: la maggior parte delle persone non è tentata dal divenire Hitler o Green Goblin, ma dalla volontà di occuparsi solo del proprio giardino, di raggiungere una felicità individuale senza curarsi dei bisogni degli altri.
In un certo senso, Spider-Man fa esperienza anche del secondo pericolo: la maggior parte delle persone che aiuta gli sembra grata, ma J. Jonah Jameson ritrae costantemente Spider-Man come una minaccia per la società. Gli X-Men, comunque, rappresentano un esempio ancora migliore del doppio pericolo di Kierkegaard, visto come nelle loro storie potenti politici sfruttano le paure della gente nei loro confronti per proporre leggi speciali che impongano ai mutanti di essere registrati, leggi che ricordano in modo preoccupante le misure iniziali messe in atto contro gli Ebrei dai nazisti tedeschi. Gli X-Men incarnano l’amore per il prossimo che Kierkegaard ritiene un fondamentale dovere umano perché agiscono per il bene di tutti, non solo dei loro simili, di chi fa parte della cerchia dei familiari e degli amici, o di chi li può ripagare con benefici di qualche tipo, ma anche di chi tenta di perseguitarli e danneggiarli.
L’agire per il bene dei mutanti non garantisce loro l’essere ben voluti, rispettati o apprezzati. La loro bontà non è quindi il frutto di un calcolo strategico volto ad assicurarsi tolleranza e accettazione, sicurezza. Essa deve essere il risultato di un qualche interiorizzato valore del bene, di una qualche motivazione interiore a fare la cosa giusta e buona resistendo all’universale tentazione di essere puramente interessati a sé. In tutto questo un ruolo di modello positivo è dato dalla struttura della scuola per mutanti di Xavier, fondatore degli X-Men: un posto dove gli studenti possono essere accettati e amati, e quindi con naturalezza iniziare a desiderare di essere come quelli che si sono dedicati ad aiutarli. Qualcuno che esibisce bontà ed è buono con te, stimola gratitudine e ammirazione, produce una crescita morale.
Quindi, forse, il miglior motivo adducibile al perché gli X-Men siano buoni è che essi hanno imparato ad amare il bene come risultato del rapporto con chi è buono. Questa spiegazione è valida anche per Peter Parker: l’omicidio dello zio Ben ha spinto Peter al bene e alla protezione della comunità piuttosto che alla meschina vendetta a causa della positiva educazione morale ricevuta dallo zio e dalla zia May.

(da C. Stephen Evans, Why should superheroes be good? Spider-Man, the X-Men, and Kierkegaard's double danger, in Superheroes and philosophy)

 

giovedì 14 aprile 2011

magia e ragione: decostruire la ragione dogmatica

«Come può un giovane imparare a pensare razionalmente se da bambino si appassiona alle imprese fantastiche di Harry Potter o del Signore degli Anelli?», ha dichiarato nel corso di un’intervista Piergiorgio Odifreddi. Queste parole sono importanti come sintomo: esse dimostrano che il mondo magico di Harry Potter spaventa perché evoca spettri che l’Occidente continua a esorcizzare in nome di un’idea caricaturale e dogmatica di ragione. Nessun elogio dell’irrazionalità in Harry Potter, bensì la decostruzione della ragione dogmatica come apertura della ragione a ciò che non è riconducibile al calcolo e al calcolabile. I guardiani del “vecchio razionalismo” (Edmund Husserl) non sanno pensare, proprio come zio Vernon, al di fuori del ristretto ambito delle loro presunte certezze, mentre la saga della Rowling scava nel sottosuolo della ragione e restituisce alla ragione quella parte fondamentale di irrazionale che la abita e la ossessiona, e di cui lo straordinario personaggio di Luna Lovegood, che «crede solo alle cose di cui non esiste alcuna prova» (Harry Potter e l’ordine della fenice) – e che, alla “prova dei fatti”, sarà apprezzata anche dalla logicissima Hermione –, è uno dei simboli più belli. Ed è solo in questo modo che c’è educazione effettiva alla razionalità, a una razionalità complessa e aperta che rompe con quello che Jacques Derrida ha definito logocentrismo: il dominio di una ragione maschile e dogmatica ossessionata dalle idee di esattezza e di verità. Sono meri pregiudizi razionalistici ed etnocentrici che elevano una forma particolare e storica di razionalità, quella occidentale, a modello e norma universale.

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

mercoledì 13 aprile 2011

aristotele e gli amici del cavaliere oscuro

Nell’Etica Nicomachea Aristotele fa un’affermazione che è stata utilizzata da Jeph Loeb nella sua saga di Batman intitolata Hush: «Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche avesse qualunque altro bene». Bruce Wayne è un miliardario la cui vita è assolutamente piena di beni materiali. Ma anche lui ha bisogno di qualcos’altro.
Il concetto greco di amicizia è un po’ più vasto della categoria relazionale cui si fa adesso riferimento con quel termine. Aristotele sostiene che esistono tre differenti tipi di amicizia. Un’amicizia di utilità, in cui per entrambe le parti in causa deriva un beneficio pratico dalla relazione, che è stretta proprio per quel beneficio. Un’amicizia di piacere, fondata su un mutuo godimento tratto dalla compagnia l’un dell’altro. Un’amicizia perfetta o completa, un’amicizia di virtù, stretta tra persone veramente virtuose, unite da ciò che è bene e che sono tra loro dei pari, senza interessi egoistici e con, invece, l’altruismo che fa volere di donare all’altro e vederlo fiorire: «Un anima in due corpi».
Il rapporto tra Batman e Robin contiene evidentemente degli aspetti di un’amicizia di utilità e piacere, ma manca di una certa egualità o bilanciata reciprocità: infatti, Robin decide di assumere una nuova identità come Nightwing e lasciare sia Batman sia Gotham City. Così può nascere una nuova forma di amicizia fra pari, o quasi pari, basata primariamente sul piacere e volta nella direzione di un’amicizia completa – pur se non sembra mai arrivare alle altezze di un tale livello. Il rapporto tra Harvey Dent e Batman si sviluppa come un’amicizia di utilità, prima che un tragico evento mandi le cose in tutt’altra direzione. Anche il rapporto col tenente di polizia James Gordon è un esempio di amicizia di utilità. Mentre il rapporto con Catwoman è chiaramente un’amicizia di piacere. Con Alfred è forse il forte senso di missione provato da entrambi ad impedire alla loro amicizia di essere del più alto livello: Alfred è devoto nel suo essere il maggiordomo, e Bruce sarà quindi sempre il signore, così che l’egualità non potrà mai essere raggiunta.
Tutti questi sono amici di Batman, ma qualcuno riesce a soddisfare i requisiti per la più elevata forma di amicizia? Nel diventare Batman, Bruce Wayne ha sacrificato alcune cose, una delle quali è la possibilità di donarsi interamente a un’altra persona. Aristotele ha detto che gli uomini buoni, in un certo senso, sono amici a se stessi. Se c’è una specie di amicizia perfetta disponibile per Bruce, o Batman, è forse questa, la solitudine della relazione con se stesso. Non un’anima in due corpi, ma un’anima in due identità.

(da Matt Morris, Batman and friends: Aristotle and the Dark Knight's inner circle, in Superheroes and philosophy)


martedì 12 aprile 2011

barbara gordon e la perfettibilità morale

La storia di Barbara Gordon illustra i temi chiave della perfettibilità morale, teoria filosofica rintracciabile ovunque ci siano vicende relative al progresso morale di individui. Il tema centrale della perfettibilità morale è che il sé può migliorare e che una vita veramente morale è quella in cui il sé tenta continuamente di progredire. Altre tematiche riguardano il ruolo che i modelli e gli amici giocano nella propria ricerca di un progresso morale, e i continui pericoli di un inappropriato conformismo nella propria avventura morale, nello sviluppo di un sé morale ben distinto.
In Batgirl: Anno uno, abbiamo un accesso diretto ai pensieri di Barbara Gordon: «Voglio entrare in azione. Qualcosa che mi faccia uscire da dove sono, da dove non voglio essere». Questo momento nella vita di Barbara è accostabile a un passaggio del saggio Sulla libertà del filosofo John Stuart Mill: «In questi tempi, dalle classi più alte alle più basse della società, ognuno vive come sotto l’occhio di un ostile e terribile censore. Non ci si chiede cosa preferisco? Cosa si adatta al mio carattere e alle mie attitudini? Cosa permetterebbe al meglio che c’è in me di avere spazio e possibilità per crescere e prosperare?». La via di uscita da questa condizione meno che desiderabile è porre attenzione ai propri desideri. Barbara Gordon chiaramente fa esperienza di una pressione a conformarsi a ciò che suo padre vuole e che la società in generale si aspetta da una giovane donna della sua età, e trova questa condizione indesiderabile: «Devo trovare un altro cammino. Indovinare il mio proprio futuro, uno unicamente mio. Non una pagina del libro di un altro. Posso diventare qualcosa di più, qualcosa di più alto. Uscita dal guscio in cui ero, emergerò migliore. Mi alzerò con nuove ali. Come una falena, o un pipistrello».
Barbara ha bisogno, come tutti, di un modello, un paradigma, un mentore che la aiuti a rappresentarsi chi è, o meglio chi vorrebbe essere. Il ruolo di un modello nella ricerca per una vita morale ha una lunga storia che può essere fatta risalire almeno a Socrate e ai suoi seguaci. Questi erano essenzialmente giovani che percepivano nella vita di Socrate un orientamento verso il bene verso cui anche loro erano trascinati. Ma ci sono dei pericoli nel basarsi su un simile rapporto. Fondamentale è che il modello non deve essere emulato. Friedrich Nietzsche nel suo saggio su Schopenhauer come educatore afferma: «È difficile creare in qualcuno una condizione di intrepida autoconoscenza perché è impossibile insegnare l’amore; perché è solo l’amore che può concedere all’animo non solo una visione chiara, discriminante e auto-sprezzante di sé, ma anche il desiderio di guardare oltre se stesso e ricercare con tutte le proprie forze un più alto sé ancora celato». Ricercare un sé più alto ma ancora celato è esattamente ciò che Barbara Gordon sta facendo. La parola iniziale di Batgirl: Anno uno è “maschere”. La maschera rivela l’identità. La maschera metaforica che indossa all’inizio è precisamente quella che nasconde il suo più alto sé. È ciò che potremmo chiamare la maschera da “Barbara Gordon”, il guscio che circonda la bibliotecaria e nipote del tenente James Gordon. È solo quando indossa la maschera da Batgirl che inizia il suo viaggio verso un più alto sé, il sé futuro, quello che non conosce ancora. È in Batman che Barbara cerca un riconoscimento, gli chiede di accettare il suo desiderio per un sé migliore. Ha bisogno che il suo desiderio venga riconosciuto, ha bisogno di sapere che esso ha un senso per gli altri come sorta di conferma che ne abbia per lei. Allo stesso tempo, mentre è chiaro che Batman è il suo modello, è altrettanto chiaro che il cammino individuale di Barbara non può essere semplicemente una copia di quello di Batman. il percorso di ognuno deve essere radicato nelle esperienze e nei desideri individuali, e il ruolo di Batman come modello è quello di rimandare indietro a Barbara l’immagine della legittimità e della specificità del suo proprio desiderio per un sé migliore.
Sarebbe un malinteso, però, ritenere che esista un unico giusto sé, un unico sé più alto e migliore che è l’obiettivo finale della ricerca, che la ricerca possa finire, il gioco terminare. Perché tanta gente dovrebbe lottare con forme inappropriate e in autentiche di conformismo se la genuina individualità fosse così chiara e semplice da raggiungere? Barbara – anche una volta divenuta Batgirl – riconosce che il sé che spera di raggiungere, che è in cammino per raggiungere, è provvisorio. L’ultima frase di Batgirl: Anno uno esprime la fragilità del presente e ironicamente presagisce il futuro: «Nonostante il mio grande e immutato rispetto per gli oracoli, ho deciso di rinunciare a predizioni e portenti. C’è ciò che potrebbe essere e c’è la vita che conduco in questo momento». In Oracle: Anno uno, Barbara inizia il lungo processo di recupero dalle ferite inferte dal Joker – sulla graphic novel di Alan Moore The Killing Joke – al suo corpo e alla sua mente e di trasformazione in Oracolo, e questo passa necessariamente attraverso un allontanamento da Dick Grayson, precedentemente assistente di Batman come Robin che ha ora assunto la nuova identità di Nightwing. Barbara decide che non può più vederlo, avendo compreso che Dick è diventato semplicemente un altro Batman. Barbara ha diagnosticato la possibilità latente in una versione deformata della perfettibilità morale, quella in cui la ricerca per un sé più alto si trasformi nel divenire niente più che una semplice copia del sé più alto di un’altra persona. Vedere Nightwing non smette di ricordarle ciò che era prima, le presenta qualcosa come un modello retrogrado che la spinge indietro verso il cammino passato. Così Barbara riconosce il modo in cui il passato stesso può intrappolarci in una sorta di conformismo, o ciò che John Stuart Mill chiamava un costume, uno schema  abituale.
A volte non è il riconoscimento e la guida di un modello ciò di cui abbiamo bisogno, ma qualcuno che semplicemente ascolti i nostri tentativi di capire noi stessi, di arrivare a una qualche misura di autocoscienza. Un amico è precisamente quella persona che in ogni momento sa accompagnarti nel tuo viaggio ascoltandoti con orecchie limpide, incoraggiandoti e supportandoti quando è ciò che ti serve. L’amicizia stimola a migliorare, spinge nella direzione della crescita, verso un sé non raggiunto ma raggiungibile.

(da James B. South, Barbara Gordon and moral perfectionism, in Superheroes and philosophy)

 

lunedì 11 aprile 2011

la tortura della verità

Una lettera firmata Derrida pare uno dei migliori antidoti contro i fanatici della verità: «La verità, è nel suo nome maledetto che ci siamo perduti, solo in suo nome, non per la verità stessa, se ce ne fosse, ma per il desiderio di verità che ci ha estorto le “confessioni” più terrificanti, dopo le quali siamo stati più distanti da noi stessi che mai, senza avvicinarci di un passo a una qualche verità. Tutti questi segreti non sono che falsi segreti, e meritano l’oblio, e non la confessione. Nulla di tutto ciò ci concerne. Dopo queste miserabili confessioni che ci siamo estorte non restano che gli strumenti di tortura» (La Carte Postale). Ecco un altro volto della verità. Forse il più difficile da accettare – se non si è accettata l’idea che «l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità» (Umberto Eco, Il nome della rosa). Un volto terribile che Lost ci mostra fin da subito in tutta la sua violenza nell’episodio in cui Sayid e Jack, per far confessare Sawyer, ricorrono alla tortura. Non si tratta di un caso. Le scene di prigionia e tortura si ripetono più volte nel corso della serie: Lost è costellato di interrogatori e di prigionieri che devono confessare, a tutti i costi, la verità. Sayid è disposto a tutto pur di ottenere la verità. Anche a uccidere. Perversione dell’amore per la verità? Direi piuttosto: sua logica e terribile conseguenza. Dice Nietzsche nella Gaia scienza: «Dietro la volontà di verità si potrebbe nascondere una volontà di morte».

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

venerdì 8 aprile 2011

punti di vista sul mondo perduto: l'enigma della verità

Episodio dopo episodio, ci si accorge come in Lost sia in gioco sempre e solo la verità: la verità dell’isola, della vita e della morte, dei sopravvissuti, degli Altri, del mondo stesso, al limite. Lost mette in scena la verità. Ma di quale verità si tratta? In Lost siamo distanti dall’idea filosofica classica di verità come corrispondenza tra il pensiero e la cosa, il linguaggio e la realtà, formulata per la prima volta da Platone nel Cratilo: «Vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che dice le cose come non sono».  
Lost mette radicalmente in questione l’idea che vi siano asserzioni o credenze semplicemente vere, poiché decostruisce l’idea di un mondo dato (“le cose come sono”) prima e al di fuori delle interpretazioni dei soggetti. Il mondo, in Lost, è sempre un mondo per un soggetto – che, proprio in questo senso, può essere definito, con Derrida, «un’altra origine del mondo». Il soggetto, dice Derrida, inteso come “sguardo”, è una singolarità a partire da cui si apre un mondo, e non un semplice sguardo sul mondo inteso come registrazione di ciò che c’è. «Lo sguardo dell’altro non è semplicemente un’altra macchina per percepire delle immagini, è un altro mondo, un’altra fonte di fenomenalità, un altro punto zero dell’apparire» (Ecografie della televisione). In Lost tutto inizia, non a caso, sotto il segno dello sguardo, della prospettiva e del punto di vista: l’occhio di Jack che apre l’episodio pilota, punto zero dell’apparire da cui prende avvio la serie. Ma non si tratta di un caso isolato. L’intera serie è costellata di episodi che si aprono con l’occhio di uno dei personaggi, a sottolineare che tutto avviene secondo il regime del punto di vista e della prospettiva. Lost mostra come il mondo non si dia se non all’interno di un punto di vista singolare: non ci sono soggetti che esprimono punti di vista sul mondo, bensì punti di vista sul mondo che costituiscono soggetti.
Del mondo al di fuori dei diversi punti di vista non si può sapere né dire nulla. Esso si riduce all’«enigmatica X» di cui parlava Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extramorale, vale a dire a un indeterminabile cui non abbiamo accesso, ma attorno a cui ruotano i differenti punti di vista, le differenti interpretazioni.
Le varie prospettive non sono altro che modi di dirsi e di darsi di una verità che nessuna prospettiva esaurisce. Ed è una verità dal volto enigmatico, cioè al contempo oscuro e violento, terribile. In questo senso Lost non è altro che l’enigma della verità. La verità che abita questa fiction è qualcosa di più del semplice segreto dell’isola che verrà infine svelato, della realtà dell’isola che sarà infine rivelata. Se parlasse, la verità di Lost userebbe molto probabilmente le parole che le attribuisce Lacan: «Io sono dunque per voi l’enigma di colei che si sottrae non appena è apparsa. Io la verità, sarei contro di voi la grande ingannatrice perché le mie vie non passano soltanto attraverso la falsità, ma attraverso la faglia troppo stretta a trovarsi in difetto della finta, e attraverso la nube senza accesso del sogno, attraverso il fascino senza motivo del mediocre e la seducente impasse dell’assurdità. Cercate da cani che divenite ad ascoltarmi. Ed eccovi già perduti» (La cosa freudiana). la verità di Lost è una verità che fa perdere ed errare, che non si lascia interamente svelare, che porta in sé un resto di indicibile come suo elemento costitutivo da custodire come tale. Ciò che si svela mantiene un qualche nascondimento e non ci sono verità definitive, svelate una volta per tutte: l’oggetto del desiderio di sapere è costitutivamente perduto.
È precisamente la verità che Heidegger ha enunciato come dis-velatezza, non-nascondimento. Nascondimento e mistero appartengono essenzialmente al cuore della verità – sono il suo cuore di tenebra che occorre custodire come tale e non eliminare come un semplice difetto o una mancanza. Heidegger ricorre spesso alla figura della radura, vale a dire all’immagine di uno slargo illuminato che si dischiude nel cuore di un bosco o di una foresta: la radura è l’aperto, lo spazio della luce, della visibilità, a cui è necessaria l’oscurità della foresta che l’avvolge e protegge per essere tale. Lo stesso accade per la verità, a cui è necessario un fondo di nascondimento inteso come mistero. «Non si tratta di un particolare mistero relativo a questa o quella cosa, ma dell’unico fatto che, in generale, il mistero (il velamento di ciò che è velato) in quanto tale domina e pervade l’esserci dell’uomo» (La fine della filosofia e il compito del pensiero, saggio raccolto in Tempo ed essere). Il mistero non riguarda nessuna cosa particolare, ma il fatto che al fondo la verità delle cose resta opaca, impenetrabile, irriducibile alla chiarezza dell’evidenza. Saper entrare in rapporto con questa verità significa saper di dover rinunciare all’idea di una scoperta che non lasci resti, dubbi, che non lasci spazio per altro e per altri – per altre prospettive, letture, interpretazioni.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost

giovedì 7 aprile 2011

dio, il diavolo e matt murdock

Non ci sono molti riferimenti a Dio nelle principali storie di supereroi. Una delle poche eccezioni a ciò è rappresentata dalla vita e la fede di Matt Murdock, almeno per come è stato rappresentato negli anni in alcune delle più importanti storie di Daredevil. Ci sono abbastanza indizi nella classica storia delle origini di Devil concepita da Frank Miller e negli interessanti sviluppi della sua vita come giustiziere mascherato portati avanti soprattutto da Kevin Smith.
La fede di Devil  sembra riflettere la sensibilità di un uomo cresciuto in una famiglia almeno nominalmente religiosa, se non di fede genuina, piuttosto che manifestare l’articolata e ferma prospettiva di un uomo adulto convertito ad una visione del mondo religiosa. La fede è una parte profonda e spesso inconfessata del suo assetto mentale, che sembra influenzare le sue credenze, i suoi atteggiamenti e le sue azioni in modo sottile, piuttosto che costituire una parte del suo pensiero cosciente e lucido. Qual è la relazione tra una vita di fede religiosa e il senso della missione di un giustiziere mascherato? È il cattolicesimo di Devil una fonte di forza interiore e una guida, o è piuttosto una causa di debolezza e confusione? La fede religiosa acceca Devil sugli aspetti più duri del mondo, o può essere come un radar che gli consenta di distinguere realtà che altrimenti gli sfuggirebbero? Bisogna distinguere attentamente tra la religiosità come forma esteriore di comportamento e schema di pensiero basati su nient’altro che abitudini e superstizioni, e un’autentica fede come profondo impegno e disposizione dello spirito.
La fede non è solo l’inginocchiarsi di persone timorose, una gruccia e difesa contro un mondo terrificante. Alcuni dei più grandi ed estremi esempi di impavido eroismo riguardano persone con una forte fede religiosa. Un uomo senza paura – come è per definizione Devil – è, forse, un uomo dalla forte fede. Bisogna fare un’importante distinzione: Devil sembra non avere “paura di” – quel senso di terrore che comprende il pensiero di venir danneggiato, quella potente emozione che può spengere il pensiero e bloccare l’azione, paralizzare –, ma sperimentare solo la “paura che”, possibile movente di azioni coraggiose e decisive.
Aristotele credeva che ogni virtù fosse un giusto mezzo tra due vizi, così che il vero coraggio starebbe tra la codardia e la spericolatezza, la precipitazione, non sarebbe l’assenza di paura ma l’abilità di agire a sostegno di grandi valori a dispetto di ogni paura che si può provare. Un uomo senza paura non è semplicemente un uomo cieco ai rischi e quindi incline ad azzardi autodistruttivi. C’è una scena interessante nella graphic novel di Frank Miller Daredevil: The Man without Fear che pone proprio questa questione. Dopo una folle corsa in macchina in cui la giovane e selvaggia Elektra coinvolge Matt, i due stanno sul bordo di una scogliera ed Elektra dice: «Qui è dove apparteniamo. Sempre sul bordo. Gli altri conducono vite sicure e intorpidite. Ma tu – quando ti ho visto sul tetto, l’ho capito – sei come me. teso fino al limite – e oltre». Ha ragione Elektra? Devil è proprio come lei? È il suo essere senza paura necessariamente la fonte di azioni irrazionali, irresponsabili e autodistruttive, oltre il limite? Sembra piuttosto che la prudenza, la razionalità pratica, gli permettano sempre perfettamente di sapere dove tracciare una linea di confine. La fede religiosa garantisce a Devil una buona guida nell’ambito dei valori, una buona visione nel mondo dei fatti, e una fonte sia di incoraggiamento sia di limitazione nel tentativo di sostenere la giustizia: è, dunque, una forma di forza spirituale.
Questa fede, che fa a Devil da rete di sicurezza, proviene dalla madre, come mostra la sua preghiera nella storia di Miller Born Again: «La febbre cresce in lui. Nessuna forza terrena può fermarla. Ha perso troppo sangue. Il suo corpo non può combattere. Morirà. Ma ha così tanto da fare, mio Signore. La sua anima è tormentata. Ma è l’anima di un uomo buono, mio Signore. Ha solo bisogna che gli venga mostrata la Tua via. Dopo si ergerà tuo e porterà luce a questa città avvelenata. Sarà una lancia di luce nelle tue mani, mio Signore». La fede spirituale di Maggie è la forza dietro ciò che nella storia è considerata la rinascita fisica di Matt. Ed è essenzialmente anche dietro il suo impulso spirituale. In The Devil’s Distaff di Kevin Smith, la madre racconta a Matt una storia simile alla scommessa di Pascal sull’esistenza di Dio, suggerendo che, in base a ciò che guadagneremmo e perderemmo credendo o meno, sarebbe molto peggio vivere come se Dio non esistesse per poi scoprire di essersi sbagliati. Quando Matt comprende il ragionamento filosofico contenuto in questa semplice favola della madre, è commosso e in qualche modo placato nel suo spirito precedentemente tormentato e dubbioso. Matt sembra riconoscere la grandezza e la miseria dell’uomo di cui scriveva Pascal, il suo essere grande come Dio e insieme incredibilmente piccolo e deludente. Gli estremi di bene e male che sono avviluppati nel comportamento umano sono incredibili. Matt sembra sentire che l’uomo è creato per essere qualcosa di più che una vittima o un carnefice in Hell’s Kitchen. Facendo eco alle meditazioni di Pascal nella storia Guardian Devil, Matt parla nel suo cuore con Dio dicendo: «Ogni notte, metti su uno spettacolo immortale per me… mi mostri la disparità tra la magnificenza dell’uomo e le sue azioni, eoni di evoluzione, e noi ancora ricerchiamo gli angoli più bui per i nostri impulsi più bassi. Quanto deve essere deludente per Te vederci al nostro peggio… se anche esisti».
Nel numero #169 di Daredevil (Devils, scritto da Miller), un detective arriva a suggerire a Devil che avrebbe dovuto uccidere o lasciar morire il suo arcinemico Bullseye. Devil replica: «Uomini come Bullseye governerebbero il mondo se non fosse per una struttura di leggi create dalla società per tenerli sotto controllo. Nel momento in cui un uomo prende la vita di un altro nelle proprie mani, questi sta rifiutando la legge e lavorando per distruggere questa struttura. Se Bullseye è una minaccia per la società, è la società che deve fargliene pagare il prezzo, non tu. E non io. Io lo voglio morto. Detesto ciò che fa, ciò che è. Ma non sono Dio, non sono la legge, e non sono un assassino». Devil dimostra una vera fede spirituale e abbastanza onestà da ammettere i propri dubbi, ma anche abbastanza perseveranza da non permettere a questi dubbi di avere il sopravvento nella sua vita.

(da Tom Morris, God, the Devil, and Matt Murdock, in Superheroes and philosophy)

martedì 5 aprile 2011

il gioco dei mondi: eterotropie e critica della normalità

«Vogliamo davvero far sì che l’esistenza si avvilisca in un esercizio da contabili e da matematici chiusi nel loro studio? Innanzitutto non si deve spogliare l’esistenza del suo carattere polimorfo: lo esige il buon gusto, signori miei, il gusto del rispetto di fronte a tutto quello che va al di là del vostro orizzonte! Un’interpretazione “scientifica” del mondo, come l’intendete voi, potrebbe esser pur sempre una delle più sciocche, cioè, tra tutte le possibili interpretazioni del mondo, una delle più povere di senso» (Friedrich Nietzsche).

Con le parole di Michel Foucault, «la filosofia è il movimento per cui ci si distacca – con sforzi, esitazioni, sogni e illusioni – da ciò che è acquisito come vero, per cercare altre regole del gioco» (Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3. estetica dell’esistenza, etica, politica). La storia di Harry Potter inizia proprio con la rottura di un certo regime dell’esistenza supposto normale, con la messa in questione radicale della credenza secondo cui esisterebbe un solo mondo, il presunto mondo normale in cui orgogliosamente vive, e di cui è la triste espressione, la famiglia Dursley: «Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante» (Harry Potter e la pietra filosofale). Fin dall’inizio, dunque, la portata etico-politica dei romanzi della Rowling emerge come la necessità di decostruire l’idea dell’esistenza di un solo mondo e di imparare a esistere in più di un mondo. Non a caso la questione del male, incarnata dal Signore Oscuro, Lord Voldemort, si presenta come l’incubo dai precisi tratti nazisti di un unico mondo come totalità purificata da ogni alterità, un mondo di maghi purosangue.
Il mondo magico e il mondo normale (o babbano) sono due mondi distinti simultaneamente presenti, ripiegati l’uno nell’altro. Questa dimensione di ripiegatura è ben evidente nel caso dell’abitazione della famiglia Black al numero dodici di Grimmauld Place, che si trova ripiegata tra il numero undici e il numero tredici: «Una porta malconcia affiorò dal nulla. Era come se una casa in più si fosse gonfiata, spingendo da parte quelle ai lati» (Harry Potter e l’ordine della fenice). Si pensi, oltre che alla casa dei Black, a Diagon Alley che si apre “dietro” il Paiolo Magico situato in Charing Cross Road a Londra, e al binario nove e tre quarti che si trova “tra” il binario nove e il binario dieci di King’s Cross Station. Il mondo magico è uno spazio altro che abita nelle pieghe del mondo normale, al contempo fuori degli spazi in cui si trova incluso. L’altro mondo magico ha tratti in comune con quelle che Foucault chiamava eterotrofie, e più precisamente con quelle che chiamava eterotrofie di crisi: spazi riservati agli individui che vivono in uno stato di crisi nei confronti della società e dell’ambiente umano circostante, come ad esempio gli adolescenti.
Secondo Foucault le eterotopie di crisi stanno scomparendo a favore delle eterotopie di deviazione, spazi «in cui vengono collocati gli individui che hanno un comportamento deviante rispetto alla media o alla norma richiesta» (Eterotopia). L’eterotopia del mondo magico si presenta come la contestazione in atto, e l’effettiva decostruzione, non solo dell’unicità del mondo presunto normale, e del suo modello di razionalità tecnico-scientifica, ma anche dell’idea di eterotopie di deviazione quali spazi di reclusione dei soggetti che non si adeguano alla presunta normalità del mondo. La sua forza di rottura è quella propria del fantastico: «Tutto il fantastico – come scrive Caillois – è rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile in seno all’inalterabile legalità quotidiana» (Nel cuore del fantastico), è l’incondizionata affermazione di un diritto all’esistenza di un mondo altro.
Il messaggio che ci arriva dai testi della Rowling è l’opposto di un invito a rifugiarsi nel sogno e nelle illusioni: è un invito, piuttosto, a non rassegnarsi a vivere imprigionati in un solo mondo – nel presunto mondo normale. Come all’interno del romanzo Harry Potter e la pietra filosofale le lettere rivelano a Harry la verità di un altro mondo in cui esistere – imparando nuovi linguaggi, acquisendo nuovi saperi, entrando in nuove reti di relazioni –, allo stesso modo la letteratura, e nel caso specifico la saga di Harry Potter, ci rivela un mondo: apre per noi la verità di un mondo in cui esistere. Ogni romanzo della saga è come una specie di lettera spedita dall’altro mondo, che ci chiede di rispondere: vale a dire di accogliere e farci carico della verità di quel mondo che rovescia l’ordinario. È quanto ha affermato Heidegger: «L’arte è il porsi in opera della verità», e «il porsi in opera della verità apre il prodigioso, rovescia l’ordinario e ciò che è mantenuto come tale». Nell’opera così intesa «ci colpisce l’urto del prodigioso, respingendo ciò che fino allora appariva normale» (L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti).

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

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