L’atto etico espone dunque – in quanto atto di rottura radicale – il soggetto al rischio della morte simbolica e/o reale. Slavoj Žižek in alcune pagine de Il soggetto scabroso, commentando Lacan, lega atto etico e pulsione di morte, in quanto l’atto etico non si produce secondo le regole dell’orizzonte socio-simbolico dato, ma è il rischio di un gesto che rompe con il grande Altro, che si priva della sua assicurazione rischiando, così, la morte simbolica e/o reale: «Lacan ha riconcettualizzato la pulsione di morte freudiana come forma elementare dell’atto etico. Per Lacan, non c’è atto etico vero e proprio senza il rischio di questa momentanea “sospensione del grande Altro”, della rete socio simbolica che garantisce l’identità del soggetto: si assiste a un atto autentico solo quando il soggetto rischia un gesto che non è più “coperto” dal grande Altro». Ecco la differenza, sostenuta nella saga di Harry Potter, tra ciò che è giusto e ciò che è facile. Ma l’esposizione a questo limite del dover morire come elemento essenziale dell’atto etico non ha nulla dello sprezzo della morte o del pericolo, è un’esposizione angosciata ma risoluta che è cura della morte che alimenta la vita etica come pratica della libertà: «La morte, improvvisa e definitiva, era con loro come una presenza» (Harry Potter e i doni della morte).
Nel dialogo tra Harry e il ministro della magia al termine del funerale di Silente, Harry ribatte che Silente «avrà veramente lasciato la scuola solo quando non ci sarà più nessuno che gli sia fedele» (Harry Potter e il principe mezzosangue). È il legame tra giustizia e fedeltà allo spettro dell’altro scomparso, a coloro che non sono più presenti viventi, di cui ha parlato Jacques Derrida: «Non c’è rispetto e quindi giustizia possibile, senza questo rapporto di fedeltà o di promessa, in un certo modo, con quello che non è più vivente. Non ci sarebbe esigenza di giustizia né responsabilità senza questo giuramento spettrale» (Ecografie della televisione).
Voldemort, disposto a tutto pur di salvarsi la vita – anche a uccidere e frantumare la propria anima –, non sa accettare di dover morire, per questo non è capace di atti etici ma solo di calcoli per salvare la propria vita: «L’incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza» (Harry Potter e l’ordine della fenice) gli dice Silente. Questa incapacità ha sempre impedito a Voldemort di accedere, nel corso della sua vita, alla vita stessa nel suo valore. La vita, infatti, come ha scritto Derrida, non vale niente se non vale più della vita, più del semplice fatto biologico di vivere. Il limite dell’enorme potere di Voldemort consiste nel non avere la forza per accedere a quella libertà appassionata ed effettiva che Heidegger chiamava, in Essere e tempo, “libertà per la morte”. Cosa che invece sa fare Harry: «Tu sei il vero padrone della morte» – dice Silente a Harry – «perché il vero padrone non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire» (Harry Potter e i doni della morte).
Il coraggio evocato da Silente è quello di esporsi e rendersi vulnerabili alla morte, o come dice Aristotele al «dolore distruttivo, letale»: «E dunque si crede, in sostanza, che sia proprio del coraggio avere un certo atteggiamento relativamente alla morte e al dolore che le si accompagna» (Etica Eudemia). Il coraggio non esclude, semplicemente, la paura che fa tremare il corpo: il coraggioso, certo, non è un vile, ma non è nemmeno il temerario. Harry, nel momento di andare incontro alla propria fine, «non riusciva più a controllare il proprio tremito. Non era poi tanto facile morire. Pensò che non sarebbe riuscito a continuare e nello stesso momento seppe che doveva» (Harry Potter e i doni della morte). Ecco l’atto etico nella sua forma più pura: incondizionata esposizione all’evento della morte, la forza di una certa debolezza come forza di rendersi vulnerabili alla morte.
(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)
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