«Come può un giovane imparare a pensare razionalmente se da bambino si appassiona alle imprese fantastiche di Harry Potter o del Signore degli Anelli?», ha dichiarato nel corso di un’intervista Piergiorgio Odifreddi. Queste parole sono importanti come sintomo: esse dimostrano che il mondo magico di Harry Potter spaventa perché evoca spettri che l’Occidente continua a esorcizzare in nome di un’idea caricaturale e dogmatica di ragione. Nessun elogio dell’irrazionalità in Harry Potter, bensì la decostruzione della ragione dogmatica come apertura della ragione a ciò che non è riconducibile al calcolo e al calcolabile. I guardiani del “vecchio razionalismo” (Edmund Husserl) non sanno pensare, proprio come zio Vernon, al di fuori del ristretto ambito delle loro presunte certezze, mentre la saga della Rowling scava nel sottosuolo della ragione e restituisce alla ragione quella parte fondamentale di irrazionale che la abita e la ossessiona, e di cui lo straordinario personaggio di Luna Lovegood, che «crede solo alle cose di cui non esiste alcuna prova» (Harry Potter e l’ordine della fenice) – e che, alla “prova dei fatti”, sarà apprezzata anche dalla logicissima Hermione –, è uno dei simboli più belli. Ed è solo in questo modo che c’è educazione effettiva alla razionalità, a una razionalità complessa e aperta che rompe con quello che Jacques Derrida ha definito logocentrismo: il dominio di una ragione maschile e dogmatica ossessionata dalle idee di esattezza e di verità. Sono meri pregiudizi razionalistici ed etnocentrici che elevano una forma particolare e storica di razionalità, quella occidentale, a modello e norma universale.
(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)
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