Episodio dopo episodio, ci si accorge come in Lost sia in gioco sempre e solo la verità: la verità dell’isola, della vita e della morte, dei sopravvissuti, degli Altri, del mondo stesso, al limite. Lost mette in scena la verità. Ma di quale verità si tratta? In Lost siamo distanti dall’idea filosofica classica di verità come corrispondenza tra il pensiero e la cosa, il linguaggio e la realtà, formulata per la prima volta da Platone nel Cratilo: «Vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che dice le cose come non sono».
Lost mette radicalmente in questione l’idea che vi siano asserzioni o credenze semplicemente vere, poiché decostruisce l’idea di un mondo dato (“le cose come sono”) prima e al di fuori delle interpretazioni dei soggetti. Il mondo, in Lost, è sempre un mondo per un soggetto – che, proprio in questo senso, può essere definito, con Derrida, «un’altra origine del mondo». Il soggetto, dice Derrida, inteso come “sguardo”, è una singolarità a partire da cui si apre un mondo, e non un semplice sguardo sul mondo inteso come registrazione di ciò che c’è. «Lo sguardo dell’altro non è semplicemente un’altra macchina per percepire delle immagini, è un altro mondo, un’altra fonte di fenomenalità, un altro punto zero dell’apparire» (Ecografie della televisione). In Lost tutto inizia, non a caso, sotto il segno dello sguardo, della prospettiva e del punto di vista: l’occhio di Jack che apre l’episodio pilota, punto zero dell’apparire da cui prende avvio la serie. Ma non si tratta di un caso isolato. L’intera serie è costellata di episodi che si aprono con l’occhio di uno dei personaggi, a sottolineare che tutto avviene secondo il regime del punto di vista e della prospettiva. Lost mostra come il mondo non si dia se non all’interno di un punto di vista singolare: non ci sono soggetti che esprimono punti di vista sul mondo, bensì punti di vista sul mondo che costituiscono soggetti.
Del mondo al di fuori dei diversi punti di vista non si può sapere né dire nulla. Esso si riduce all’«enigmatica X» di cui parlava Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extramorale, vale a dire a un indeterminabile cui non abbiamo accesso, ma attorno a cui ruotano i differenti punti di vista, le differenti interpretazioni.
Le varie prospettive non sono altro che modi di dirsi e di darsi di una verità che nessuna prospettiva esaurisce. Ed è una verità dal volto enigmatico, cioè al contempo oscuro e violento, terribile. In questo senso Lost non è altro che l’enigma della verità. La verità che abita questa fiction è qualcosa di più del semplice segreto dell’isola che verrà infine svelato, della realtà dell’isola che sarà infine rivelata. Se parlasse, la verità di Lost userebbe molto probabilmente le parole che le attribuisce Lacan: «Io sono dunque per voi l’enigma di colei che si sottrae non appena è apparsa. Io la verità, sarei contro di voi la grande ingannatrice perché le mie vie non passano soltanto attraverso la falsità, ma attraverso la faglia troppo stretta a trovarsi in difetto della finta, e attraverso la nube senza accesso del sogno, attraverso il fascino senza motivo del mediocre e la seducente impasse dell’assurdità. Cercate da cani che divenite ad ascoltarmi. Ed eccovi già perduti» (La cosa freudiana). la verità di Lost è una verità che fa perdere ed errare, che non si lascia interamente svelare, che porta in sé un resto di indicibile come suo elemento costitutivo da custodire come tale. Ciò che si svela mantiene un qualche nascondimento e non ci sono verità definitive, svelate una volta per tutte: l’oggetto del desiderio di sapere è costitutivamente perduto.
È precisamente la verità che Heidegger ha enunciato come dis-velatezza, non-nascondimento. Nascondimento e mistero appartengono essenzialmente al cuore della verità – sono il suo cuore di tenebra che occorre custodire come tale e non eliminare come un semplice difetto o una mancanza. Heidegger ricorre spesso alla figura della radura, vale a dire all’immagine di uno slargo illuminato che si dischiude nel cuore di un bosco o di una foresta: la radura è l’aperto, lo spazio della luce, della visibilità, a cui è necessaria l’oscurità della foresta che l’avvolge e protegge per essere tale. Lo stesso accade per la verità, a cui è necessario un fondo di nascondimento inteso come mistero. «Non si tratta di un particolare mistero relativo a questa o quella cosa, ma dell’unico fatto che, in generale, il mistero (il velamento di ciò che è velato) in quanto tale domina e pervade l’esserci dell’uomo» (La fine della filosofia e il compito del pensiero, saggio raccolto in Tempo ed essere). Il mistero non riguarda nessuna cosa particolare, ma il fatto che al fondo la verità delle cose resta opaca, impenetrabile, irriducibile alla chiarezza dell’evidenza. Saper entrare in rapporto con questa verità significa saper di dover rinunciare all’idea di una scoperta che non lasci resti, dubbi, che non lasci spazio per altro e per altri – per altre prospettive, letture, interpretazioni.
(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)
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