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martedì 31 maggio 2016

letture di maggio

Deludente il romanzo di Aleksandar Hemon L'arte della guerra zombi, in cui la simultanea presenza di katane e sceneggiature di invasioni di morti viventi non basta a garantire una lettura piacevole e godibile: più intenzione che realizzazione.

Della raccolta curata da Cateno Tempio Critica dei morti viventi e del saggio sull'hipster The White Negro di Norman Mailer ho già scritto. Tra la saggistica va aggiunto l'interessante raccolta di riflessioni, ricostruzioni e decostruzioni sugli immaginari del genocidio ebraico curata da Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli in Pop Shoah?

Molti fumetti questo mese. Oltre alle seriali letture supereroistiche dell'universo Marvel (Deadpool, Wolverine, Capitan Marvel, etc.), Lo scontro quotidiano di Manu Larcenet, del quale dovrò ora recuperare Blast che mi si dice essere ancora meglio, il secondo volume di Deadly Class di Rick Remender, due nuovi volumi di avventure di Calvin & Hobbes - C'è un tesoro in ogni dove ed È un magico mondo - realizzate da Bill Watterson.

martedì 24 maggio 2016

critica dei morti viventi

La bella raccolta di saggi curata da Cateno Tempio, Critica dei morti viventi, indaga e racconta il fenomeno zombie tra cinema, videogiochi, fumetti e filosofia. I morti viventi siamo noi, inutile nasconder la nostra condizione ontologica che è la progressiva decomposizione, il disfacimento vivente. Figura perturbante e filosofica, lo zombie cammina senza trucchi, rifiuta l'imbellettamento e le maschere del vivere comune, svela la morte.
Rocco Ronchi ritiene che più dei moderni - che da Cartesio in poi pongono tra il vivente e il suo cadavere una relazione sinonimica, di contrari ma in un genere comune (ontologia della morte di un materialismo meccanicista che ha nei gabinetti di anatomo-patologia la sua origine) - siano gli antichi - che con Aristotele pongono un'omonimia tra il vivente e il cadavere, il cui nome è comune ma la cui essenza è differente - a permetterci di cogliere cosa siano i living dead: essi affermano una differenza pura, infinita, senza identità, la differenza a monte della vita e della morte (Jacques Derrida), una soglia che non appartiene né alla prima né alla seconda. Gli zombi portano a espressione quanto vi è di liminare nell'esperienza umana, l'esperienza pura, anonima e universale del trauma, familiare e perturbante.
Per Tommaso Ariemma quella del morto vivente è una figura di lunga tradizione che si riallaccia alle due distinte forme di "morte in vita" che gli antichi filosofi riconoscevano: la vita contemplativa e la vita quotidiana. Da Platone a Fichte la vita contemplativa, l'ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, inventa la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria. La figura degli zombi va allora messa in relazione alla sua origine metafisica, ovvero alla particolare forma di vita che l'Occidente ha scelto come ideale.
Antonio Lucci vede nell'origine haitiana dello zombie l'orrore infinito di una società soggiogata da un regime schiavista potenzialmente eterno e infinito, al di là del tempo e della morte: lo zombie quale paradossale controfigura dell'oppresso, grado zero della vita, dell'umanità, della morte e del proletariato. Pura morte, nuda morte che cammina, lo zombi si vendica di questa schiavitù nelle sue incarnazioni successive, che da un lato lo rendono un emblema della critica al capitalismo, mentre dall'altro esso diventa una macchina da riproduzione, un proletario nel senso letterale del termine, quale ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione: l'oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione è lo zombi che crea altri, potenzialmente infiniti, seguaci, massa che da asservita diventa soggiogante, movimento acefalo, collettivo e organizzato dal basso nella propria assenza di opera. Nelle sue ultime figurazioni, invece, lo zombie sembra essere la molla d'innesco per narrazioni che hanno al proprio centro un'antropologia pessimistica: in una società resettata, in cui le istituzioni collassano, l'essere umano è il vero mostro, animale crudele allo stato di natura.
Tommaso Moscati evidenzia come lo zombie sia fra le figure orrorifiche quella che maggiormente è in grado di problematizzare la questione della diversità e dell'anticonformismo, essendo un concentrato di eccentricità e deformità.
Livio Marchese parla di "complesso dello zombie" per indicare la malattia che affligge l'umanità del terzo millennio, malattia prodotta dalle spore delle immagini in movimento di quell'arte potentissima e arte patogena che è il cinema che, meraviglioso e pericoloso, agendo sugli stati psichici più profondi può liberare e prolungare lo sguardo quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Tra gli anni Sessanta e Ottanta la natura del miglior cinema zombie è stata quella rivoluzionaria di critica nei confronti della società, del nuovo tipo umano e delle nuove relazioni tra esseri umani, mentre ora esso sembrerebbe non andare oltre l'ambizione di soddisfare il bisogno di forzare sempre di più i limiti della rappresentazione dell'orrore, garantendo sfogo catartico e compiacimento.

giovedì 19 maggio 2016

presentazione allo sparwasser di roma

Sabato 21 maggio, alle ore 19:30, presso il circolo Sparwasser di Roma (via del Pigneto, 215), presentazione del libro Filosofare con la katana. Nietzsche reboot.


sabato 14 maggio 2016

la solitudine dell'hipster

Nel breve saggio The White Negro, Norman Mailer analizza il fenomeno del giovane americano ribelle degli anni Cinquanta: l'hipster. L'hipster è l'esistenzialista americano che, rendendosi conto di come la collettiva condizione umana sia quella di vivere sotto la costante minaccia di una morte istantanea - per guerra atomica o per conformismo che soffoca ogni istinto di creazione e di rivolta -, ritiene l'unica risposta vitale sia quella di accettare i termini della morte, convivere con essa come pericolo immediato, ed estraniarsi dalla società, esistere senza radici, avventurarsi in itinerari inesplorati all'interno degli imperativi ribelli del proprio essere: incoraggiare le tendenze psicopatiche che sono in noi ed esplorare quelle forme di esperienza in cui sicurezza equivale a noia e malessere. Un individuo è hip o square, è un ribelle o un conformista, un pioniere nel selvaggio West della vita notturna o una cellula intrappolata nei tessuti totalitari della società. 

venerdì 13 maggio 2016

come nietzsche finì per brandire una katana

La storia di un armamento con cui il mio Nietzsche "riavviato" finisce per brandire una katana ha come evidente modello di riferimento - amiamo il citazionismo - la scena del film di Quentin Tarantino Pulp Fiction in cui Butch, interpretato da Bruce Willis, soppesa diverse possibili armi prima di andare a salvare Marsellus: prima un martello, l'arma filosofica con cui porre domande a quegli idoli che avrebbero voluto rimanere in silenzio costringendoli, invece, a risuonare fragorosamente rivelando il proprio inganno, il proprio vuoto; poi una mazza da baseball, pronta a una poderosa opera di pestaggio che spacchi tutto, che tutto faccia esplodere; una sega elettrica, sfogo e divertimento dell'abietto schizzare di brandelli che sfronda, pota, ringiovanisce; e infine la katana, la spada da samurai, gioiosa serenità di uno sfregiare che non si lascia terminare, di uno sfrontato affrontare e recare affronto.
Katana o pugnale, arco lungo o balestra, .44 magnum o mitragliatrice a canne rotanti, mazza chiodata o alabarda, artigli da mustelide o dito medio alzato: dare uno stile, una forma, alla totalità focalizzata della propria forza.

martedì 10 maggio 2016

la filosofia in giappone

Dopo l'Africa e le realtà asiatiche di Cina e India, per Filosofie nel mondo è il turno del Giappone. Per comprendere il pensiero giapponese è necessario prendere in considerazione tre fattori: la visione religiosa buddhista, l'etica sociale confuciana, la sensibilità naturale shintoista.
La forma religiosa autoctona è costituita da una concezione della natura in cui l'essere umano è compreso come elemento naturale situato fra infiniti altri elementi naturali che interagiscono fra di loro: ogni aspetto della vita quotidiana è caratterizzato dalla presenza e dal rapporto con un numero incommensurabile di divinità dette kami. L'ideogramma kami si legge anche shin che univo a to, cioè via, compone la parola shinto, la via dei kami, degli dei, nome che questa religiosità autoctona, conosciuta in Occidente come shintoismo, assume nell'VIII secolo. I kami non sono spiriti che abitano le cose né divinità preposte a una funzione generica, ma sono proprio determinate cose in quanto realtà spirituali animate, dotate di vita individuale propria: un particolare animale, un singolo essere del mondo vegetale, una forma o fenomeno naturale, un particolare oggetto; è perciò improprio parlare di animismo perché non c'è dualismo fra lo spirito di una cosa e la cosa stessa, il sacro è totalmente immanente al mondo materiale quotidiano in continuità ontologica con quello divino. I kami proteggono una determinata famiglia o un'intera collettività e l'unità di base dell'organizzazione socio-politica (clan) è proprio definita dalla fedeltà di tutti i suoi membri al medesimo kami.
Nel VI secolo avviene in Giappone l'introduzione di apporti ed elementi cinesi, ma questa influenza estera  viene rielaborata con una certa originalità: l'ideale sociale confuciano e la pratica individuale di ispirazione buddhista sono fusi con la compenetrazione armonica con le leggi naturali propria dello shintoismo. Del confucianesimo viene colto soprattutto l'aspetto pragmatico mentre se ne ignorò quasi del tutto la visione cosmologica e l'elaborazione filosofica: vengono acquisiti l'importanza del mantenimento dell'armonia nella vita individuale e collettiva, il modello gerarchico che specchiandosi nella relazione originaria cielo-terra è il fondamento relazionale interpersonale di ogni rapporto umano e sociale in cui il superiore ha cura e responsabilità verso l'inferiore e l'inferiore ha rispetto e attenzione verso il superiore.
Del buddhismo, rielaborato in chiave autonoma tra il IX e il XII secolo, vengono assunte le considerazioni sull'impermanenza e la fragilità della vita umana e sulla necessità di evitare ogni forma di egocentrismo. Inizialmente vengono soprattutto messe in opera le pratiche buddhiste quali i mantra (canto delle sillabe sacre) che rappresentano  risonanze microcosmiche e stati vibranti della materia-energia che costituisce gli elementi basilari di tutta la realtà, i mandala (visualizzazione delle forme geometriche simboliche) che sono le strutture essenziali e forme archetipiche della realtà, i mudra (pratica delle posture del corpo e dei gesti delle mani) che sono i modelli e le configurazioni dei cambiamenti e mutamenti della realtà. Il risveglio, l'illuminazione, non può essere di natura solo mentale o intellettuale ma può essere compreso solo dalla globalità di una prassi unificata che riguardi l'interezza della realtà che si manifesta non solo nel pensiero (struttura) ma anche nella parola (vibrazione) e nell'azione (mutamento). Questa forma di buddhismo è pero elitaria e aristocratica, la più popolare e a tutt'oggi la più diffusa in Giappone è l'amidismo, pratica buddhista alla portata di chiunque secondo cui chiunque proclami il nome di Amida (luce infinita o vita infinita) con mente sincera, fede serena e desiderio di rinascere senz'altro rinascerà: si evidenzia, infatti, una contraddizione nel modo in cui la maggior parte delle scuole buddhiste concepisce la pratica religiosa, perché credere di poter sciogliere l'illusione fondamentale dell'esistenza ontologica di un io dotato di sostanza autonoma grazie ai propri sforzi e ai meriti acquisiti con la propria pratica individuale è esso stesso causa del radicamento della concezione illusoria dell'io; l'amidismo sposta così l'enfasi dalla pratica all'affidare completamente se stesso alla fede. Più tarda, nata tra il XII e il XIII secolo ma diffusasi soprattutto dal XVIII, è la scuola buddhista zen, che riafferma come preponderante l'aspetto della non continuità ontologica dell'io, la sua non-entità ipostatizzabile, separabile dalla realtà relazionale che lo fa essere quello che è: l'impermanenza dell'io non è una condizione instabile da cui liberarsi ma la modalità definitiva della realttà, il funzionamento totale di cui ogni cosa è intessuta, non è assenza o privazione di qualcosa.
Un elemento ricorrente dello sviluppo culturale giapponese è il suo sincretismo, la sua capacità di accogliere novità di pensiero e di comprensione della realtà provenienti da altre culture in modo quasi integrale, senza però permettere che queste entrino in conflitto con la sensibilità e la visione indigene che le ricevono, servendosi anzi delle nuove concezioni per confermare e consolidare la visione tradizionale: il pensiero cinese costituisce lo sfondo filosofico metafisico, una raffinata base teorica, per le credenze arcaiche.

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