Pages

mercoledì 30 marzo 2022

la nausea di sartre

Mentre nel tempo più classico del suo esistenzialismo esistenza e libertà costituiscono una coppia indissolubile di termini, in questo romanzo la nozione di esistenza appare disgiunta da quella di libertà. In primo piano al posto del pouvoir de néantisation, protagonista assoluto de L’essere e il nulla, c’è il carattere inerziale dell’esistenza. Mentre scrive La nausea Sartre non ha ancora messo a fuoco quel dualismo ontologico che separa dicotomicamente l’esistenza umana - il per sé - dall’esistenza inerte delle cose - l’in sé. La vita umana non appare nel romanzo del ‘38 come trascendenza, libertà, progetto. In primo piano è un fondo di ingiustificabilità del reale e della stessa presenza umana del mondo. Sicché, la fatticità non appare come una polarità, insieme a quella della trascendenza, ma si estende sino a pervadere integralmente il mondo precedendo e risucchiando all’indietro il movimento in avanti della trascendenza. L’esistenza appare come insuperabile. Il suo piano di immanenza si impone su quello della trascendenza del desiderio. La storia di questo romanzo è, dunque, la storia di una progressiva e paradossale rivelazione; la rivelazione del reale dell’esistenza. Perché l’esistenza è rimossa dalla nostra frequentazione abitudinaria del mondo. L’esistenza circonda, imprigiona, incatena, ma non la incontriamo mai; subisce un permanente processo di occultamento che nel romanzo assume la cifra della malafede di fondo che contraddistingue gli esseri umani.

Il reale informe dell’esistenza viene ricoperto dal quadro stabile della realtà, da un tempo omogeneo che torna sempre uguale a se stesso. Costanza, regolarità, continuità, stabilità. L’opposizione in gioco è quella tra il carattere difensivo della realtà e quello scabroso e indigeribile del reale, per fuggire di fronte allo scandalo della gratuità assoluta dell’esistenza. L’esperienza della Nausea svela invece l’impostura della malafede. Un reale di troppo, insensato, ingiustificato lacera la rappresentazione canonica del mondo. L’irruzione dell’esistenza fa cadere la maschera dell’Essere necessario rivelandone tutta la contingenza. È l’esperienza improvvisa e ingovernabile della Nausea a far cadere la maschera della malafede. Questa caduta è l’esito di una scossa che colpisce innanzitutto il corpo: urto, vertigine, smarrimento.

La Nausea sartriana rivela l’esistenza come bruta fatticità, protuberanza ingiustificata, superflua, contingente, di troppo. L’esistenza nel suo essere qui contingente sfugge ad ogni significazione coincidendo con la sua assoluta presenza, con il suo più puro e bruto être-là. In evidenza è qui la distinzione categoriale tra il quid sit e il quod sit - tra la quidditas e la quodditas - tra il che cosa è e il c’è dell’esistenza. Il c’è senza senso non può non evocare l’il y a dell’esistenza che in quegli stessi anni Lévinas pensa come campo neutro, brulichio informe, pura esistenza senza mondo. È il tema della prevalenza di una nozione di esistenza senza trascendenza, libertà, progetto, dell’esistenza come condizione priva di redenzione, senza vie di fuga, intrappolata, incatenata in un essere che è anteriore al mondo inteso come luogo della significazione.

Nella Nausea non si tratta però dell’angoscia che Sartre - seguendo Kierkegaard e Heidegger - definisce ne L’essere e il nulla come l’autopercezione riflessiva della nostra libertà, vincolata alla responsabilità di fronte al carattere sempre dilemmatico della scelta. Diversamente dall’angoscia che è in stretto rapporto con il campo aperto delle possibilità, con la libertà come fondamento infondato dell’esistenza, la Nausea è invece in rapporto con il reale impossibile dell’esistenza, con la sua fatticità. Sartre distingue chiaramente l’una dall’altra:

la percezione esistenziale della nostra fatticità è la Nausea, e l’apprensione esistenziale della nostra libertà, l’Angoscia.
Se l’angoscia kierkegaardiana e heideggeriana implicano la separazione, la perdita, il confronto con il nulla del proprio fondamento, la Nausea sartriana implica invece il sentirsi affondare nell’esistenza senza possibilità alcuna di separazione. Se l’angoscia è un’esperienza che ha al suo centro il rapporto dell’esistenza con la responsabilità della scelta che implica la possibilità permanente di fare un taglio netto col proprio passato, la Nausea appare piuttosto come un’esperienza di sprofondamento, di immersione, un segnale di intrappolamento nell’immanenza assoluta, irrelata, senza rapporto, dell’esistenza, segnala il ritorno dell’infanzia insuperabile dell’esistenza, mostra l’esistenza come il nucleo buio del soggetto che non si lascia mai metabolizzare integralmente dal simbolico, un passato traumatico che non si lascia dimenticare. La Nausea non è angoscia di fronte al nulla a fondamento della nostra libertà, né sorge dalla meraviglia di fronte all’essere, ma dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza. La Nausea non confronta, come accade per l’angoscia, il soggetto con la propria libertà - non rivela la trascendenza dell’esistenza - quanto con l’
assenza di libertà. Rivela la fatticità bruta di un’esistenza che si scopre come pura passività, inerzia, incatenamento. Non a caso Sartre avrebbe voluto intitolare il suo romanzo Melancholia a sottolineare come la condizione del soggetto nauseato evochi da vicino quella del soggetto malinconico: mentre nella paranoia il senso è dappertutto - nella paranoia tutto è diventato segno -, nella melanconia l’esistenza appare scissa dall’Essere, priva di ogni senso.


[Massimo Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio]

domenica 20 marzo 2022

esistenza, infanzia e desiderio

L'obiettivo che Massimo Recalcati si prefigge con il suo volume Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio è quello di correggere la versione stereotipata del soggetto sartriano come pura trascendenza della libertà, mostrando invece come il movimento più profondo del suo pensiero implica una concezione della soggettività come ripresa, assunzione retroattiva, soggettivazione di quello che il filosofo francese stesso definisce il carattere insuperabile e inassimilabile dell’infanzia.
Il soggetto, infatti, non è Sovrano, non è Sostanza, non è un Ego, e questo poiché, semplicemente, nessun soggetto può essere senza infanzia. La sua vocazione originaria non sorge dall’intenzionalità, non è, paradossalmente, una libera scelta del soggetto, ma proviene sempre, come direbbe Lacan, dal discorso dell’Altro. Il soggetto può certo guadagnare la sua singolarità, ma solo rimodellando incessantemente le tracce indelebili di questo discorso. Perciò, il Sartre più maturo dissolve l’idea di un’esistenza libera che precede ogni essenza, mostrando invece quanto l’esistenza si trovi da sempre sommersa, insabbiata, presa in circuiti di costrizione eterodiretti, inclusa nell’alienazione della storia, obbligata ad una passività di fondo costituita dalle marche traumatiche del desiderio degli Altri. Costituzione e personalizzazione scandiscono il rapporto necessario del soggetto con gli eventi contingenti della propria infanzia.
È allora possibile per il soggetto essere libero, se la sua vita è costituita dall’Altro? E come dobbiamo ripensare una libertà che non escluda il destino? Ancora, cosa significa scegliere la propria vita se la nostra prima vocazione è stata scelta dagli Altri? Cosa significa, insomma, pensare, come sostiene Sartre, l’infanzia al futuro?
L'interesse sartriano per l’infanzia è profondamente legato a quello nei confronti del processo di soggettivazione. L’infanzia viene infatti considerata un tempo originario dell’esistenza in cui l’evento della soggettività è preceduto dal discorso dell’Altro, anticipato come oggetto di questo discorso, costretto in una necessità profonda. Per questo l’infanzia viene descritta da Sartre come insuperabile, inassimilabile, un’opaca profondità che impone al processo di soggettivazione ritorni spiraliformi continui su di essa. Sono i resti indimenticabili, i traumi, le parole dell’Altro, le sue impronte a contrassegnare in modo indelebile ogni processo di soggettivazione. È qui che si gioca il destino del soggetto e la sua libertà di riuscire a fare qualcosa di ciò che lo si è reso.
Questa nozione di libertà come petit décalage (piccolo scarto) ci consegna una soggettività dai caratteri molto diversi da quella definita nell’ontologia esistenzialista de L’essere e il nulla come progetto e scelta.
È, secondo Recalcati, il grande tema dell’eredità. L’ereditare non come acquisizione passiva, ma come movimento in avanti, aperto sull’avvenire, riconquista, impegno a riscrivere le tracce già scritte nel nostro passato. È l’eredità come invenzione singolare che non può che generarsi come una conversione inedita e singolare della ripetizione che scaturisce dal nucleo opaco della nostra infanzia primordiale
.


sabato 5 marzo 2022

nietzsche e l'antifilosofia [3]

Un argomento ancor più essenziale concernente la difficoltà d’interrogare il testo nietzscheano è che la causa centrale della sua impresa non è altro che Nietzsche stesso. È una singolarità filosofica davvero sorprendente. È Nietzsche stesso a trovarsi al cuore del proprio dispositivo in quanto principio di valutazione centrale della propria impresa. Vi si convoca da sé e chiama noi come testimoni. Non è soltanto un autore, ma è lui stesso un pezzo di testo, e un pezzo strategicamente centrale. Ricordatevi di quel
Nietzsche contra Wagner:
la follia può essere la maschera per un sapere infelice troppo certo.

Ciò che è depositato in questo enunciato come principio immanente alla propria valutazione è un regime della certezza soggettiva assoluta, una tensione del pensiero, un sapere troppo certo, un sapere in eccesso su se stesso tramite la propria tensione che vale come prova. È l’argomento centrale della disposizione del testo stesso, il testo nietzscheano è il depositario di un eccesso. Esso è ciò in cui tale eccesso si deposita e Nietzsche non ha nulla in contrario, in fondo, nel chiamarlo “follia”, nella misura in cui questa non è altro che la maschera di un sapere infelice troppo certo. Questo eccesso è una sovratensione della verità, una verità esposta nel regime di un’appropriazione così radicale o così tesa che essa è, di per sé, la propria esposizione provocante. Per quanto appassionato possa essere nella propria sincerità, Nietzsche è di quelli che sanno. “Conosco la mia sorte”, dice alla vigilia della sua caduta,

un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme - una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. (Ecce homo)

Conosce il pericolo a cui s’espone; sa che il suo pensiero ruota attorno a questo centro pericoloso e tragico che, chiaramente, annienterà la sua vita. Il grado di rischio nel quale un uomo vive con se stesso è per lui la sola misura valida di ogni grandezza. Soltanto colui che rischia sublimemente la propria vita può guadagnare l’infinito. Cosa importa se il costo è la vita, visto che raggiunge la verità. La passione è più dell’esistenza, il senso della vita è più della vita stessa. Il testo è lì solo per accogliere e al tempo stesso placare quest’eccesso. L’accoglie. Questa sarà la sua dimensione di tensione e di prova interna, ma lo calma e lo inscrive.


Allora, nella misura in cui il testo è depositario di un eccesso su di sé della verità, questa disposizione si attesterà nella sua forma o nel suo stile. Ciò che è sottratto all’argomento deve necessariamente ritrovarsi o superarsi, in quanto eccesso su di sé del vero, nella potenza della forma. Ciò che varrà come prova per la verità è esattamente questa potenza tale per cui la prosa la capta o l’organizza nel registro della sua forma. Nel suo ruolo organicamente filosofico, la poesia testuale nietzscheana è dunque contemporaneamente la possibilità della verità e la possibilità di sopportarla. È la sua potenza e la possibilità di sopportare tale potenza. In quanto poeta o filosofo-artista, in preda alla propria scrittura, Nietzsche è la via della verità che egli proclama. Bisogna esporre la verità come vita, e non come argomento convincente. Ma esporla come vita vuol dire esporre se stessi. Questa esposizione consiste nella poetica stilistica.

Nietzsche è colui che ha spinto all’estremo l’imperativo di parlare rigorosamente a proprio nome. D’altronde, c’è una connessione eclatante fra ciò che egli intende con “parlare per se stesso” e ciò che Lacan vuole dire con la formula “non cedere sul proprio desiderio”. Se quest’ultima massima evoca qualcosa nella storia della filosofia, Nietzsche ne è chiaramente l’incarnazione quando dice di essere o d’installarsi al cuore del proprio enunciato, al punto che l’espressione “non cedere” verrà naturalmente alla sua penna in Ecce homo:

il mio istinto si decise inesorabilmente a finirla di cedere [...] di procedere con altri, di scambiarmi con altri [...]. Io ho un dovere [...] e cioè quello di dire: Ascoltatemi! Perché sono questo e questo. E soprattutto non scambiatemi per altro!

È veramente di “non cedere” che si tratta, in maniera tale da essere ben convinti di ciò che si enuncia, dal momento che lo si enuncia in quanto se stessi, nel desiderio al quale si è coestensivi. Conquistare la possibilità di prendersi per se stessi è l’autentica posta in gioco del “dire filosofico”.

Parlare a proprio nome, prendersi per se stessi, si unisce a una convocazione del vero come figura della decisione, e non in quella dell’esteriorità o dell’adesione. La verità è sempre all’interno del registro della decisione.

Io per primo ho il metro per le “verità”, io per primo posso decidere. (Ecce homo)

Il che significa sempre anche: io sono il primo che parla [la verità], e io la decido, non all’interno del regime dell’approvazione o dell’argomentazione, ma in quello dell’enunciazione, perché è l’enunciazione che collega la verità alla sua potenza. C’è una decisione di verità, ma non c’è nulla che sovrasti questa decisione per garantirla o autorizzarla. Si autorizza soltanto da sé.

Ne consegue che la verità si dà sempre come figura del rischio, al contrario di ogni figura di saggezza o di contemplazione. Il problema consisterà interamente nel sapere ciò che si è capaci di sopportare. Non è la questione della ricerca [della verità] o della sua contemplazione, ma quella della maniera in cui la si tollera. La verità è, in parte, una questione di sofferenza. Una sofferenza che [Nietzsche] s’infligge, ma non nel senso redentore o cristiano, ovvero nel senso che occorre soffrire affinché dal fondo di questa sofferenza giunga la redenzione salvifica. No, è unicamente per sapere quale animale sono.

Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più. (Ecce homo)

Una verità non è mai ciò che si argomenta o si discute, ma ciò che si dichiara. Ogni verità si dà nella figura rischiosa di una dichiarazione, il cui principale testimone è il soggetto stesso dell’enunciazione nella sua capacità di sopportare, di reggere ciò che dichiara. Questa figura, a dispetto della sua somiglianza, è in realtà l’opposto della figura del martire.

Il dire autentico, vero, dunque il diro filosofico-artistico, è l’esposizione dell’enunciazione come rottura, l’esposizione dell’elemento del terribile come rottura interna al dire stesso. Ora, ogni volta che si verifica un’esposizione integrale dell’enunciazione come rottura, ciò coinvolge l’umanità intera, anche se questo coinvolgimento non riguarda che uno soltanto dei suoi punti. È in gioco la sorte dell’intera umanità. Ecco perché Nietzsche può dire: porto sulle spalle il destino dell’umanità senza che per lui questa frase sia esagerata o delirante. Semplicemente, infatti, è in procinto di stabilire un regime di discorso senza scarto fra colui che dice e ciò che è detto. È ciò che potremmo chiamare, con termini lacaniani, il punto di capitone della storia del pensiero.


[Alain Badiou, Nietzsche. L'antifilosofia 1. Seminario 1992-1993]

ShareThis