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lunedì 30 settembre 2013

letture di settembre (III)

Bello il romanzo Sunset Park di Paul Auster. Bello, ma come incompiuto, dal finale che lascia un po' l'amaro in bocca o, forse meglio, lascia un po' a bocca asciutta. Interessanti e ben tratteggiati tutti i personaggi che compaiono e le cui vite sono intrecciate e si intrecciano nella fatiscente casa abusivamente occupata e abitata di Sunset Park e nel resto della città di New York. Coinvolgenti le storie e le vicende di questi personaggi, tutte colte in momenti come di svolta, decisivi, di decisioni da prendere, di scelte da fare, di opportunità da cogliere, di opzioni da valutare. Buono ed efficace lo stile di alternare il punto di vista con cui procede il romanzo tra i diversi personaggi, alcuni maggiormente e più a lungo focalizzati, altri meno e più passeggeri, ma tutti comunque incisivi, vividi, credibili. E però a me è mancato un finale, la conclusione mi è risultata troppo brusca, improvvisa, non tanto aperta e ambigua quanto proprio troncata, recisa, appunto incompiuta. Come si risolverà la storia d'amore tra Miles e l'ancora (per poco) minorenne Pilar? E come si aggiusteranno le relazioni tra lui e i suoi divorziati genitori, il piccolo editore Morris e l'attrice Mary-Lee? Che ne sarà di Bing, con la sua band e il suo Ospedale delle Cose Rotte? Alice finirà la sua tesi di dottorato? Ellen darà una svolta alla sua attività artistica e troverà l'amore? Ecco, io tutto questo, e altro, non lo saprò mai, non c'è una seconda stagione da attendere, e questo mi spiace e un po' mi urta, forse.

Per il mensile incontro di un gruppo di lettura è stato il turno de L'Avversario, del francese Emmanuel Carrère, ricostruzione della trama di eventi, accidenti, bugie, inganni che hanno condotto il protagonista a uccidere moglie, figli, genitori nel momento in cui era ormai divenuto insostenibile portare avanti la falsa vita che si era costruito. Egli è l'avversario, il male, o solo un povero diavolo, un dannato? La delusione che aveva caratterizzato questa esperienza di lettura era stata in parte risarcita da un piacevole e inatteso evento: l'autore e narratore del romanzo scrive che, all'epoca degli omicidi, stava scrivendo una biografia di Philip K. Dick e il giorno dopo aver finito tale romanzo, rimettendo a posto dei libri negli scaffali, mi imbatto in un dimenticato acquisto di oltre sei anni fa, proprio quella Philip Dick. Una biografia di Carrère, "previdentemente" comprato in una libreria dell'usato. L'impressione di questo presunto risarcimento, però, è durata ben poco. Anche questo scritto soffre di tutti i difetti dell'altro romanzo: piattezza stilistica, trama aneddotica, sciattezza. Insomma, sono mere biografie, nel senso più deteriore che al termine si può dare, cioè scritti privi di valore letterario e semplicemente informativi, come il bugiardino di un medicinale. Addirittura questa biografia dello scrittore statunitense ha corso il rischio di rendermelo antipatico, facendolo risultare un  mediocre scrittore autore pressoché sempre dello stesso libro su quel suo piccolo mondo fatto di totalitarismo, droghe psichedeliche, realtà ultima, Dio, un ossessionato religioso, paranoico, dipendente da farmaci e altro. Doppia delusione, quindi.

Continua sempre bene e piacevolmente l'immersione nella saga de Le cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin con il decimo volume, I guerrieri del ghiaccio.
Di Stato di legittima difesa di Simone Regazzoni scriverò in un prossimo post.

sabato 28 settembre 2013

letture di settembre (II)

Continua ancora il corso su Moderno e Postmoderno e si passa a saggi di Emerson e Wittgenstein.

Per il filosofo americano Ralph Waldo Emerson ho letto alcuni saggi, in particolare quello sulla fiducia in se stessi e quello sull'esperienza. Non tenendo in considerazione libri e tradizioni, tutto lo scintillio del firmamento della passata e dell'altrui arte e sapienza, bisognerebbe invece imparare a tener d'occhio il barlume di luce che guizza in ognuno di noi e imparare a comportarsi non da minorenni e invalidi e codardi, da "fanciulli che meccanicamente ripetono le frasi di nonne e tutori", da diperati e piagnoni cui sono stati strappati muscoli e cuore, da "soldatini da salotto", ma come chi non mostra mai "quell'umore d'incertezza e renitenza, quella sfiducia che s'impossessa di noi solo perché la nostra aritmetica ha calcolato le forze e i mezzi che si oppongono a un nostro proposito", come chi ha l'occhio ancora indomato e non si conforma a nessuno. L'opposto del conformismo - la virtù più ricercata dalla società, in quanto benda che tappa gli occhi, uniforme-prigione del partito cui si è aderito, graziosa espressione asinina, sciocco viso della lode - è la fiducia in se stessi, la capacità e il coraggio di ogni uomo di operare secondo le proprie originali, sincere, autentiche vedute. Così, "con l'esercitare la fiducia in se stessi, nuovi poteri verranno alla luce", "una possibilità di espressione ardita e grandiosa e tuttavia differente" da qualunque altra.

Con invidiabile chiarezza, distinzione e precisione Ludwig Wittgenstein conduce le sue Ricerche filosofiche nel tentativo di superare un modello e una rappresentazione classici ma primitivi del modo e della maniera in cui funziona il linguaggio, che non è un mero sistema di comunicazione ma un gioco linguistico costituito e intessuto da un'insieme di attività imparentate, legate da affinità e somiglianze di famiglia, come gli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili, come nel tessere un filo si intreccia fibra con fibra così che esso è l'ininterrotto sovrapporsi di queste. Un gioco e una famiglia dai contorni forse sfocati, irregolari, ma la purezza cristallina della logica, il suo rigore, sono esigenze che minacciano di trasformarsi in qualcosa di vacuo: "non c'è alcun fuori; fuori manca l'aria per respirare" e si finisce "su una lastra di ghiaccio dove manca l'attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell'attrito. Torniamo sul terreno scabro!" 
Il testo prova anche a dare una risposta alla domanda 'che cos'è la filosofia'. Su questo 'terreno scabro' dove camminiamo incontrando 'attrito', "la filosofia è una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio", contro i pregiudizi, le forme e le immagini che ci tengono prigionieri e attraverso cui ripetutamente e inesorabilmente - "come un paio di occhiali posati sul naso" - seguiamo e guardiamo la natura. La filosofia lascia dietro di sé "rottami e calcinacci" degli "edifici di cartapesta" che ha distrutto, e su di noi lascia gli schietti "bernoccoli" che ci siamo fatti cozzando contro i limiti e gli errori in cui eravamo impigliati quando non ci raccapezzavamo. Lo scopo della filosofia, insomma, è "indicare alla mosca la via d'uscita dalla trappola".

lunedì 23 settembre 2013

fiducia in se stessi

Il potere che è in lui è qualcosa di nuovo in natura, e nessuno, eccetto lui stesso, può sapere che cosa sia quello che egli può fare, né può mai saperlo finché non ha provato.

Essi non hanno quell'umore d'incertezza e renitenza, quella sfiducia che s'impossessa di noi solo perché la nostra aritmetica ha calcolato le forze e i mezzi che si oppongono a un nostro proposito.

L'uomo è timido e sta troppo a scusarsi; non sta più saldo e dritto; non osa dire "io penso", "io sono", ma passa a citare qualche santo o qualche filosofo. Si vergogna di fronte a un filo d'erba o a una rosa che sboccia. Queste rose sotto la mia finestra non stanno a far riferimenti a precedenti o a migliori rose; sono ciò che sono; esistono insieme con Dio nell'oggi. Il tempo non esiste per loro. Vi è semplicemente la rosa: perfetta in ogni momento del suo esistere.

Con l'esercitare la fiducia in se stessi, nuovi poteri verranno alla luce.

(Ralph Waldo Emerson, Fiducia in se stessi).

Ad accompagnare questi frammenti del filosofo americano, alcune immagini del supereroe Marvel Capitan Bretagna, i cui poteri dipendono (per manifestazione e intensità) proprio dalla fiducia in se stesso.

domenica 22 settembre 2013

letture di settembre (I)

Il corso on line su Moderno e Postmoderno continua con due saggi di Nietzsche e Freud -completando così, dopo Marx, la cosiddetta triade del sospetto - e un romanzo della Woolf. 

Di Friedrich Nietzsche ho letto la Genealogia della morale. Forse questo scritto polemico è il peggiore Nietzsche che io abbia letto, ma questo non gli impedisce di essere un gran bel libro: sicuramente la forma, la sperimentazione stilistica, non è ai vertici caratteristici del filosofo tedesco, ma non per questo il testo non è al solito dinamite, un far filosofia martellando contro idoli, luoghi comuni, presunte certezze, metafisiche verità, rovesciati valori. 
La genealogica scoperta dell'origine dell'opposizione tra "buono" e "cattivo" e la distinzione tra quest'ultimo e "malvagio", l'identificazione dell'immeschinirsi e del livellarsi dell'uomo europeo come il massimo dei pericoli, quello della stanchezza, del passivo nichilismo, della mancanza di voglia di divenire più grande, di essere - come un arco - teso, pronto al nuovo, al più difficile ancora, al più lontano ancora, minaccia peggiore di ogni presunta barbarie. Lo smascheramento del risentimento quale origine del senso di colpa e della cattiva coscienza, della crudeltà nascosta dietro ogni morale (perfino nel vecchio Kant l'imperativo categorico puzza di crudeltà, di un certo lezzo di sangue e di tortura) e interiorizzata in aggressività contro l'uomo stesso. La trasformazione di questa malattia - che poteva essere come una gravidanza o un orrendamente gioioso travaglio, un'avventura, un disprezzo per nuove sorprendenti bellezze e affermazioni, un supplizio ed esercizio da artisti - in ideali ascetici castranti, venefici, avvilenti, dall'effetto insomma simile a un'intossicazione alcolica o alla sifilide. 
Questi i temi delle tre trattazioni del saggio nietzschiano.

Di Sigmund Freud, invece, mi è toccato Il disagio della civiltà. Per esprimere la mia delusione derivante da questa lettura uso (parafrasandole solo un po') le stesse parole scritte dallo psicoanalista all'inizio del sesto paragrafo di questo suo saggio: leggendo questo lavoro ho avuto la sensazione di ascoltare la descrizione di una materia universalmente nota, l'impressione che siano stati consumati carta e inchiostro e si sia dato tanto da fare al compositore e allo stampatore del libro solo per esporre cose risapute. La mia personale impressione di aver a che fare con nient'altro che senso comune - il rapporto tra incivilimento e senso di colpa, il prezzo in termini di perdita di felicità che è necessario pagare quale debito per il progresso civile, etc. - è forse ancora più intensa dati gli oltre ottant'anni passati dalla stesura dell'opera e dallo stile freudiano che a me sembra piuttosto arido e piatto.


Gita al faro è stata, invece, l'opera di Virginia Woolf che ho letto per il corso. Il romanzo è una sorta di fenomenologia della coscienza post-cartesiana. Persa la sicurezza, la fiducia, la sovranità, la padronanza, l'autonomia, l'io (post)moderno si ritrova in una condizione tale che "seguire il suo pensiero era come seguire una voce che parla troppo in fretta perché sia possibile trascrivere a matita quel che dice, e la voce era la sua stessa voce che diceva senza alcun suggerimento cose innegabili, permanenti, contraddittorie". Se ancora la voce dell'io è la sua stessa, non ancora quella dell'altro, essa però inizia a sfuggirsi, a "danza[re] su e giù, come uno sciame di zanzare, ognuna separata dall'altra ma tutte mirabilmente trattenute in una invisibile rete elastica", a tessersi sempre più velocemente. Non si disfa, non si è decostruito fino allo sgretolamento, un "nucleo di oscurità in forma di cuneo", dilatato, insondabile, profondo, sembra permanere anche se quasi come un estraneo in casa, un perturbante segreto familiare e incredibile insieme, ma non ha, non può avere, "la dignità degli alberi immobili". "Aereo e evanescente, un colore che sfuma nell'altro come i colori sulle ali di una farfalla", è l'io, "ma sotto la costruzione [è] saldamente tenuta insieme da sbarre di ferro", si può "increspare con il respiro" ma non si può "spostare con un attacco di cavalli".

sabato 14 settembre 2013

eldritch

Mostruoso, orribile, ripugnante (hideous). Inquietante, misterioso, soprannaturale (eerie). Perturbante, sconcertante, incredibile (uncanny). Ma è l'aggettivo eldritch, riferibile a ciò che viene da una realtà altra, da un altro luogo, alieno, strano e straniero, che per Philip K. Dick riunisce tutto ciò che Sigmund Freud ha indicato come contenuto nella parola unheimlich, con la sua dimensione di panico davanti a ciò che è falsamente familiare, di impeto e spavento che fanno urlare: "come si urla per risvegliarsi, ma l'orrore è che sei già sveglio, che non c'è scampo" (Emmanuel Carrère). 
Da qui il nome Palmer Eldritch (Le tre stigmate di Palmer Eldritch), in cui Dick riunisce i temi del totalitarismo - che tanto lo aveva colpito leggendo Hanna Arendt, con la sua idea di allontanare la gente dalla realtà facendola vivere in un mondo fittizio, dando consistenza alla creazione di un mondo parallelo riscrivendo la storia e imponendo versioni aporife - e della realtà più vera dietro quella fenomenica e apparente - idea comune di tutte quelle forme culturali che vanno dal mito della caverna di Platone al sogno del cinese Chuang-zu (è il filosofo a sognare di essere una farfalla o è la farfalla a sognare di essere un filosofo?), dall'ipotesi iperbolica e radicale del genio maligno di Cartesio alla sua versione più moderna dei cervelli manipolati da uno scienziato elaborata da Hilary Putnam.


martedì 10 settembre 2013

puoi perché devi

Lo sconvolgente finale della testata del Tessiragnatele, il dialogo tra il Dottor Octopus nel corpo (e con i ricordi) di Spider-Man e quest'ultimo in quello - morente - dell'arci-nemico e criminale.

Dottor Octopus - Fermo! Non voglio questo! N...
Spider Man - Volevi essere l'Uomo Ragno. Be', non ci sono solo i suoi poteri.
Dottor Octopus - Ti... ucciderò! 
Spider Man - Non lo farai. Perché sai quanto è preziosa la vita. E quale tragedia è... ogni volta che viene stroncata.
Dottor Octopus - Ti prego. Basta. È troppo, non posso... continuare.
Spider Man - Sì che puoi. Sarai sorpreso di quanto puoi fare. Di quante cose sia giusto combattere.
Dottor Octopus - No! Tutto questo che mi stai mostrando... è impossibile!
Spider-Man - Lo so. Ma lo fai comunque.
Dottor Octopus - E lo vedo... lo sento. Lo faresti ancora?!
Spider-Man - Sì, Otto.
Dottor Octopus - Anche me? Salveresti la mia vita, con tutto quel che è successo?!
Spider-Man - Sì! È questo che sono... che siamo.
Dottor Octopus - N-non lo voglio fare.
Spider-Man - Troppo tardi. Attento a quel che desideri... Spidey.
Dottor Octopus - Dimmi. Perché... perché posso farlo?
Spider-Man - Perché devi. Perché... da un grande potere...
Dottor Octopus - ... Derivano grandi responsabilità. Capisco.
Spider-Man - Bene. Sei l'Uomo Ragno ora.

(da The Amazing Spider-Man #700, del febbraio 2013, in Italia Amazing Spider-Man #600 dell'agosto 2013)


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