Pages

mercoledì 29 febbraio 2012

sull'identità personale

Nell’episodiodi South Park Spookyfish – Lo speciale di Halloween, i ragazzi scoprono un secondo Cartman che se ne va in giro per South Park. I due Cartman sono identici, i ragazzi non riescono a distinguerli dall’aspetto, ma notano subito una differenza nel loro carattere. Nell’episodio Un elefante fa l’amore con una maiala, Stan viene clonato, ma i due Stan non sono assolutamente uguali fisicamente. Infine, ricordate l’episodio Una scala per il paradiso, in cui Cartman, dopo aver bevuto le ceneri di Kenny, viene posseduto da lui. Questa volta abbiamo solo un corpo – il corpo di Cartman – ma al suo interno c’è l’anima di Kenny.
Ci sono due vaste categorie di criteri per l’identità personale. Secondo i criteri fisici, l’identità è composta da elementi fisici come il corpo, il cervello e altre forme fisiche. D’altro lato, secondo i criteri psicologici, l’identità è composta da alcune parti psicologiche, come la coscienza e la memoria, che esistono nel tempo.
Con la testa fra le nuvole [lavaggio del cervello di alcuni abitanti], Divertirsi con le armi [rimozione di una stella ninja dalla testa di Butters], Super Adventure Club [lavaggio del cervello a Chef]. In questi esempi, il cervello sembra essere l’ingrediente fondamentale dell’identità personale. Le persone cambiano nel tempo a causa di cambiamenti nel loro cervello. Tu sei tu nel tempo, se, e solo se, hai lo stesso cervello.
D’altro lato, nell’episodio Il più grande buffone dell’universo, i ragazzi vedono i trailer dei prossimi film in uscita di Rob Schneider. Il trailer del primo film è il seguito delle varie identità assunte da Schneider nei suoi film precedenti: «Rob Schneider è stato un animale. Poi è stato una donna. E ora Rob Schneider è… una pinzatrice».  Rimane però sempre la stessa persona, anche se la sua forma fisica cambia. Questo presuppone criteri psicologici per l’identità personale. La propria identità come persona deriva quindi dalla continuità psicologica.
Nell’episodio Ai confini della realtà i ragazzi si identificano con uno dei possibili criteri psicologici dell’identità personale, il criterio del ricordo. Se qualcuno soffre di amnesia o di uno scambio di memoria a causa del quale i suoi vecchi ricordi sono cancellati o sostituiti da nuovi, allora anche la sua identità sarà diversa. Per Locke sono i ricordi che ci permettono di avere la stessa coscienza nel tempo.
Torniamo all’episodio Spookyfish – Lo speciale di Halloween. Il metodo usato dai ragazzi per distinguere i due Cartman segue il criterio della continuità psicologica dell’identità personale, dove la personalità è fondata sulla continuità delle relazioni psicologiche nel tempo. Il criterio della continuità psicologica nasce, tra le altre fonti, dall’approccio scettico di David Hume. Nel suo Trattato sulla natura umana, Hume sosteneva che tutti noi siamo «fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento». Per Hume non c’è nessun sé che rimane lo stesso nel tempo. Non potremo mai trovarci nella posizione di poter catturare una “persona” che è la stessa in un momento e in quello successivo. Tutt’al più, ognuno di noi è una collezione di pensieri, sentimenti e atteggiamenti mutevoli. La teoria di Hume porta a sostenere che la personalità sia un tutt’uno fittizio che cattura l’interezza dei nostri tratti psicologici, delle nostre azioni, dei nostri modelli comportamentali e delle nostre riflessioni nel tempo.

(da Shai Biderman, Il futuro sé di Stan e il malvagio Cartman. Identità personale in South Park, in South Park e la filosofia)


lunedì 27 febbraio 2012

barthes guarda bart

Barthes ha affrontato il tema della decifrazione del modo in cui le immagini si “codificano”, come si caricano di significato in un saggio del 1964 intitolato Retorica dell’immagine, in cui esamina i modi in cui un’immagine funziona sia a livello di “connotazione” sia a livello di “denotazione”. Le immagini sembrano significati iconici o motivati (significato denotativo), tuttavia «non si incontra mai un’immagine letterale allo stato puro», nessun disegno o nessuna fotografia ci giunge se non come parte di un messaggio, come parte del tentativo di qualcuno di comunicare qualcosa (significato connotativo), come messaggio culturale specifico sovrimposto al significato denotativo dell’immagine. La fotografia sembra «un messaggio senza codice», un tipo di significante naturale, non mediato ma «gli interventi dell’uomo sulla fotografia (inquadratura, distanza, luce, flou, ecc.) appartengono effettivamente tutti al piano della connotazione», questi tratti sono parte della costruziosità della fotografia. La qualità del messaggio fotografico è la sua capacità di azzittire la sua stessa codifica, di farci dimenticare che è stata costruita (mito del “naturale” fotografico). Queste idee si applicano analogamente alle immagini che vediamo in televisione, immagini che sono sostanzialmente manipolate, costruite, fabbricate, ma che tendiamo a ricevere molto passivamente come indici affidabili della natura e della realtà.
La grande energia dei Simpson è prodotta proprio dal conflitto tra il riconoscimento della qualità molto mediata e non realistica dei significanti e la comprensione che, ciò nonostante, essi assomigliano a una realtà conoscibile. Un disegno come un personaggio dei Simpson  mette in mostra una grande misura di convenzionalizzazione: sono disegni altamente stilizzati, nondimeno li riconosciamo come rappresentazioni di certi aspetti della società. Il fatto che i personaggi con tutta evidenza non sono proprio umani aumenta la loro capacità di funzionare come significanti satirici, permettendo di avventurarsi nel regno del ridicolo molto più profondamente di quanto potrebbero fare attori umani o disegni realistici, guadagnando una libertà d’azione illimitata in ciò che possono descrivere o suggerire conservando tuttavia la capacità di esprimere riferimenti sempre in primissimo piano. Ricordando costantemente che i personaggi non sono reali, aumenta il grado in cui noi li recepiamo come significanti con la capacità di rappresentare le cose. Volando per così dire sotto il radar delle nostre menti razionali, lo show ci spinge con calma, come un virus, ad abbassare le nostre difese intellettuali, e poi ci infetta con idee satiriche e sovversive.
Barthes in S/Z, pubblicato nel 1970, definisce come “classico” un testo chiuso alle possibilità della connotazione. Un testo di tal genere funziona su un livello puramente denotativo, e il lettore non viene mai incoraggiato a speculare oltre ciò che il narratore o un’altra voce autorale affermano. Ciò implica una specie di legge o religione della lettura “corretta”: il lettore non può “scrivere” il testo né può aggiungervi cose sostanziali. Barthes definisce questi testi “leggibili”. All’opposto troviamo il testo “scrivibile” o “plurale”, un testo che incoraggia la libera interrelazione sia da parte dello scrittore sia da parte del lettore, che è ricco di connotazioni, che è di fatto aperto in relazione al suo significato ultimo: «I nomi si chiamano, si raccolgono e il loro raggrupparsi vuole a sua volta un nuovo nome: nomino, denomino, rinomino: così passa il testo: è un nominare in atto, un’approssimazione instancabile, un lavoro metonimico. La lettura non consiste nel fermare il succedersi dei sistemi, nel fondare una verità, una legalità nel testo e nel provocare, di conseguenza, gli “errori” del lettore: passo, attraverso, articolo, scateno, non conto. L’omissione dei sensi non è una materia di scuse, infelice difetto di esecuzione; è un valore affermativo, un modo di affermare l’irresponsabilità del testo, il pluralismo dei sistemi: proprio perché ometto posso dire che leggo». Propongo di considerare I Simpson esattamente un testo “irresponsabile”, ricco in associazioni e connotazioni e perversamente avverso a veder precisate tali connotazioni. La ricchezza di un testo dei Simpson è l’apertura alla connotazione, all’andamento di significanti galleggianti che si raggruppano e si disperdono apparentemente a caso: «Questa citazione fuggevole, questo modo surrettizio e discontinuo di porre un tema, quest’alternanza del flusso e dell’esplosione, definiscono l’andamento della connotazione; i semi sembrano vagare liberamente, formare una galassia di minute informazioni in cui non si può leggere nessun ordine privilegiato». In un testo “classico” i significati alla fine si raggruppano in “senso”, nei Simpson questo raggruppamento viene deferito indefinitamente. L’occhio del leggibile pretende un’uniformità finale, ci porta in una direzione molto prevedibile e culmina con un senso soddisfacente di risoluzione. Ma I Simpson, spostando in prima fila i suoi significanti e dislocandoli allegramente da significati stabili e prevedibili, permette un tipo di lettura più libero, più ricco.

(da David L.G. Arnold, “E il resto si scrive da solo”: Roland Barthes guarda I Simpson, in I Simpson e la filosofia)


sabato 25 febbraio 2012

alla rivoluzione ballando

Una rivoluzione senza un ballo è una rivoluzione che non vale la pena di fare.

Dice il protagonista del film V per vendetta, citando l'anarchica russa Emma Goldman, "Se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione!".

giovedì 23 febbraio 2012

ubbidienza e innocenza

Sol voleva sapere come un qualsiasi sistema etico potesse derivare dall'ordine di Dio a un uomo di uccidere il proprio figlio. A Sol non importava che l'ordine fosse una prova d'ubbidienza. A dire il vero, l'idea che fosse stata l'ubbidienza a consentire ad Abramo di diventare padre di tutte le tribù d'Israele, era proprio ciò che procurava a Sol accessi d'ira.
Dopo cinquantacinque anni di lavoro sulla storia dei sistemi etici, Sol Weintraub era arrivato a un'unica, incrollabile decisione: ogni rispetto per una divinità, un concetto o un principio universale che poneva l'ubbidienza al di sopra del giusto comportamento nei confronti di un essere umano innocente, era un male.
Allora definisci il termine "innocente", disse, in tono vagamente divertito e querulo, la voce che Sol associava a queste discussioni.
Un bambino è innocente, pensò Sol; Isacco era innocente.
"Innocente" per il semplice fatto d'essere bambino?
Sì.
E non esiste circostanza in cui il sangue dell'innocente debba essere versato per una causa superiore?
No, pensò Sol, nessuna.
Ma "innocente" non è limitato ai bambini, immagino.
Sol esitò, intuendo una trappola e cercando di scoprire dove il suo invisibile interlocutore volesse andare a parare. Non ci riuscì. No, pensò, "innocente" include altri, oltre i bambini.
L'innocente non dovrebbe mai essere sacrificato, a nessuna età?
Esattamente.
Forse è questa, la parte della lezione che Abramo doveva imparare, prima d'essere padre della benedetta fra le nazioni della terra.
Quale lezione?, pensò Sol; quale lezione? Ma nella sua mente la Voce era svanita; ora restavano solo i richiami degli uccelli notturni all'esterno e il fievole respiro della moglie al suo fianco.

(da Dan Simmons, Hyperion)


mercoledì 22 febbraio 2012

un marxista (karl, non groucho) a springfield

Ci si potrebbe chiedere se la serie dei Simpson sia uno show sovversivo, se sia una forma d'arte che scuote il potere sociale, che critica quelle che Marx chiamava le ideologie dominanti – cioè le credenze, i giudizi e i modi di sentire che una società inculca con il preciso scopo di generare una riproduzione automatica delle sue premesse strutturali, di preservare il potere sociale in assenza di una coercizione diretta.
Effettivamente la comicità dei Simpson si fonda sull'incongruenza, che fa riflettere su idee e convinzioni che diamo per scontate mettendone invece in luce l'aspetto solo abituale e non naturale: riconoscendo e divenendo consapevoli di come normalmente vediamo il mondo, ci allontaneremmo dalla tendenza a pensare per stereotipi, ci vengono dubbi sulle nostre convenzioni, domande sulle nostre regole, abitudini, prospettive consuete. – Homer: Oh mio Dio. Alieni dallo spazio! Non mangiatemi! Ho moglie e figli. Mangiate loro!
E però a Springfield i marxisti non è che siano tanto i benvenuti: il cartone dell'Europa dell'est Lavoratore e Parassita che sostituisce Grattachecca e Fichetto è di una noia mortale, sul propagandista del partito comunista che si presenta allo stadio vengono scagliati pomodori, nonno Simpson si ritrova nel portafogli – oltre a tessere della massoneria e dell'alleanza gay e lesbiche – una tessera del partito comunista a dimostrazione che i comunisti convincono con l'inganno i vecchi rincoglioniti.
Nell'episodio Scene di lotta di classe a Springfield si vede bene come la serie contraddica sempre ciò che sembra pericolosamente avvicinarsi a una visione del mondo di sinistra o ad una qualsiasi presa di posizione politica: Lisa si lascia distrarre da un pony e smette di "lamentarsi", cioè di criticare i ricchi membri del country club, e tutta la famiglia finisce per riconoscere di stare meglio in un "buco" di Krusty Burger, che è il loro posto. Tutto finisce, insomma, nell'accettazione dello status quo, nella restaurazione dell'ordine sociale.
Del resto, non c'è mai simpatia o solidarietà per i lavoratori.
E va bene, forse i Simpson sono "solo" una divertente serie televisiva, però certo i rossi sono talmente cupi, delle persone così serie.

(da James M. Wallace, Un marxista (Karl non Groucho) a Springfield, in I Simpson e la filosofia)

martedì 21 febbraio 2012

difendere la democrazia attraverso la satira

La critica del totalitarismo di Popper si basa sulla distinzione tra società chiusa e società aperta. Secondo Popper la società chiusa è quella in cui i costumi sociali sono particolarmente rigidi e resistenti alla critica, in cui manca la «distinzione fra le regolarità consuetudinarie o convenzionali della vita sociale e le regolarità riscontrate nella natura» e si crede invece che «le une e le altre sono imposte da una volontà sovrannaturale». Di conseguenza, le regole e i costumi della società chiusa sono relativamente chiari e incontestati. «La via giusta è determinata da tabù, da istituzioni tribali magiche che non possono mai diventare oggetto di considerazione critica» (La società aperta e i suoi nemici).
Al contrario, la società aperta è quella in cui i costumi sono aperti alla riflessione razionale dei suoi membri, in cui la riflessione e la discussione pubblica possono produrre cambiamenti nei tabù, nelle regole e nelle leggi codificate della società.
Perché a volte le democrazie sono attratte dal totalitarismo chiuso, per esempio dal nazismo o dal fascismo? In generale Popper pare considerare coloro che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra degli schieramenti politici nemici della società aperta. I rappresentanti di entrambi gli estremi hanno difficoltà a tollerare la libera e aperta discussione pubblica tanto indispensabile a una società aperta. Per di più, entrambi sono insofferenti nei riguardi delle imperfezioni intrinseche del processo democratico e tutti e due sono lesti nel rifiutare la possibilità che le loro opinioni siano sbagliate.
La democrazia è messa in pericolo dalle minacce totalitarie provenienti sia da destra che da sinistra. «Quelli che urlano da un lato e quelli che urlano dall’altro sono uguali, ed è bello stare nel mezzo e ridere di entrambi» (Parker, autore di South Park).
Considerate Cartman. Solitamente viene rappresentato come un ridicolo fanatico di destra, quantunque insolitamente giovane. Antidemocratico e autoritario, Cartman è un bullo egoista che ironizza crudelmente sulle disgrazie altrui e tratta male i suoi animali, fantastica una carriera dedicata al mantenimento dell’ordine pubblico non desiderando aiutare la gente né servire la sua comunità ma, come egli stesso scandisce, volendo persone che soddisfino la sua richiesta «rispetta la mia autorità». Per questi e altri innumerevoli peccati e difetti di carattere, raramente Cartman finisce un episodio senza essere ridicolizzato o punito in qualche modo.
Un ulteriore elemento è quello che Popper definisce il paradosso della tolleranza. Il tipo di tolleranza richiesto per mantenere sana una democrazia richiede, per ironia della sorte, un’intolleranza per l’intolleranza. «Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi».
Quando redasse il Virginia Bill for Establishing Religious Freedom (1777), Thomas Jefferson, già uno dei principali autori della Dichiarazione d’indipendenza americana (1776), riconobbe che l’indagine libera e schietta è l’unico metodo esauriente per ottenere la conoscenza in tutte le questioni importanti, siano esse di carattere scientifico, politico, religioso o altro: «La verità è potente e trionferà se lasciata a se medesima; che è essa l’antidoto adatto e bastevole all’errore e non ha nulla da temere dal conflitto, a meno che non sia privata da un’umana interposizione delle sue armi naturali, il libero ragionamento e la libera discussione. Gli errori cessano dall’essere pericolosi quando le sia consentito di confutarli liberamente».

(da David Valleau e Gerald J. Erion, South Park e la società aperta. Difendere la democrazia attraverso la satira, in South Park e la filosofia)

lunedì 20 febbraio 2012

meraviglie?

Si provi a immaginare quale effetto farebbe se creature diverse e straordinarie camminassero veramente tra di noi: gli uomini si sentirebbero infinitamente inferiori, come vermi, in confronto a questi esseri, che li terrorizzerebbero anche quando compiessero atti spettacolari per difenderli. La paura sarebbe il sentimento prodotto e generato dalla presenza di queste “meraviglie”. Un’opera come, appunto, Marvels – di Kurt Busiek e Alex Ross, del 1994 –, che presenta la prospettiva di un reporter che fotografa supereroi – idea in parte ripresa con Marvel. Eye of the Camera, sempre di Busiek, del 2008 –, ce ne dà l’idea. Come dimostrano anche i supereroi di Watchmen (di Alan Moore e Dave Gibbons, del 1986-1987) – che agiscono al di là della legittima autorità dello Stato – e Superman: Red Son (di Mark Millar e Dave Johnson, del 2003) – che mostra come i supereroi in contesti non democratici (nel caso specifico, un Superman atterrato nell'Unione Sovietica anziché che negli Stati Uniti) possano svolgere azioni teoricamente atte a realizzare un’utopia ma che inevitabilmente, invece, conducono a risultati distopici –, sembrerebbe chiaro che la presenza di supereroi e mutanti renderebbe gli uomini più insicuri. 
Segnalazione ancora per un ultimo – anche per data di pubblicazione – esempio di questa visione delle “meraviglie” (marvels) come fonte di insicurezza, paura, terrore. Un esempio che, in più, ha per protagonisti proprio i mutanti: Before the Devil KnowsWe’re Dead, protagonista la squadra dell'incredibile X-Force di Wolverine, Psylocke & co.





sabato 18 febbraio 2012

così parlò bart

L'oltreuomo: lo spirito libero teorizzato da Nietzsche, che rifiuta la moralità e le virtù tradizionali, che abbraccia il caos del mondo e conferisce stile al suo carattere, poiché l'esistenza trova una propria giustificazione e redenzione solo come impresa artistica, solo realizzando la vita come un'opera d'arte. Darsi uno stile: «Una sola cosa è necessaria. “Dare uno stile” al proprio carattere: è un’arte grande e rara. L’esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto quanto offre la sua natura in fatto d’energie e debolezze, e che inserisce quindi tutto questo in un piano artistico, finché ogni cosa non appare come arte e ragione, e persino la debolezza incanta l’occhio. La costruzione imposta da uno stesso gusto» (Gaia scienza). La creazione di se stessi, l’essere autocreato.
Se Lisa Simpson può rappresentare l'ottimismo etico socratico, la fiducia che la ragione possa aiutare ad agire meglio, il fratello Bart può essere un modello dell'ideale nietzschiano?
La risposta, purtroppo, è no.
Benché l'oltreuomo sfidi l'autorità e la tradizione e ingiuri molte delle cose che normalmente vengono ritenute fondamentali (e possa perciò essere definito un immoralista), tuttavia non è la cattiveria di Nelson e dei suoi compagni – bruti, violenti, irriflessivi – l'ideale nietzschiano, ma neanche Bart, poiché il modo in cui egli si autodefinisce è in larga parte reattivo: non è una qualche trionfante affermazione dei suoi talenti e delle sue abilità, non è un grandioso e creativo ordito dei disparati elementi del suo sé il modo in cui egli crea se stesso, ma lo fa in opposizione all'autorità, così che quando questa scompare Bart perde la sua identità.

BART - Lisa, tutti in città si comportano come me. Perché mi fa tanto schifo allora?
LISA - Semplice. Ti sei definito un ribelle. In assenza di una sovrastruttura repressiva la tua nicchia nella società è stata incorporata.
BART - Capisco.
LISA - Da quando è arrivato quel tizio dell'autoaiuto tu hai perso la tua identità tra le crepe della nostra società pizza pronta, cotto in un'ora, latte liofilizzato.
BART - Qual è la risposta?
LISA - Questa è la tua occasione per sviluppare una nuova e migliore identità. Posso suggerire di far da ciabattina allegra?
BART - Buona idea. Dimmi cosa devo fare.
(Il fanciullo interiore di Bart)

Questo è il pericolo di scivolare nel nichilismo passivo.

(da Mark T. Conard, Così parlò Bart: Nietzsche e la virtù della cattiveria, in I Simpson e la filosofia)

giovedì 16 febbraio 2012

la spinta morale di marge

Marge risulta la più stabile pietra di paragone della moralità. Per risolvere i suoi dilemmi morali, Marge lascia semplicemente che la ragione guidi la sua condotta verso un calibrato e ammirevole bilanciamento tra gli estremi. Aristotele descrive le virtù come giusto mezzo tra due estremi viziosi, uno per eccesso e uno per difetto, e Marge è una persona genuinamente coraggiosa, non una temeraria; per quanto riguarda la temperanza tende a essere più spartana che indulgente eppure non è spilorcia ma generosa tanto quanto la condizione finanziaria instabile della sua famiglia glielo permette; non è opprimente ma non è neanche permissiva. Marge è moderata in tutto ciò che fa: proprio come Aristotele comprende l’importanza del giusto mezzo per una vita virtuosa e agisce scegliendo un bilanciamento tra gli estremi viziosi.
Nonostante la virtù sia sfuggente, Aristotele crede che per chi la trova la ricompensa sia molto alta. Come afferma all’inizio dell’Etica Nicomachea, il fine ultimo della vita umana è la felicità (eudaimonia, distinta dal piacere) e Aristotele afferma che le virtù sono desiderabili perché promuovono la felicità a lungo termine di coloro che le possiedono. Non va frainteso come un mero appello ai propri bisogni egoistici, perché l’uomo è un animale sociale e la sua felicità a lungo termine dipende in gran parte dalla famiglia e dagli amici. Non possiamo raggiungere l’eudaimonia senza l’aiuto degli altri e quindi molte virtù hanno valore proprio perché ci aiutano a coltivare legami profondi con parenti e amici, legami che sono indispensabili per vivere bene. La felicità di Marge ne è un esempio. Ciò che conta di più per lei è il benessere di suo marito e dei suoi figli. È quindi attraverso la felicità della sua famiglia che Marge raggiunge la propria eudaimonia. Vivendo la sua vita secondo le virtù aristoteliche, Marge crea relazioni sociali forti che la rendono profondamente felice.
Secondo Aristotele «è evidente che nessuna delle virtù etiche sorge in noi per natura». Tuttavia abbiamo un’abilità naturale nell’acquisire la virtù attraverso l’abitudine: «Compiendo cose giuste diventiamo giusti, compiendo cose moderate, diventiamo moderati, facendo cose coraggiose, coraggiosi». Le persone virtuose possono quindi rappresentare importanti modelli per il nostro sviluppo morale. Anche Marge sa quanto è importante il suo modello per lo sviluppo morale di Lisa e quello più lento e più disordinato di Bart.
Marge segue la ricetta aristotelica della felicità e della vita morale, e con grande successo. Il bene che cerca di fare quando prende le decisioni è il bene della sua famiglia e quindi il suo. Non si può negare che Marge sia dotata di virtù e neanche che da queste le derivi la felicità. A Marge piace essere coraggiosa, onesta e temperante perché queste qualità l’aiutano ad aiutare la sua famiglia. La sua felicità giustifica la sua vita di virtù aristotelica.

(da Gerald J. Erion e Joseph A. Zeccardi, La spinta morale di Marge, in I Simpson e la filosofia)


mercoledì 15 febbraio 2012

homer e aristotele

Aristotele ci ha fornito una categorizzazione logica di quattro tipi di carattere. Abbiamo il virtuoso, il continente, l’incontinente e il vizioso.
Se Lisa è virtuosa, i suoi desideri andranno di pari passo con la sua giusta decisione e la sua giusta azione. Lenny, che è continente, è capace di dare seguito con l’azione alla sua decisione, ma lo fa andando contro i suoi desideri. L’incontinente è capace di formulare la decisione corretta su cosa fare, ma la sua volontà è debole: Bart soccombe al proprio desiderio e non agisce in modo adeguato. Per quanto riguarda il vizioso, non abbiamo invece né lotta contro i propri desideri né debolezza di volontà, perché la decisione del vizioso è moralmente sbagliata e i suoi desideri l’assecondano pienamente: Nelson è vizioso.
La ragione gioca un ruolo cruciale. Il virtuoso non può essere stupido o ingenuo. Deve possedere capacità di ragionare criticamente che gli permettano di distinguere le differenze nelle situazioni e quindi di essere capace di reagire di conseguenza. Sul ruolo della ragione pratica (phronesis) Aristotele insiste molto: se uno fosse virtuoso per istinto, non possiederebbe la virtù “propriamente detta” ma al massimo la virtù “naturale”. Secondo Aristotele «occorre che chi compie [le azioni] lo faccia in una determinata disposizione d’animo, cioè innanzitutto che siano compiute consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di esse stesse, in terzo luogo con volontà ferma e immutabile» (Etica Nicomachea, 1105a30-1105b). L’agente deve sapere che la sua azione è virtuosa, deve agire volontariamente e deve farlo perché l’azione è virtuosa.
Homer rispetto ai suoi appetiti corporei non solo non è virtuoso, ma è decisamente vizioso. È anche un bugiardo patentato. È inoltre insensibile ai bisogni e alle pretese degli altri. Anche le sue abilità di padre e marito lasciano molto a desiderare. Inoltre gli manca la sola virtù intellettuale necessaria a un carattere etico, ovvero la phronesis, la saggezza pratica, la facoltà di muoversi nel mondo con intelligenza, con moralità e con una meta in vista. A Homer sembrano mancare persino le più minime capacità di inferenza, ha capacità di ragionamento minime. Non dobbiamo tuttavia essere troppo duri con Homer, perché qualche volta agisce in modo ammirevole: si dimostra affettuoso e amorevole, in certe occasioni mostra anche del coraggio e dà prova di gentilezza. In alcuni momenti sembra persino rendersi conto dei propri limiti.
Cosa dobbiamo pensare di tutto questo? Non è un modello di virtù, ma certamente non è malevolo. La reazione più dura che abbiamo nei suoi confronti è di pietà. L’educazione, la famiglia, il gene dei Simpson, c’è ben poco che Homer possa fare per migliorarsi. Non ha la stabilità di carattere che contraddistingue il virtuoso: infatti, anche se a volte Homer agisce in modo corretto, le ragioni per cui lo fa in genere sono sballate, o quanto meno ambigue (dobbiamo anche ricordare che in molti casi in cui Homer fa la cosa giusta, deve combattere contro i suoi desideri di fare altrimenti, e che a volte, nonostante sappia cosa dovrebbe essere fatto, sceglie di fare la cosa sbagliata, esibendo debolezza di volontà).
Homer non è virtuoso. Quando si va sul cibo e le bevande cade apertamente nel vizio e nelle altre sfere dell’azione umana ondeggia sempre tra continenza e incontinenza.
La qualità di Homer è la sua “umanità a tutto tondo”, che comprende l’amore per la vita e per il godimento della stessa, nei suoi elementi di base, senza dare troppo peso, se non nessuno, a ciò che pensa la gente, la mancanza di malvagità nel suo comportamento da bambino, l’essere aperto, onesto, persino brutale su chi lui è, cosa vuole e cosa pensa degli altri. Homer ha un tratto degno di ammirazione perché nonostante i suoi mezzi finanziari ed economici modesti, nonostante viva in una città come Springfield, riesce a conservare il suo amore per la vita.

(da Raja Halwani, Homer e Aristotele, in I Simpson e la filosofia)



lunedì 13 febbraio 2012

kyle il filosofo

Kyle in South Park lotta per trovare la cosa giusta da fare in ogni situazione, cerca di trovare e comprendere la vita buona, la vita che deriva dal fare la cosa giusta, la vita che dà senso alla persona che la vive. Come Socrate, Kyle non riesce a trovare la felicità seguendo la tradizione.
Nell’episodio Il racket dei dentini, quando i ragazzi scoprono che la fatina del dentino non esiste, Kyle rimane shoccato e sprofonda sempre di più nello scetticismo: se non può fidarsi della sua fonte di giustificazione, poiché i suoi genitori possono mentirgli su tutto, non può dire con certezza di conoscere alcunché. Potrebbe essere tutto “inventato” quindi “niente è reale”.
Per prima cosa Kyle inizia a dubitare della realtà di altre persone che in precedenza pensava fossero reali. Poi inizia a chiedersi se anche lui sia reale. Per quanto ne sa, Kyle potrebbe condurre una vita di illusione come Neo in Matrix. Senza un modo per giustificare le sue credenze, Kyle è incapace di trovare alcuna certezza sul mondo, compreso se stesso.
Kyle arriva però, alla fine, alla stessa conclusione di Cartesio: «Sapete, oggi ho imparato una cosa. Vedete, la base di ogni ragionamento è l’autoconsapevolezza della mente. Ciò che pensiamo, gli oggetti esterni che percepiamo sono come attori che entrano ed escono di scena. Ma la consapevolezza, che è il palcoscenico stesso, è sempre dentro di noi».

(da William J. Devlin, La passione filosofica dell’ebreo. Kyle il filosofo, in South Park e la filosofia)

domenica 12 febbraio 2012

farsi crescere la barba

Come sottolinea Tolstoj, la forza di Karataev, la sua accettazione della vita perfino nei suoi aspetti più distruttivi, gli derivava dal fatto che, essendosi lasciato crescere la barba, "sembrava aver gettato via tutto quello che gli era stato imposto – tutto ciò che era militare e a lui estraneo – ed era ritornato ai suoi antichi costumi contadini". Così era diventato, per Pierre, una "personificazione eterna dello spirito di semplicità e di verità", un nuovo Virgilio che lo avrebbe condotto fuori dall'inferno della città bruciata.
 
(George Steiner, Tolstoj o Dostoevskij)



sabato 11 febbraio 2012

c'è un übermensch tra i watchmen?

L’oltreuomo annunciato da Nietzsche non è amorale come il Comico, che si delizia dei suoi impulsi distruttivi e antisociali, non è il culmine del nichilismo ma il suo superamento. Il Comico ha creato se stesso sull’immagine di un mondo brutale e senza significato, ma la sua posa da commediante lo rende definitivamente incapace di affermare alcunché. Benché il Comico abbia affrontato il nichilismo, è incapace di andare oltre, di creare, traendo invece piacere dalla distruzione.
Rorschach ha guardato nell’abisso del nichilismo, ma è uscito da questo confronto auto-impoverito e ossessionato, incapace di affrontare la morte di Dio e ancorandosi ai suoi valori conservatori e reazionari, negando e non affermando.
Il Dr. Manhattan ha letteralmente creato se stesso ed è andato oltre la credenza in valori oggettivi, ma il suo fatalismo prosciuga la sua vita da ogni motivazione. Egli non sceglie veramente mai nulla, non è né creativo né affermativo.
Ozymandias coscientemente pianifica di creare se stesso, acquisendo conoscenze e abilità e allenandosi, dando prova di aver ordinato il suo corpo e la sua mente secondo un piano artistico. Ma le sue azioni in definitiva si conformano all’utilitarismo.
Nessun vero oltreuomo, dunque, tra i Watchmen.



venerdì 10 febbraio 2012

vedete, oggi ho imparato una cosa

Esiste una distinzione tra ragioni prudenziali e ragioni probatorie: le prime sono fondate solo su una buona ragione ma non hanno la benché minima prova che le supporti, si ha solo l’interesse a crederci.
Forse dovremmo avere solo credenze che si basano su ragioni probatorie, ma cosa c’è di male nelle ragioni prudenziali? C’è che le credenze infondate possono portare a conseguenze dannose. Nell’episodio di South Park  Super Migliori Amici coloro che credono si sentono bene grazie alle loro credenze, queste danno loro speranza e consolazione; tuttavia, tali credenze rimangono estremamente pericolose. Un secondo tipo di danno è la debolezza e la pigrizia mentale: ogni volta che crediamo in base a ragioni prive di valore, indeboliamo le nostre capacità di autocontrollo, di messa in dubbio, di soppesare equamente e imparzialmente l’evidenza; quindi, sebbene una credenza infondata non causi immediatamente danni, essa indebolisce la mente.

Nell’episodio Il più grande buffone dell’universo John Edward chiede a Stan: «Tutto quello che racconto alla gente dà loro speranza. È per questo che mi chiami buffone?». La risposta di Stan, magnifica: «Le domande della vita sono toste: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Ma se si continua a credere a dei ciucciapalle come te non troveremo mai delle risposte a queste domande. Tu non dici solo bugie, tu rallenti il progresso dell’umanità, tu sei un buffone». A questo fa seguito un discorso fantastico che questa volta Stan tiene davanti al pubblico composto da coloro che credono a Edward: «Vedete, oggi ho imparato una cosa. All’inizio pensavo che voi foste degli stupidi dato che davate retta a questo buffone. Ma ho capito che lo fate perché siete spaventati, vi fa paura la morte. Lui vi dà la sua comprensione. Voi volete credergli perché vi è di aiuto. Trovate confortante il pensiero che i vostri cari aleggino intorno a voi. Ma è questo quello che volete? Magari come anime essere costretti a parlare con questo coglione? La verità è che questi sono solamente dei trucchetti. E qualsiasi cosa accada nell’aldilà sarà sempre più sorprendente di questo buffone».

(da Henry Jacoby, Vedete, oggi ho imparato una cosa. Stan Marsch e l’etica della credenza, in South Park e la filosofia)

giovedì 9 febbraio 2012

altri frammenti di un discorso amoroso

Il diritto di proprietà è la rivendicazione dell'amore (quantomeno, di ciò che si chiama così). Si può decifrare la rivendicazione vendicativa di questo diritto attraverso tutte le manovre di appropriazione di cui il cosiddetto "amore" dispiega la strategia: l'amore che è egoismo, gelosia che cerca solo il possesso.

Non cedere alla prossimità, all'identificazione, alla fusione o alla permutazione tra me e te. Mettervi, lasciarvi piuttosto, rispettarvi una distanza infinita.

Forse, un giorno, qui o là, chi mai lo sa, qualcosa può accadere tra due che si ameranno, e si ameranno d'amore (è ancora la parola giusta?) in tale maniera che l'amicizia, per una sola volta, forse, per la prima volta (altro forse), per la prima e unica volta, dunque per la prima e ultima volta (forse, forse) diventerà il nome proprio, la parola giusta per ciò che allora sarebbe successo: tra due, ecco la condizione, "due persone".

Dove non posso nulla, dove io decido di ciò che non posso non decidere, liberamente, necessariamente, ricevendo fin nella mia vita il battito del cuore dell'altro. Non diciamo soltanto il cuore, ma il battito del cuore: quel che questo cuore riceve, istante dopo istante, da un'istante all'altro, come venuto ancora da un altro dell'altro al quale è ugualmente consegnato, quel che questo cuore forse riceverà, con un impulso ritmico, è ciò che si chiama il sangue, e questo sangue la forza di arrivare.

(Jacques Derrida, Politiche dell'amicizia)

mercoledì 8 febbraio 2012

fastidiosa filosofia

Nell'introduzione al "fastidioso" South Park e la filosofia viene immediatamente ribadito che a coloro che pensano di avere “la verità in tasca” bisogna far abbassare la cresta, poiché, dopotutto, la percezione che le persone hanno della verità non è altro che una percezione, ed è giusto ridere di loro, non considerando alcuna credenza talmente sacra da non metterla mai in dubbio – o da non riderci sopra. Questa sembra essere la dichiarazione d'intenti tanto della serie televisiva qui presa in esame, quanto del saggio stesso. South Park è fa fa filosofia e va preso sul serio quindi,... 'pito?
Ma non è eccessivo e blasfemo l'umorismo della serie? Se però è vero – come sostiene il personaggio del film Seven John Doe  – che «per farti ascoltare non è più sufficiente battere sulla spalla del tuo vicino, devi fare scoppiare una bomba», allora tale umorismo può shoccare, sconvolgere, stimolare e indurre le persone a pensare e a parlare. Una società in cui si conversa di più e in cui vi è un maggiore scambio di idee è, a conti fatti, più felice di una società in cui vi è meno conversazione e dialogo sociale. Quindi, è giusto ridere di e con South Park – e del resto, nell’opera teatrale Le nuvole di Aristofane ci sono tante battute sui peti quante ce ne sono in un tipico episodio di Trombino e Pompadour in South Park.
Quindi scendiamo liberamente a South Park per interrogarci su questioni etiche (quali sono i valori morali giusti?), politiche (la satira e l'ironia, anche la più blasfema, possono essere una difesa della democrazia, di una società aperta e antitotalitaria?), esistenziali (la vita ha senso o è assurda come le ripetute morti di Kenny?), metafisiche (quali sono i criteri per stabilire l'identità personale? Come è possibile lo scandalo del male nel mondo? Come si può giustificare la banale malvagità di Cartman?), filosofiche in generale (perché e a cosa credere? si interroga nelle sue dubbiose e cartesiane meditazioni Kyle; quali sono le possibilità e le implicazioni dell'intelligenza artificiale? Qual è il rapporto tra fede e ragione? Come arrivare alla verità e alla conoscenza, forse con i socratici dialoghi di Kyle e Stan?).

martedì 7 febbraio 2012

contingenza, ironia, solidarietà: la filosofia dei simpson

Oltre a tentare – e in maniera originale e pertinente – l'accostamento dei principali personaggi della serie ad aspetti specifici delle filosofie dei più importanti pensatori della storia (Homer e Marge visti sotto la lente dell'etica aristotelica, Bart paragonato all'oltreuomo nietzschiano, Lisa presentata da una prospettiva kantiana) e l'analisi filosofica di alcuni classici e ricorrenti temi simpsoniani (il male e la felicità, l'antintellettualismo) – dimostrando di essere un testo divertente per chi ama la serie tv de I Simpson, profondo per chi si interessa di filosofia, profondamente divertente per chi frequenta entrambi gli ambienti –, I Simpson e la filosofia propone anche una spiegazione possibile sul successo de I Simpson, che sono una serie che ti premia se le presti attenzione: i riferimenti sia alla cultura alta sia a quella popolare tessono un’intricata trama che necessita più visioni e la massima attenzione. Guardando I Simpson, e più volte, proviamo quindi piacere estetico e soddisfazione perché in qualità di spettatori ci piace riconoscere, capire e apprezzare le allusioni. Il pubblico si diverte a partecipare al processo creativo per la sua qualità ludica che invita a giocare. Uno dei più importanti effetti estetici che l’allusione può creare è “coltivare l’intimità” e forgiare la comunità, rafforzare il rapporto tra autore e pubblico che diventano membri di un club con parole d’ordine segrete.
Inoltre, altra caratteristica vincente de I Simpson, è l'iper-ironia.  La serie usa lo humour non per impartire lezioni morali, anzi I Simpson probabilmente non impartiscono un bel niente, dato che il meccanismo dello humour della serie propone posizioni morali solo per poterle indebolire in un secondo momento. Ma questo processo di indebolimento opera a un livello così profondo da impedirci di considerare la serie semplicemente cinica, poiché riesce a indebolire anche il proprio cinismo. E questo processo costante di indebolimento è ciò che si può intendere per “iper-ironismo”, che filosoficamente si può far risalire alla versione rortiana di Derrida, al consiglio ai filosofi di considerare se stessi partecipanti storicamente consapevoli e contingenti di una conversazione, invece che ricercatori quasi scientifici. Rorty, una volta convinto della tesi di Derrida sulla non-esistenza della verità filosofica trascendente, ha ristrutturato la filosofia come conversazione storicamente consapevole che in gran parte consiste nella decostruzione delle opere del passato. E partecipare a questa conversazione consapevolmente contingente e auto/iper-ironica è quello che sembrano fare I Simpson. I membri della cui famiglia, alla fine di ogni episodio, si vogliono bene e riescono sempre a trasmetterci la forza pura dell’amore irrazionale (o non razionale) di esseri umani per altri esseri umani, partecipando e dando prova di quella solidarietà che – per lo stesso Rorty – è, forse, l'unico valore non ironicamente decostruibile, non meramente contingente ma umanamente universale.

lunedì 6 febbraio 2012

filosofia nel juke-box

Nel saggio Tormentoni! Filosofia nel juke-box, Peter Szendy tenta di svelare l'arcano meccanismo con cui i tormentoni della musica pop producono attraverso il loro ascolto una inebriante, irrazionale e invincibile identificazione: «la più potente delle tentazioni provocata dal ritornello della canzone popolare» è quella di «avvolgersi, come in un vecchio cappotto, nella situazione che essa ci ricorda» (Benjamin). La canzone, quando prende la forma del motivetto da fischiettare e da canticchiare, è il genere per eccellenza che accompagna i nostri giri, le nostre azioni, le nostre passeggiate quotidiane.
Mentre l’unico e il cliché, l’incomparabile e l’interscambiabile, la psiche e il mercato, il singolare e il banale, sembrerebbero termini inconciliabili e incompatibili, i tormentoni musicali ci svelano inaspettatamente una paradossale e vertiginosa esperienza unica pur nella ripetizione e nella generalità dello stereotipo perché «ogni spettatore unico deve decidere da sé, deve fare da sé» (Kierkegaard). Il cliché, nella sua banalità interscambiabile, è tuttavia ogni volta unico per ognuno. Proprio quando, ascoltandoli, più nulla sembra possibile, i tormentoni vengono improvvisamente a snidare in noi ciò che di più segreto custodiamo: un momento passato, un istante che ci è caro, un’emozione o una pulsione inconfessabile, che appartengono solo a noi.
La melodia ossessiva, assillante (haunting) è come un fantasma che ritorna – con una singolare forza di apparizione e di reiterata irruzione (andirivieni spettrale) – a infestarci, come un tarlo o un virus nell’orecchio che non smette di riprodursi in noi, provocando una certa entusiasmante saturazione: cioè degli ingorghi e intasamenti nella circolazione interiore della nostra psiche, ma anche degli slanci di entusiasmo, dei voli lirici di un’incomparabile forza emotiva. Come dei fantasmi, come degli spettri, queste melodie vengono a tormentare: esse sono tormentoni, appunto, ossia grandi tormenti, ritornelli che abitano e assillano la vita di colore ai quali incessantemente ritornano.
I tormentoni hanno la forza di trascinamento e di raccoglimento propria degli inni: sono un inno intimo, una sorta di Marsigliese della psiche, incontenibile, compulsiva, impossibile da fermare; in ognuno di noi giocano il ruolo di un’Internazionale per delle intime commemorazioni (si confondono, così, le frontiere tra privato e pubblico). I tormentoni, insomma, diventano degli inni capaci di veicolare un’intimità inconfessabile e singolare, pur essendo al tempo stesso delle merci musicali perfettamente comuni, assolutamente equivalenti e indifferenti.
I tormentoni si fanno carico di ciò che si è cristallizzato in quanto vita o tratto di vita: ciò che ha preso forma diventando uno, unico, come una proprietà incomparabile. Un istante, un’estate, un anno divenuti incomparabilmente nostri. Quello che un gran numero di tormentoni canta e ci fa cantare è proprio la fama o la gloria di un momento spesso inconfessabile, in ogni caso singolare. A tutti noi il tormentone canta che… ah, no! non toccherà a me, io non sparirò certo così. Oh no, not I, I will survive. Il tormentone si costituisce come struttura di autoconservazione, esso si fa carico dell’affetto di ogni istante unico per ripeterlo all’infinito, capitalizza il tempo vissuto, qualsiasi esso sia, e quando ritorna quel momento singolare che il tormentone commemora, nella sua indifferente fedeltà a tutto e a niente, questo momento ritorna accresciuto degli interessi nostalgici di un io c’ero, ero lì, ecco ciò che ho vissuto come nessuno mai, ciò che è stato e che non sarà più. Nostalgia, malinconia di tutti i tormentoni.

domenica 5 febbraio 2012

del diritto alla pop filosofia

More about DerridaDopo le splendide undici tesi de La decostruzione del politico, Simone Regazzoni torna ad affrontare il tema del rapporto tra la politica, la democrazia e la filosofia della decostruzione di Jacques Derrida nel breve saggio Derrida. Biopolitica e democrazia
In questo saggio Regazzoni propone nuovi percorsi di lettura tra i testi di Derrida intorno al tema della democrazia a-venire, impossibile – non in senso negativo, però – apertura nel cuore stesso di una fantasmatica sovranità di «uno spazio di im-potere che solo ha la forza di esporsi incondizionalmente all'evento dell'altro», debolezza senza potere, ma niente affatto senza forza, di «esposizione a ciò che viene e a chi viene, forza di rendersi vulnerabili all'altro, di lasciarlo venire prima ancora di farlo venire». Una condizione, quella della democrazia come puro spazio libero, che il filosofo francese chiama "messianico senza messianismo" – cioè non che sospende o rinvia all'infinito il momento del suo compimento, ma piuttosto che segnala «instancabilmente i rischi, politici, di questi fantasmi messianici di compimento che si condensano nel mito di una società interamente riconciliata» – e che definisce autoimmunitaria, perché, appunto, di vulnerabilità esposta e autodecostruttrice che permette il rischio di aprire il sé all'altro, rischio del peggio e al contempo chance dell'avvenire: «è vero che questo rischio può essere mortale: ma senza rischio c'è solo la morte».
Regazzoni è uno di quelli che ha accettato «l'ingiunzione a scrivere altrimenti, a mettere in gioco il proprio godimento nella parola rompendo radicalmente con le regole della buona scrittura filosofica» – ingiunzione che sembra un po' essere l'eredità di una scrittura, com'è quella di Derrida, che si colloca «nello spazio del godimento di una parola che "non vuole dire nulla" e non si sarà mai piegata alla legge paterna del senso» –, come dimostrano i suoi ottimi saggi/esperimenti/ibridazioni di pop filosofia su Dr. House, Harry Potter e Lost. Sa essere essoterico e popolare, come pure ostico ed esoterico, anche in questo rispondendo all'ingiunzione derridana di democratizzare la filosofia, perché è impossibile dissociare democrazia e filosofia: «non solo è auspicabile, ma è necessario per la decostruzione confrontarsi con graphic novel, serie TV, romanzi di genere, video games, proprio a partire da una decostruzione dell'opposizione gerarchica cultura alta/cultura bassa». 
E in conclusione, proprio nell'ultima nota finale, Regazzoni ci lascia con l'allusione al suo prossimo e provocatorio libro, irriverente e inedito anche nello stile: Tutto quello che avreste voluto sapere sulla filosofia e non avete mai osato chiedere a una sit-com. Diatriba a New York. A Times Square, il neo-cinico Martin H. importuna i poveri passanti con questioni filosofiche classiche affrontate attraverso il ricorso ad argomenti "bassi" e popolari, dalla spiegazione di che cos'è la filosofia attraverso un romanzo di Haruki Murakami in cui una giovane prostituta fa sesso citando Hegel (come già segnalato qui nel blog, visto che Murakami è una delle mie passioni letterarie), alla questione dello sfruttamento del lavoro marxiano illustrato con Living' on a Prayer di Bon Jovi.

sabato 4 febbraio 2012

il fantasma della sovranità

Il termine greco phántasma rimanda a significati quali "far vedere", "mostrare", "ingannare", ed anche "spettacolo", "pompa", "fasto", "splendore". «Il fantasma allude dunque» – scrive Simone Regazzoni in Derrida. Biopolitica e democrazia – «a una dimensione di visibilità spettacolare intangibile di un corpo disincarnato, alla sua visibilità come apparizione, mostrazione, messa in scena, spettacolarizzazione». Il filosofo francese Jacques Derrida fa uso del termine "fantasma" in riferimento alla sovranità, intendendo con ciò «sia l'apparire di un corpo disincarnato, il suo mostrarsi spettacolare, sia una costruzione immaginaria, di finzione», ovvero una sorta di freudiano totem, un sostituto, una «marionetta-feticcio-fallo», una illusione o fiction narrativa «esplicitamente fallica: una fiction in cui è in gioco un'erezione assoluta, colossale, che supera tutte le altre. D'altra parte il termine sovrano viene dal latino superanus: colui che supera tutti». 
È Derrida stesso a stabilire la corrispondenza tra fallo e marionetta: «Come sapete, il phallos, che non è il pene, indicava in un primo tempo in Grecia e a Roma, in occasione di alcune cerimonie, il simulacro, la rappresentazione figurata di un pene in erezione, duro, rigido proprio come una bambola gigantesca e confezionata artificialmente. Il phallos è, esso stesso, una sorta di marionetta. Se il fallo è automa e non autonomo, se ha qualcosa, nella sua tensione, nella sua durezza, di involontario e di meccanico, e che lo sottrae alla responsabilità dell'uomo, è il proprio dell'uomo oppure, già reciso dall'uomo, è un "qualcosa", una cosa, un cosa inumano? Se quindi il phallos, l'erezione fallica, è una macchina ma anche l'attributo della sovranità, si sarebbe tentati di dire che questo attributo della sovranità, della sua maestà, della sua grandezza o della sua altezza eretta, questo attributo del sovrano non è un attributo dell'uomo, del proprio dell'uomo, né d'altra parte di nessuno, né dell'animale né di Dio» (La bestia e il sovrano. Volume 1).
«La sovranità, in altri termini,» – conclude Regazzoni – «non esiste – se non come fantasia o fiction fallica e teologico-politica».

Irriverentemente (?) accosto a questa analisi il manga Masurao, scritto e disegnato da Shinichi Sakamoto, in cui si combatte per il titolo del più possente tra gli uomini, titolo cui ogni maschio aspira perché legato ad una spropositata virilità.


venerdì 3 febbraio 2012

perché si preferisce l'erezione del più grande?

All’origine la parola colossos non ha necessariamente il valore di grande, gigantesco, fuori misura. Solo più tardi assume il senso del passaggio dalla taglia, sempre piccola e limitata, alla esagerazione del fuori-taglia, all’immenso.
Si avvicina così al sentimento del sublime, che non esiste se non è passaggio al di là del limite, eccesso della taglia e della giusta misura, al di là di ogni elevazione.
Colossale e sublime sono una sfida alla misura e al controllo della mano e dello sguardo, sono l’enorme, l’immenso, l’eccessivo, lo stupefacente, l’inaudito, talvolta perfino il mostruoso. Sono il quasi impresentabile, l’osceno.
Il piacere del sublime non è quindi nella contemplazione della bellezza, ma ha un’origine solo indiretta: viene in seguito all’inibizione, all’arresto, alla soppressione che trattengono le forze vitali; questa sospensione è seguita da una improvvisa effusione, da un riversarsi tanto più forte delle forze vitali. Lo schema qui è simile a quello di una diga: la chiusura o la paratoia interrompe un flusso, l’inibizione fa gonfiare le acque, l’accumulazione fa pressione sul limite; la pressione massima dura solo un attimo, il tempo di un batter d’occhio, durante il quale il passaggio è completamente ostruito e la chiusura è assoluta; poi la diga si rompe ed ecco l’inondazione.
Ma perché mai il sublime e il colossale sono grandi e non piccoli? Perché l’assolutamente grande e non l’assolutamente piccolo?
La preferenza non può che essere soggettiva. Nessuna matematica può giustificarla: se volessimo affidarci soltanto alla valutazione matematica, saremmo privi di ogni metro fondamentale o primo. La valutazione delle grandezze è, in ultima istanza, estetica: cioè è soggettiva e non oggettiva. È piccolo, ed ha quindi un potere relativo, ciò che può essere preso ad occhio, preso in osservazione: è questa la cosa fondamentale quando si tratta della valutazione delle grandezze. Allora il colossale e il sublime saranno forse qualcosa che non può essere presa in mano o ad occhio.
È la valutazione estetica, dunque, la valutazione prima e fondamentale. E questa misura prima (soggettiva, sensibile, immediata, viva) deriva dal corpo. Ed ha il corpo come primo oggetto. È il corpo che si erige a misura. È il corpo che fornisce l’unità di misura misurante e misurata: del più piccolo e del più grande possibile, del minimo e del massimo.
È il corpo. Il corpo dell’uomo, cioè, come è ovvio, senza bisogno di dirlo. È a partire da lui che l’erezione del più grande si preferisce.
Tutto viene commisurato alla taglia del corpo. Dell’uomo. È a questa unità di misura fondamentale che il colossale deve essere messo in relazione.

(da Jacques Derrida, La verità in pittura)

giovedì 2 febbraio 2012

è lecito raddrizzare questo mondo alla deriva?

Il personaggio di Watchmen Rorschach sembra esemplificare la teoria retributiva della punizione, secondo la quale il male deve essere punito non perché così facendo il mondo sia un luogo migliore, ma semplicemente perché è male e merita una punizione. Ma perché il male deve essere punito? Chi determina cosa è male? Chi determina qual è la punizione appropriata o adatta? E nella nostra ricerca di dispensare la meritata giustizia, non rischiamo di diventare noi stessi i mostri contro cui combattiamo? È solo vendetta o c’è qualcosa di nobile nel ripagare un criminale per il suo crimine?
Secondo il retribuzionismo la giustificazione per punire una persona è data semplicemente dal fatto che il ritorno di sofferenza per l’azione cattiva è in sé moralmente buono. È chiaramente una teoria non consequenzialista, non giustificata cioè dai risultati (riabilitazione, sicurezza o altri desiderabili risultati). Kant ha affermato che la punizione “deve sempre essere inflitta [al criminale] solo perché egli ha commesso un crimine” (La metafisica dei costumi), non per il bene stesso del criminale, non per il bene della società. Il criminale non deve essere trattato come semplice mezzo, non si possono usare le persone per gli scopi della società, “un essere umano non può mai essere trattato solo come un mezzo per gli scopi di un altro”. La punizione deve rispettare i criminali come agenti morali, cioè chi sbaglia deve essere riconosciuto responsabile delle proprie azioni, devono essergli riconosciute la dignità e il rispetto perché è autonomo. “La legge della punizione è un imperativo categorico, e guai a chi cercasse di fare in modo di liberare il criminale dalla punizione o di ridurne l’ammontare per possibili benefici che ciò potrebbe comportare, perché la giustizia cessa di essere giustizia se può essere comprata anche per qualsiasi prezzo” (Fondamenti della metafisica dei costumi).
La punizione ripara il tessuto sociale rotto dall’azione criminale, “è la cancellazione del crimine e la restaurazione della giustizia” (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto). È necessario punire perché valutiamo noi stessi e la società, perché rispettiamo l’intima dignità in ognuno di noi e desideriamo riaffermare questi valori su cui le nostre vite e la nostra società sono fondati. C’è molto più che vendetta.
Se Rorschach lasciasse proseguire Veidt con il suo piano, la giustizia sarebbe comprata, non servita. Rorschach rifiuta ogni compromesso, rifiuta di svendere la giustizia. “È meglio sacrificare la vita che rinunciare alla moralità. Non è necessario vivere, ma è necessario, finché viviamo, farlo onorevolmente” (Kant, Lezioni di etica).
La punizione è più che un rispondere al dolore col dolore, riguarda la restaurazione dell’ordine e l’affermazione di valori fondamentali. Ma chi determina una adeguata punizione? Rorschach è brutale e probabilmente noi non vogliamo spingerci così in là come lui. Egli è troppo sicuro e orgoglioso, è giudice, giuria ed esecutore insieme. Il problema col retribuzionismo non è l’idea ma la sua applicazione.



ShareThis