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lunedì 6 febbraio 2012

filosofia nel juke-box

Nel saggio Tormentoni! Filosofia nel juke-box, Peter Szendy tenta di svelare l'arcano meccanismo con cui i tormentoni della musica pop producono attraverso il loro ascolto una inebriante, irrazionale e invincibile identificazione: «la più potente delle tentazioni provocata dal ritornello della canzone popolare» è quella di «avvolgersi, come in un vecchio cappotto, nella situazione che essa ci ricorda» (Benjamin). La canzone, quando prende la forma del motivetto da fischiettare e da canticchiare, è il genere per eccellenza che accompagna i nostri giri, le nostre azioni, le nostre passeggiate quotidiane.
Mentre l’unico e il cliché, l’incomparabile e l’interscambiabile, la psiche e il mercato, il singolare e il banale, sembrerebbero termini inconciliabili e incompatibili, i tormentoni musicali ci svelano inaspettatamente una paradossale e vertiginosa esperienza unica pur nella ripetizione e nella generalità dello stereotipo perché «ogni spettatore unico deve decidere da sé, deve fare da sé» (Kierkegaard). Il cliché, nella sua banalità interscambiabile, è tuttavia ogni volta unico per ognuno. Proprio quando, ascoltandoli, più nulla sembra possibile, i tormentoni vengono improvvisamente a snidare in noi ciò che di più segreto custodiamo: un momento passato, un istante che ci è caro, un’emozione o una pulsione inconfessabile, che appartengono solo a noi.
La melodia ossessiva, assillante (haunting) è come un fantasma che ritorna – con una singolare forza di apparizione e di reiterata irruzione (andirivieni spettrale) – a infestarci, come un tarlo o un virus nell’orecchio che non smette di riprodursi in noi, provocando una certa entusiasmante saturazione: cioè degli ingorghi e intasamenti nella circolazione interiore della nostra psiche, ma anche degli slanci di entusiasmo, dei voli lirici di un’incomparabile forza emotiva. Come dei fantasmi, come degli spettri, queste melodie vengono a tormentare: esse sono tormentoni, appunto, ossia grandi tormenti, ritornelli che abitano e assillano la vita di colore ai quali incessantemente ritornano.
I tormentoni hanno la forza di trascinamento e di raccoglimento propria degli inni: sono un inno intimo, una sorta di Marsigliese della psiche, incontenibile, compulsiva, impossibile da fermare; in ognuno di noi giocano il ruolo di un’Internazionale per delle intime commemorazioni (si confondono, così, le frontiere tra privato e pubblico). I tormentoni, insomma, diventano degli inni capaci di veicolare un’intimità inconfessabile e singolare, pur essendo al tempo stesso delle merci musicali perfettamente comuni, assolutamente equivalenti e indifferenti.
I tormentoni si fanno carico di ciò che si è cristallizzato in quanto vita o tratto di vita: ciò che ha preso forma diventando uno, unico, come una proprietà incomparabile. Un istante, un’estate, un anno divenuti incomparabilmente nostri. Quello che un gran numero di tormentoni canta e ci fa cantare è proprio la fama o la gloria di un momento spesso inconfessabile, in ogni caso singolare. A tutti noi il tormentone canta che… ah, no! non toccherà a me, io non sparirò certo così. Oh no, not I, I will survive. Il tormentone si costituisce come struttura di autoconservazione, esso si fa carico dell’affetto di ogni istante unico per ripeterlo all’infinito, capitalizza il tempo vissuto, qualsiasi esso sia, e quando ritorna quel momento singolare che il tormentone commemora, nella sua indifferente fedeltà a tutto e a niente, questo momento ritorna accresciuto degli interessi nostalgici di un io c’ero, ero lì, ecco ciò che ho vissuto come nessuno mai, ciò che è stato e che non sarà più. Nostalgia, malinconia di tutti i tormentoni.

1 interventi:

Paolopaoli ha detto...

I tormentoni mi fanno venire sempre il mal di testa.

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