All’origine la parola colossos non ha necessariamente il valore di grande, gigantesco, fuori misura. Solo più tardi assume il senso del passaggio dalla taglia, sempre piccola e limitata, alla esagerazione del fuori-taglia, all’immenso.
Si avvicina così al sentimento del sublime, che non esiste se non è passaggio al di là del limite, eccesso della taglia e della giusta misura, al di là di ogni elevazione.
Colossale e sublime sono una sfida alla misura e al controllo della mano e dello sguardo, sono l’enorme, l’immenso, l’eccessivo, lo stupefacente, l’inaudito, talvolta perfino il mostruoso. Sono il quasi impresentabile, l’osceno.
Il piacere del sublime non è quindi nella contemplazione della bellezza, ma ha un’origine solo indiretta: viene in seguito all’inibizione, all’arresto, alla soppressione che trattengono le forze vitali; questa sospensione è seguita da una improvvisa effusione, da un riversarsi tanto più forte delle forze vitali. Lo schema qui è simile a quello di una diga: la chiusura o la paratoia interrompe un flusso, l’inibizione fa gonfiare le acque, l’accumulazione fa pressione sul limite; la pressione massima dura solo un attimo, il tempo di un batter d’occhio, durante il quale il passaggio è completamente ostruito e la chiusura è assoluta; poi la diga si rompe ed ecco l’inondazione.
Ma perché mai il sublime e il colossale sono grandi e non piccoli? Perché l’assolutamente grande e non l’assolutamente piccolo?
La preferenza non può che essere soggettiva. Nessuna matematica può giustificarla: se volessimo affidarci soltanto alla valutazione matematica, saremmo privi di ogni metro fondamentale o primo. La valutazione delle grandezze è, in ultima istanza, estetica: cioè è soggettiva e non oggettiva. È piccolo, ed ha quindi un potere relativo, ciò che può essere preso ad occhio, preso in osservazione: è questa la cosa fondamentale quando si tratta della valutazione delle grandezze. Allora il colossale e il sublime saranno forse qualcosa che non può essere presa in mano o ad occhio.
È la valutazione estetica, dunque, la valutazione prima e fondamentale. E questa misura prima (soggettiva, sensibile, immediata, viva) deriva dal corpo. Ed ha il corpo come primo oggetto. È il corpo che si erige a misura. È il corpo che fornisce l’unità di misura misurante e misurata: del più piccolo e del più grande possibile, del minimo e del massimo.
È il corpo. Il corpo dell’uomo, cioè, come è ovvio, senza bisogno di dirlo. È a partire da lui che l’erezione del più grande si preferisce.
Tutto viene commisurato alla taglia del corpo. Dell’uomo. È a questa unità di misura fondamentale che il colossale deve essere messo in relazione.
Si avvicina così al sentimento del sublime, che non esiste se non è passaggio al di là del limite, eccesso della taglia e della giusta misura, al di là di ogni elevazione.
Colossale e sublime sono una sfida alla misura e al controllo della mano e dello sguardo, sono l’enorme, l’immenso, l’eccessivo, lo stupefacente, l’inaudito, talvolta perfino il mostruoso. Sono il quasi impresentabile, l’osceno.
Il piacere del sublime non è quindi nella contemplazione della bellezza, ma ha un’origine solo indiretta: viene in seguito all’inibizione, all’arresto, alla soppressione che trattengono le forze vitali; questa sospensione è seguita da una improvvisa effusione, da un riversarsi tanto più forte delle forze vitali. Lo schema qui è simile a quello di una diga: la chiusura o la paratoia interrompe un flusso, l’inibizione fa gonfiare le acque, l’accumulazione fa pressione sul limite; la pressione massima dura solo un attimo, il tempo di un batter d’occhio, durante il quale il passaggio è completamente ostruito e la chiusura è assoluta; poi la diga si rompe ed ecco l’inondazione.
Ma perché mai il sublime e il colossale sono grandi e non piccoli? Perché l’assolutamente grande e non l’assolutamente piccolo?
La preferenza non può che essere soggettiva. Nessuna matematica può giustificarla: se volessimo affidarci soltanto alla valutazione matematica, saremmo privi di ogni metro fondamentale o primo. La valutazione delle grandezze è, in ultima istanza, estetica: cioè è soggettiva e non oggettiva. È piccolo, ed ha quindi un potere relativo, ciò che può essere preso ad occhio, preso in osservazione: è questa la cosa fondamentale quando si tratta della valutazione delle grandezze. Allora il colossale e il sublime saranno forse qualcosa che non può essere presa in mano o ad occhio.
È la valutazione estetica, dunque, la valutazione prima e fondamentale. E questa misura prima (soggettiva, sensibile, immediata, viva) deriva dal corpo. Ed ha il corpo come primo oggetto. È il corpo che si erige a misura. È il corpo che fornisce l’unità di misura misurante e misurata: del più piccolo e del più grande possibile, del minimo e del massimo.
È il corpo. Il corpo dell’uomo, cioè, come è ovvio, senza bisogno di dirlo. È a partire da lui che l’erezione del più grande si preferisce.
Tutto viene commisurato alla taglia del corpo. Dell’uomo. È a questa unità di misura fondamentale che il colossale deve essere messo in relazione.
(da Jacques Derrida, La verità in pittura)
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