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giovedì 27 gennaio 2022

la debilitata ragione del mondo

Per l'incontro mensile del gruppo di lettura che ormai da qualche anno organizziamo a scuola, il tema dell'appuntamento di gennaio è stato la letteratura italiana. Io ho scelto di leggere Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Trovandomi in una condizione simile a quella in cui l'autore, stando alla presentazione dell'edizione Garzanti, ha scritto il romanzo - parafrasando, lo ho letto a Prato nel ricordo non lontano di vissuti romani, rinverditi da recenti immersioni nella lettura e visione di Zerocalcare - mi sembrava fosse una buona scelta.

I delitti - un furto e, pochi giorni dopo, un omicidio - su cui si incentrano le vicende del romanzo avvengono nel palazzo degli ori, o dei pescicani, di via Merulana 219, scala A, piano terzo. Il commissario-filosofo Ingravallo, coinvolto nelle indagini, è subito presentato chiarendo l'opinione centrale e persistente che lo muove nel suo lavoro, quello secondo la quale andrebbe riformato il senso della categoria di causa, sostituendo alla causa le cause

Le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti.
Così, proprio così, avveniva dei "suoi" delitti. La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l'effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata "ragione del mondo". Come si storce il collo a un pollo.

Si tratta, quindi, di avere a che fare con un nodo o groviglio, o garbuglio, o gomitolo, con un pasticciaccio. E se il romanzo può considerarsi in ciò, secondo lo stesso Gadda, letterariamente concluso, perché il poliziotto capisce chi è l'assassino e questo basta, in esso però ogni ipotesi, ogni deduzione, per ben congegnata risulta offrire un punto debole, come una rete che si smaglia. E il pesciolino... addio! Il pesciolino della "ricostruzione" impeccabile. Nella ricostruzione dei fatti, quello spirito o demone che martella nelle tempie di chi indaga, le somme non si tirano a ragione, il colpevole non è smascherato. Questo infrangere lo schema del thriller, questa negazione e quasi dissoluzione parodica di un genere, è l'equivalente luogo della scrittura di un mondo la cui ragione è debilitata.

Altro aspetto interessante del romanzo è la scelta del dialetto, di uno strumento linguistico parlato o vissuto che per Gadda rappresenta, sottolinea la nota conclusiva del volume, un'insopprimibile esigenza etica e gnoseologica, in cui si fondono ansia di verità, affermazione della propria "autonomia del discernere", vocazione antiaccademica e sfiducia nelle possibilità della lingua-codice. In una breve nota in risposta a un'inchiesta del 1956 su Perché cinema e radio e scrittori ci parlano in romanesco?, Gadda argomenta:

Il romanesco ci ha offerto quella vivezza pittorica, quei liberi toni del parlato, quell'humor che arricchiscono di armoniche sapienti e profonde lo schematismo cachettico delle idee seriose.

Ecco quindi giustificato un espressionismo linguistico fatto di alterazione di s in z, rafforzamento delle consonanti iniziali, raddoppiamento intervocalico, rotacismo e voci tipicamente dialettali.

lunedì 24 gennaio 2022

la morte del tempo [2]

Saturno devorando a su hijo è una delle quattordici Pinturas negras, realizzate da Francisco Goya nella sua residenza di campagna fra la fine del 1820 e la metà del 1823. Un incubo denso di misteri, come ebbe a definirlo Baudelaire. Un'icona che evoca potentemente il legame inscindibile fra il tempo e la morte.

Le Pinturas negras hanno esercitato una grande influenza nella nascita e nello sviluppo dell'arte moderna. Del ciclo si è detto che esprime lo sconforto e la depressione personale dell'artista, alle prese con i malanni dell'età avanzata e con più generali condizioni di salute precarie, la delusione e l'allarme per l'orientamento autoritario del nuovo corso assunto dalla monarchia spagnola, l'inclinazione a tradurre in immagini gli incubi connessi con l'approssimarsi della morte.
Si deve riconoscere che mentre nessuna delle interpretazioni ora accennate sembra essere totalmente convincente, motivi quali quelli richiamati, spesso fra loro intrecciati, si possono effettivamente cogliere. Un comune denominatore può essere certamente individuato in quella tonalità emotiva dei dipinti, ottenuta facendo ricorso a una tecnica particolare e inconfondibile: bianchi sporchi, amalgamati a neri spessi come catrame, ocre fangose, violenti sfregi di rosso e giallo.
Altra caratteristica comune è la rottura dei tradizionali schemi rappresentativi ispirati all'ideale delle "belle forme". Figure deformate, corpi smembrati, sfondi tenebrosi, dettagli raccapriccianti.
Il baricentro del programma iconografico soggiacente alle Pinturas è costituito dalla raffigurazione di Saturno, come divinità della malinconia e della vecchiaia. Un Saturno col quale si identificava lo stesso Goya, o col quale l'artista intendeva stigmatizzare gli agenti dell'Ancien Régime. Un Saturno divoratore e al tempo stesso divorato, disperato e furente, angosciato e terrificante, spietato carnefice e insieme patetica vittima. Un Saturno attraversato da una violenza irrefrenabile, e insieme disarmato nell'ossuta vecchiezza delle membra. Un Saturno - infine - consumato da ciò che per oltre due millenni e mezzo era stato il suo ruolo di implacabile consumatore.

Del dipinto intitolato Saturno devorando a su hijo, si conoscono due precedenti importanti. Il primo è un disegno a matita realizzato dallo stesso artista spagnolo. Il secondo è un quadro di Peter Paul Rubens risalente al 1636, al quale Goya si sarebbe parzialmente ispirato, o che comunque avrebbe avuto la possibilità di vedere. 
Molto probabilmente il disegno precede il dipinto, anche se le differenze sono tali da far escludere che si tratti di uno schizzo preparatorio della pintura. Va in ogni caso sottolineato un aspetto che le accomuna, e nel contempo rende entrambe irriducibili ai moduli di rappresentazione tradizionali di Kronos: il dio non è accompagnato da nessun simbolo temporale, né da alcun altro segno convenzionale di riconoscimento. Salvo uno: il pasto cannibalico.
Già realizzando il disegno, dunque, Goya rompe radicalmente con la tradizione iconografica relativa a Saturno e ce lo presenta nella sola dimensione del dio cannibale.
In entrambe le opere emergono due rilevanti "anomalie". La prima riguarda la mancanza della falce, o di qualsiasi altro strumento che possa svolgere una funzione analoga. La seconda riguarda specificamente l'immagine di Saturno che divora.
Tutte le incisioni, compreso il quadro di Rubens, rappresentano i figli del dio come bambini quasi neonati, secondo quanto si ritrova nella narrazione di Esiodo. Goya, al contrario, introduce una figura giovanile che in nessun modo può essere qualificata come un bambino (Bozal, Pinturas negras).
Si può segnalare un primo e fondamentale aspetto relativo al Saturno raffigurato da Goya, vale a dire la discontinuità rispetto a una lunga e sostanzialmente ininterrotta tradizione iconografica. L'artista spagnolo converte Saturno in un vecchio che divora un giovane, in una frenesia orgiastica che deforma il volto e tutto il suo corpo. Siamo dunque in presenza di una figura spogliata di ogni riferimento meramente metaforico, non più destinata a rinviare ad altro, non investita di altro significato che non sia quello che il dipinto mostra in tutta la sua feroce evidenza: un uomo vecchio che divora il corpo di una giovane donna. Nel Saturno, Goya ha aperto un varco verso l'unico autentico "sfondo" - il nulla che la grande arte occidentale, nelle sue espressioni più lucide, aveva presentato al di sotto della messa in scena delle figure.
È questo il senso, ciò che resta del senso, del Saturno. È sorto ciò che sta al di sotto del linguaggio e del pensiero, al di sotto del loro mondo e delle loro illusioni, e tutto ciò non è altro che il rapporto fra preda e predatore, la vita che ha l'unica esigenza di distruggere la vita (Bonnefois, Goya, le pitture nere).
In Goya l'idea nasce a partire dall'immagine e per questa ragione è più difficile da cogliere. L'anteriorità dell'immagine rispetto al concetto balza evidente dal ciclo delle Pinturas negras, e in particolare dal Saturno. Del dipinto sono più le cose che ignoriamo, o comunque controverse, rispetto a ciò che si può considerare accertato: non sappiamo, anzitutto, quale fosse il titolo posto dall'autore; di conseguenza non possiamo neppure essere certi di ciò che il dipinto raffiguri. 
Nel tentativo di ritrovare il bandolo di una matassa assai intricata, a risultati significativi è possibile pervenire mettendo a confronto l'opera di Hogarth e quella attribuita a Goya. Il percorso concettuale che esse descrivono è esattamente l'uno l'opposto dell'altro. L'artista inglese ricapitola e accumula, con accuratezza perfino puntigliosa, tutti i dettagli che, sotto il profilo storico, sono stati aggiunti per descrivere il processo che conduce da Kronos alla morte attraverso chronos, quasi a volersi assicurare che il "messaggio" giunga forte e chiaro.
Nulla di questo ritroviamo nel dipinto di Goya. La cura posta da Hogarth nell'accumulazione pedante dei simboli del tempo si rovescia nella scelta di cancellarli altrettanto meticolosamente tutti. Ciò che balza fuori dall'opera con devastante incisività è il pasto cannibalico. Di ciò "parla" questa sconvolgente pintura.

In altre opere, a parte il Saturno, non sono pochi né di scarso significato gli elementi propriamente "saturnini", i quali confermano dunque un interesse non effimero né superficiale per la figura della divinità greco-latina. È il caso di Dos frailes, dove una figura demoniaca e cadaverica parla all'orecchio di un anziano provvisto di una folta barba bianca, il quale cammina sostenendosi con un bastone, manifestando chiaramente la sua età avanzata e la sua sordità. Questa immagine costituisce la rappresentazione pittorica tradizionale del dio Kronos ed è stata altresì generalmente interpretata come autoritratto di Goya ormai decrepito e incerto nel camminare (Hervàs Leòn, La Quinta de Goya y sus Pinturas Negras).
Un'immagine molto simile la ritroviamo in un disegno nel quale l'artista ha verosimilmente ritratto se stesso appoggiato a due bastoni, impossibilitato a camminare da solo, aggravato da un'età molto avanzata e da una salute malferma. Aun aprendo - "ancora imparo". Il vecchio cadente, incurvato sotto il peso degli anni, quasi nascosto alla vista da una grande chioma bianca ricongiunta a un'imponente barba incolta, di cui si coglie l'estrema difficoltà nel camminare - ancora impara.
Di questa citazione è stato ricostruito il percorso che, con tutta probabilità, mette in relazione Goya con la pittura dell'età moderna, dal Cinquecento (e forse anche molti secoli prima) fino alla fine del XVIII secolo.
Il titolo Ancora imparo ha la sua origine nella sentenza utilizzata da Platone e da Plutarco, mentre l'immagine di un vecchio appoggiato a due bastoni è in relazione con la stampa omonima di Girolamo Fagiuoli. Nella prima metà del secolo XVI era un luogo comune rappresentare Cronos come un anziano barbuto, vestito con una tunica e appoggiato a due bastoni, come risulta da una stampa di Marcantonio Raimondi. Più vicina nel tempo è la stampa di William Blake che illustrava il libro di Henry Füssli Lectures on Painting che Goya poteva conoscere. In essa si mostra Michelangelo Buonarroti appoggiato a un bastone (Matilla, Aun aprendo, in Goya: Luces y Sombras).
La ricostruzione è certamente utile, ma rischia di essere fuorviante se non viene completata con il riferimento alla fonte originaria. La citazione è completa solo se non si tiene separato il disegno dalla citazione, perché essi costituiscono un unico lemma, semplicemente articolato in una parte disegnata e in una parte scritta.
La frase riportata, di per sé, è solo la metà di una sentenza, che non risale affatto (se non in maniera derivata) a Platone, il quale si limita a citare la fonte originaria, e cioè Solone. L'espressione aun aprendo traduce aei pollà didaskomenos - "sempre molte cose imparando". Ma nella formulazione ellittica implicitamente rinvia a ciò che precede. E ciò che precede è gherasko - "invecchio". Il disegno va "letto" nella relazione organica fra l'immagine e la citazione: Goya cita per intero la sentenza di Solone, solo che la scinde in due linguaggi diversi e complementari, affidando alle parole scritte il "sempre imparando", e all'immagine del vecchio la malinconica confessione: "invecchio".
Anche per questa via è dunque possibile escludere che nel Saturno l'artista spagnolo abbia semplicemente "dimenticato" di raffigurare gli attributi che infallibilmente accompagnano la rappresentazione del dio. Se nel dipinto non compaiono i tradizionali simboli temporali, essi mancano perché una loro eventuale presenza renderebbe meno leggibile la chiave di interpretazione di Kronos-chronos che Goya intendeva rendere evidente. Mancano perché, ciò che resta, e balza dunque in primo piano, è un aspetto che non è riconducibile alla pluralità indistinta dei segni che scandiscono il passaggio da Kronos a chronos e poi alla morte.
Per Goya, Saturno è il dio cannibale, il tempo che tutto tutto divora e consuma. L'acquaforte di Hogarth segna il culmine di un processo di accumulazione di simboli temporali che hanno condotto al compimento - ma insieme anche alla dissoluzione - dell'immagine tradizionale del tempo. Dopo quell'esito, non è più possibile ornare l'immagine del tempo con attributi che ne addolciscano la forza devastatrice. Saturno compare in tutta la selvaggia ferocia del tempus edax, che non lascia alcuno scampo. Nessuna divagazione, nessun cedimento all'eufemismo della metafora, ma il tempo come potenza instabile e distruttiva, rappresentato nella sua brutale quintessenza del divoratore.

Ma il disegno esige un ulteriore approfondimento sul piano specificamente filosofico. Con uno scatto d'orgoglio, quel vecchio rivendica di essere ancora capace di imparare. Anzi, nella connessione fra il disegno e la citazione, Goya ci dice che la sofferenza gli ha insegnato.
Che la sofferenza [pathos] possa produrre conoscenza [mathos] è convinzione che affiora ripetutamente. Lo afferma Eschilo (Agamennone), ma una convinzione analoga è espressa anche da Sofocle (Elena, Edipo re). Il pathos è dunque il tramite di un'esperienza che conduce verso un arricchimento della conoscenza, come già aveva solennemente affermato Erodoto, sostenendo che le sofferenze producono conoscenze.
Se davvero il vecchio raffigurato nel disegno corrisponde a un autoritratto; se l'immagine appena delineata di un personaggio che procede con fatica appoggiandosi a due bastoni e che di sé dice di aver imparato coincide con quella dell'artista spagnolo - questo è ciò che Goya ha imparato e vuole trasmetterci. Egli ha "imparato" che il tempo consuma e distrugge tutto ciò che ricade sotto il suo dominio, fino al punto da divorare ciò che ha generato. A differenza di quello descritto da Hogarth, il Kronos di Goya lotta disperatamente per sopravvivere. Gli occhi ne dicono la follia, per sopravvivere distrugge ciò che soltanto ne può assicurare la continuità. Un impulso di morte che si esprime in disperata e cieca volontà di vita (Cacciari).

[Umberto Curi, La morte del tempo]

venerdì 21 gennaio 2022

la morte del tempo

Il pensiero greco conosce due modi distinti per definire il tempo (Per la verità, oltre ai termini aion e chronos, di cui ora si dirà più ampiamente, nei testi letterari e filosofici greci antichi si possono ritrovare altre due accezioni diverse, corrispondenti a categorie temporali. Kairos è il termine con cui ci si riferisce a una dimensione qualitativa del tempo. Coincide dunque con quello che si potrebbe chiamare il "momento opportuno", il "tempo debito", nel quale la continuità chronologica si interrompe per l'irruzione di un "istante" diverso e più "intenso" rispetto ai precedenti. Eniautos, infine, è il tempo ciclico, il "grande anno", un periodo di tempo relativamente lungo, nel quale si ripresentano gli stessi avvenimenti): da un lato esso è qualificato come aion, il "sempre-essente", la "durata" senza limiti, che non ha né principio né fine. Dall'altro lato esso è chronos, grandezza misurabile, forma temporale del divenire e del perire.

Per Anassimandro la nascita e la morte degli enti, il ciclico compimento di una giustizia universale che reintegra l'unità originaria dissipata dalla molteplicità del divenire, avvengono secondo l'ordine del tempo (chronos). 
Per Eraclito il tempo è aion, ed è un fanciullo che si comporta come tale, e dunque gioca disponendo le pedine sulla scacchiera. 
Questa scissione fra tempo aionico e tempo cronico, tra la durata "sempre-essente" dell'essere e l'irreversibilità del divenire, è riconfermata nel mito cosmologico descritto nel Timeo platonico, dove aion è la forma del tempo riferita all'essere, e chronos è il tempo attribuito al divenire.

Nelle fonti più antiche che ne hanno tramandato la figura, Kronos è provvisto di un'intelligenza contorta e terribile, anzi, la cosa più terribile. I due aggettivi formano in realtà un'endiadi. Egli è infatti terribile, perché la sua metis non è lineare, non ha la trasparenza del logos, né il "naturale" orientamento verso il bene che è proprio della sophia.
Una saggezza "ricurva", una falce affilata, la propensione a cibarsi di carne umana. Con questi attributi egli comparirà frequentemente nelle raffigurazioni rinascimentali e barocche, fino alle soglie dell'età contemporanea.

Nella lingua greca antica, Kronos si scrive con la lettera kappa. Con una leggera differenza (all'ascolto, quasi impercettibile) nella lettera iniziale - una chi, anziché una kappa - si scriveva il termine impiegato per indicare il tempo - chronos. La fortuita somiglianza fra le parole venne adottata a prova dell'identità reale fra le due concezioni, che per la verità avevano alcuni tratti in comune.
Poco alla volta, soprattutto a partire dal IV e dal V secolo dopo Cristo, Kronos viene raffigurato attraverso simboli che hanno un evidente significato temporale, mentre anche i tratti originali vengono interpretati come simboli del tempo.
Il falcetto, tradizionalmente spiegato come utensile agricolo o strumento di castrazione, giunse a interpretarsi come simbolo dei tempora quae sicut falx in se recurrunt, e la favola mitica, che egli avesse divorato i suoi figli, significava che il Tempo divora tutto ciò che ha creato (Panofsky, Il Padre Tempo, in Studi di iconologia).
Kronos diventa chronos. In quanto è edax rerum, divoratore di tutto ciò che ha creato, il tempo coincide con l'immagine di Kronos che divora i suoi figli. Analogamente, la falce, "ricordo" dell'evirazione inflitta a Urano, è insieme anche lo strumento che richiama l'attività agricola ed è inoltre il simbolo della ricorrenza curvilinea del tempo.
Ma poiché la morte era rappresentata con una falce, si realizza una sovrapposizione. Appropriatosi delle qualità di Kronos, il tempo entra così in una relazione sempre più stretta con la morte.
Questa è dunque l'origine della figura di Padre Tempo quale la conosciamo. Mezzo classica e mezzo medievale, questa figura illustra tanto la grandiosità astratta di un principio filosofico, quanto la voracità maligna di un demone distruttivo, e appunto questa ricca complessità dell'immagine nuova spiega il frequente apparire e il diverso significato del Padre Tempo nell'arte rinascimentale e barocca. Verso gli ultimi anni del XV secolo, le rappresentazioni della Morte cominciano a desumere la caratteristica clessidra e talvolta perfino le ali. Il Tempo a sua volta poteva raffigurarsi come ministro della morte, che egli provvede di vittime, o come demone dai denti di ferro ritto in mezzo alle rovine (ibid.).
Ciò che concettualmente era ancora possibile - la distinzione fra la morte e il tempo e fra questo e Kronos-Saturno - sfuma dal punto di vista iconologico. Dall'immagine del tempo si prelevano le ali, da quella di Saturno l'aspetto tetro e decrepito, e inoltre alcuni tratti strettamente saturnini, come il falcetto e il motivo cannibalico.

La miseria dell'esistere, l'evanescenza che nulla risparmia e da cui nulla può sottrarsi. Testimonianza di questo modo di concepire la condizione dei viventi è la ricca e diversificata tradizione iconologica fiorita in età rinascimentale e moderna sul tema della vanitas vanitatum.
Il termine "Vanitas" come distintivo di una categoria particolare di Nature morte è già presente negli inventari del primo Seicento rispetto a una classificazione che comprendeva in un primo tempo gli oggetti preminenti nella composizione e in un secondo tempo classificava genericamente la pittura come StillelebenVie coyeNatura in posa. Sulla fortuna, sull'estensione e sulla resistenza del termine "Vanitas" ha giocato un ruolo fondamentale il riferimento al passo dell'Ecclesiaste (Veca, Vanitas. Il simbolismo del tempo).
La traduzione latina favorisce una lettura dell'espressione chiave della Bibbia secondo un'accezione solo parzialmente corrispondente al significato originale. Il sintagma del testo biblico - hevel hevelim - una volta reso col latino vanitas vanitatum assume talora un'intonazione moraleggiante che appare riduttiva e unilaterale. Ciononostante, almeno alcune opere dell'arte figurativa, fra il XIV e il XVIII secolo, esprimono incisivamente il "senso" di quel discorso, nel momento in cui rappresentano la realtà vivente nei termini di un processo di universale dissoluzione, come irreversibile e irrimediabile venir meno dell'essere.
Fra esse, una delle più suggestive è certamente il tailpiece (ultimo foglio di un'edizione completa delle opere grafiche) col quale William Hogarth suggella la sua fertile produzione grafica e pittorica. Al centro di questa incisione campeggia una pipa appena rotta, dalla quale esce ancora una nuvoletta di fumo in cui è iscritta la parola "Finis" (a questo proposito, pur non riferendosi all'incisione di Hogarth, Veca osserva che se teniamo conto che il termine ebraico corrispondente al latino Vanitas (Hével) significa Fumo, Vapore e si fa riferimento alla consueta presenza di bugie, faci o braceri fumiganti che possiamo riscontrare nella produzione moraleggiante cinquecentesca e secentesca la coincidenza fra testo biblico e rappresentazione plastica rasenta l'ovvietà dell'evidenza). Colui che fumava giace riverso, con lo sguardo rivolto verso l'alto, e reca i segni caratteristici con i quali viene rappresentato il tempo: è un vecchio alato, accompagnato da una falce e da una clessidra.
Intorno, una serie di altri oggetti, indicanti tutti la morte, la distruzione, la fine: il carro del sole che precipita, il testamento che nomina quale esecutore delle ultime volontà il Chaos, testimoni Cloto, Lachesi e Atropo, una colonna rotta, le fiamme che consumano uno degli ultimi dipinti dello stesso pittore. E ancora: il borsello logoro e consunto, l'arco ormai inservibile di Eros, la corona in frantumi, la tavolozza e il fucile, simboli rispettivamente dell'arte e della guerra, infranti, la campana incrinata.
Sulla sinistra dell'incisione, proprio ai piedi della pietra sepolcrale, un documento con grande sigillo avvisa della bancarotta della Natura; il sigillo poggia su un libro aperto sull'ultima pagina: exeunt omnes - la commedia è finita, l'all the world's a stage, quella scena che è la terra intera, ha finalmente terminato la sua dira cupido di finzioni, apparenze, idoli, sogni, contese (Cacciari, La morte del tempo).
Tutti i dettagli di questa composizione recano i segni di una immane ruina, di una dissoluzione che investe e distrugge ogni cosa, umana e naturale. Alle imprese del tempo, corrisponde qui la morte del tempo stesso. Anche la falce di Kronos è rotta, come rotto è pure l'astuccio della clessidra, dalla quale esce la sabbia, e rotta è la pipa ancora fumante. Muore il tempo stesso, e con esso tutto ciò che esiste in questo mondo.
Il titolo dell'acquaforte di Hogarth, The Bathos, riprende la definizione fornita da Alexander Pope (Peri Bathous, Or the Art of Sinking in Poetry), e poi più volte ricorrente nelle controversie sull'arte del XVIII secolo in Inghilterra (al significato originario di "profondità", col quale compare nella lingua greca, Pope sostituisce un'accezione spregiativa: bathos è la trasformazione del sublime in triviale e lo "sprofondamento", di cui dice il verbo to sink, mentre apparentemente riprende il termine greco originario, in realtà allude a un "andare a fondo", "cadere in basso", che è in qualche modo l'opposto dell'accezione originaria). Attraverso un rovesciamento, nel caso dell'acquaforte di Hogarth, Bathos indica soltanto sentimentalità "facile", una pateticità superficiale e infine ridicola. Le cose che pretendono di apparire sublimi, in realtà suscitano la derisione, mentre il sarcasmo dell'artista nei confronti della propria composizione comnprende in sé quella rivolta all'idea stessa di un Sublime nelle cose del mondo, capace di non finire preda della ruota vorace del tempo (Cacciari).
In altre parole, un vecchio tema di elegie poetiche sul carattere transitorio di tutte le cose, sul potere che ha il tempo di livellare, logorare, abbassare tutto, si è trasformato in un quadro (Sedlmayr, La morte del tempo). Indubbiamente, in The Bathos si possono ritrovare, raffigurati analiticamente, in maniera perfino puntigliosa, tutti i segni impressi dall'azione del tempus edax, i trofei accumulati da Kronos, culminati con l'immagine che si scorge sul fondo del quadro, la forca da cui penzola l'ultimo uomo, richiamata dalla quasi identica struttura di sostegno dell'insegna che campeggia al centro, recante la scritta "Alla fine del mondo". Ma ciò che caratterizza peculiarmente questa originale variante della tematica tradizionale della vanitas vanitatum è la rappresentazione riflessiva del potere distruttivo del tempo, il fatto che lo stesso Kronos sia coinvolto direttamente nell'immane ruina che egli stesso ha provocato. La morte del Tempo - genitivo oggettivo - è il tema principale. L'apocalisse a cui allude l'incisione non reca un nuovo cielo o una nuova terra; essa non rivela altro che non sia la nullità dell'ente come tale, la sovranità assoluta del Nulla sull'ente (Cacciari).

[Umberto Curi, La morte del tempo]

giovedì 13 gennaio 2022

hulk (tubas)

 
Tra le opere più interessanti della mostra di Jeff Koons Shine, presso Palazzo Strozzi a Firenze, c'è Hulk (Tubas), della serie Hulk Elvis. Con questa serie Koons allarga la produzione dei suoi realistici gonfiabili in acciaio inossidabile colorato, brillante e riflettente a personaggi dei fumetti, perfetta espressione della cultura di massa già enfatizzata dalla Pop Art. 
Sono lì per proteggere... ma allo stesso tempo possono diventare molto, molto violenti... Gli Hulk sono così: sono davvero simboli ad alto contenuto di testosterone.
Come per il marinaio mangia-spinaci Popeye, del personaggio a Koons interessa la duplicità e la capacità di trasformazione. Come Dolphin, invece, anche la scultura di Hulk presenta un assemblaggio tra oggetti di materiali diversi, ovvero tra una replica in metallo di un gonfiabile del supereroe e una tuba a cinque campane in ottone. 
La scelta del personaggio è anche legata a un ricordo di famiglia, all'immagine del figlio di Koons che davanti allo specchio prova la classica posa aggressiva del personaggio. Di quella posa Koons nota l'assonanza con la posa di Elvis Presley nelle serigrafie Triple Elvis che Andy Warhol realizza a partire dalle foto pubblicitarie per il film western del 1960 Flaming Star.
L'ho visto in piedi davanti a uno specchio, che guardava il suo corpo tutto intero per la prima volta... Mi ha ricordato l'Elvis di Andy Warhol. Era una questione di identità maschile.
Hulk sembra rimandare, nel suo aspetto impetuoso, a un guerriero epico che fa la sua improvvisa comparsa sul campo di battaglia, un po' come Achille, il primo grande eroe della letteratura occidentale. E, come Achille, manifesta nei gesti la sua inclinazione all'ira funesta. Con un effetto sinestetico, la grande scultura di Koons pare emettere un terrificante urlo di battaglia, accompagnato dal fragore assordante degli strumenti a fiato. E, ancora come l'eroe omerico, anche l'Hulk di Koons ha un punto debole che lo rende umano: la valvola sul dorso, anch'essa perfettamente riprodotta, è il tallone d'Achille che ne attesta la fragilità.

Nelle sculture di questa serie, Koons utilizza un materiale classico come il bronzo, colorato poi con sorprendente realismo che fa apparire leggera e quasi aerea la invece pesante fusione metallica. La vivace policromia rimanda da una parte al tema della "parvenza", dall'altra alla cromia dei bronzi antichi con cui gli scultori ellenistici riuscivano a restituire effetti naturalistici che imitavano i colori della vita, oppure a ricreare effetti shine, lucenti, scintillanti e splendenti, come quelli dello scudo in bronzo di Achille descritti da Omero, scudo caratterizzata da prodigiosi effetti luminosi che lo fanno apparire come forgiato di pura luce, una luce che sembra irradiare anche dall'eroe che lo porta, rendendolo raggiante come un sole e conferendogli poteri soprannaturali in una trasformazione verso la trascendenza. Come avviene per Popeye o Hulk.
I prodigi cromatici e luministici della scultura, così come gli effetti di trascendenza su chi ne viene a contatto, legano l'opera di Koons a questi altissimi precedenti.




lunedì 10 gennaio 2022

da koons a nietzsche

A dicembre ho organizzato una uscita didattica per portare le mie due classi quinte alla visita guidata della mostra, presso Palazzo Strozzi a Firenze, dell'artista contemporaneo Jeff Koons.
Uno degli interessi era la connessione dell'opera di Koons con la filosofia di Nietzsche, che l'artista stesso considera come uno dei riferimenti per la sua arte.

A partire dal titolo della mostra, Shine. La brillantezza, la lucentezza. Ma anche allusione al pressoché omofono tedesco schein, che è il sembrare, quindi l'apparenza, la parvenza. Le opere di Koons sono spesso costituite da o contengono superfici lucenti, sculture in acciaio inossidabile colorato dall'effetto brillante e riflettente. Brillantezza e parvenza che possono rimandare all'idea nietzschiana. Che cos'è per il filosofo tedesco "parvenza" ce lo dice lui stesso nell'aforisma 54 del primo libro della Gaia scienza
In verità, non l’opposto di una sostanza – che cos’altro posso asserire di una sostanza qualsiasi se non appunto i soli predicati della sua parvenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una x sconosciuta e pur anche togliere! Parvenza è per me proprio ciò che opera e vive, che si spinge tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è parvenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più – che tra tutti questi sognatori anch’io, l’«uomo della conoscenza», danzo la mia danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per prolungare la danza terrena e con ciò appartiene ai sovrintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno.
Non una negativa superficialità o un'ingannevole apparenza, anzi tutto ciò che è profondo ama la maschera, sostiene sempre Nietzsche.

In tutte queste s
culture in acciaio colorato brillante e riflettente, nella serie delle Gazing Ball con le sue sfere di vetro soffiato blu, questa parvenza lucente riflette l'ambiente in cui le opere sono collocate e lo spettatore che le sta guardando, includendoli nell'opera. Così, nessuno in realtà vedrà mai la stessa opera. Anche questo può far pensare a Nietzsche e a come, secondo la sua filosofia, non vi sia nulla di ultimo e definitivo, non si possa condividere la fiducia nell’esistenza di fatti incontrovertibili, perché il fatto è sempre qualcosa che prende forma soltanto all’interno del complesso processo interpretativo di volta in volta attuato dal soggetto conoscente (Non esistono fatti, solo interpretazioni), così che ogni conoscenza ha solo una natura prospettica (prospettivismo), perché legata al punto di vista del singolo soggetto conoscente, ai suoi particolari interessi e bisogni. E a ciò non esiste assolutamente scampo, né alcuna strada per scivolare e sgattaiolarsene via nel mondo reale! Siamo nella nostra rete, noi ragni, e qualunque cosa venga da noi imprigionata qua dentro, non la potremmo acchiappare se non in quanto è ciò che si fa appunto prendere nella nostra rete (Aurora).

Ancora, infine, includendo lo spettatore nell'opera stessa, elevandolo alla dignità di evento estetico, l'arte di Koons gli svela il segreto 
secondo cui ogni uomo è un miracolo irripetibile, osa mostrare che nella propria unicità egli è bello e degno di considerazione, nuovo e incredibile.
Ogni uomo in fondo sa benissimo di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessuna combinazione per quanto insolita potrà mescolare insieme per una seconda volta quella molteplicità così bizzarramente variopinta nell’unità che egli è (Schopenhauer come educatore).
L'uomo lo sa, sostiene Nietzsche, ma lo nasconde come una cattiva coscienza. Koons ce lo ricorda e ci invita alla felicità di questa liberazione.

venerdì 7 gennaio 2022

l'istante e la libertà [2]

A partire dal terzo capitolo, il testo della Bespaloff diviene, come del resto recita il sottotitolo, un saggio su Montaigne, su quell'autore che, rispetto alla scelta agostiniana di rifiutare se stessi per scegliere Dio, preferisce scegliere se stesso. Nulla di luciferino né di faustiano, però, in questa conversione al terreno: l’umanesimo critico di Montaigne non smette mai di biasimare l’orgoglio, di spogliare l’uomo della sua effimera regalità e lo lascia, sul gradino più basso, solamente con la soddisfazione virile di vederci chiaro, o piuttosto di sapere che non ci vedrà mai del tutto chiaro.

Montaigne si impegna a formare l'uomo aiutandolo a risolvere il problema che egli stesso si pone: come convertire all’autentico? La prima parte del compito di tale conversione consiste nell’utilizzare la negazione socratica per smuovere la tirannia dell’abitudine, il dispotismo delle idee preconcette, per dissolvere nella relatività del divenire i concetti e i dogmi che separano l’uomo dal reale. È necessario dissipare nell’uomo ogni apparenza di stabilità, togliergli tutti gli appoggi, distruggere fino alle fondamenta la sua sicurezza.

Non abbiamo alcuna comunicazione con l’essere, poiché ogni natura umana è sempre a metà fra il nascere e il morire, non percependo di sé che un’oscura apparenza e ombra, e un’idea malcerta e fragile. E se, per caso, vi ficcate in testa di voler capire il vostro proprio essere, sarà né più né meno che se uno volesse acchiappare l’acqua: poiché quanto più afferrerà e stringerà ciò che per sua natura scorre dappertutto, tanto più perderà ciò che voleva prendere e stringere in pugno (Saggi, II, 12).

Con questo Montaigne vuole esercitare lo spirito a cogliere il moto, a sopportare l’insicurezza del divenire; vuol far disperare la ragione, per costringerla a conoscere i suoi limiti. Allora, però, può iniziare la seconda parte di questo compito, perché accorgersi di questa situazione è già un sottrarvisi. Dopo aver dissolto l’essere nel divenire, dopo essersi sciolto e aver mollato la presa, si tratta adesso di rimettersi insieme, riprendersi, cioè costruirsi in seno al divenire.

Guardate dentro di voi, riconoscetevi, restate in voi: la vostra intelligenza e la vostra volontà, che si sperpera altrove, riportatela a se stessa; voi scorrete via, vi disperdete: rimettetevi insieme, puntellatevi; vi stanno tradendo, vi stanno disperdendo, vi stanno derubando di voi stessi (III, 9).

Montaigne ci restituisce il gusto di una libertà guarita dalla presunzione, di una libertà che si muove tra due poli: da un lato, l’obbedienza e l’accettazione dell’ignoranza; dall’altro, la fedeltà all’istante, alla verità soggettiva, che implica il dubbio, l’autocritica, l’incertezza, la dialettica delle contraddizioni.


In questo Montaigne non ha torto di richiamarsi a Socrate: la sua è una saggezza in fase di apprendimento, fino alla morte. E tale saggezza ha origine e fine nell’esperienza del presente autentico che la Bespaloff chiama istante, per sottolineare che il punto di arrivo è identico al punto di partenza, che non c'è promessa di sicurezza né stabilità, che non c'è alcuna giustificazione o redenzione finale. Limitatezza, per Montaigne, non è sinonimo di fallimento, né il fallimento, del resto, sinonimo di assurdo.


Montaigne ha dimostrato abbastanza chiaramente che è scrivendo che si rafforza e si forma. 

Non ho fatto il mio libro più di quanto il mio libro abbia fatto me; libro consustanziale al suo autore (II, 18).
È un’impresa spinosa, più di quanto sembri, seguire un incedere vagabondo come quello del nostro spirito; penetrare le profondità opache dei suoi meandri interni; scegliere e fissare tanti minimi aspetti dei suoi turbamenti (II, 6).

Questa impresa non è solo l’esplorazione, bensì ciò che l’opera fa dell’esploratore che si osserva e si sorprende. L’io dell’opera comincia a esistere solo nel momento in cui l'autore gli dà corpo fissando nella scrittura le agitazioni, le contraddizioni della soggettività sfuggente.

Non c’è descrizione difficile quanto la descrizione di se stessi, né certo altrettanto utile. Bisogna bene pettinarsi, bisogna bene mettersi in ordine e rassettarsi per presentarsi in pubblico. Ebbene io mi faccio bello continuamente, perché mi descrivo continuamente (II, 6).

Riconoscendo l’impossibilità di descriversi senza farsi belli, di comunicarsi senza trasformarsi, Montaigne non sostituisce un essere fittizio a un essere reale, ma al contrario, ciò implica che solo attraverso la voce e l’intervento stilistico è possibile la vittoria dell’io autentico sull’io in via di disgregazione perpetua. Perché l'io autentico possa apparire, è necessario allentare il legame tirannico che assoggetta l’individuo al momento, alla mentalità, alla moda esterna. La risposta definitiva della saggezza di Montaigne è la grazia, come libertà conquistata, come frutto di un allenamento paziente come quello del ballerino, e a volte rigido come quello dell’asceta. Montaigne insegna modestamente a non trasformare la vita in un inferno. Ed è già molto difficile.

lunedì 3 gennaio 2022

l'istante e la libertà

Uno degli ultimi libri letti nel 2021 è stato l'ultimo lascito scritto, il progetto incompiuto e pubblicato postumo (nel 1950), di Rachel Bespaloff, autrice nota soprattutto per uno splendido saggio sull'Iliade.
In L'istante e la libertà la Bespaloff giustappone le descrizioni che dell'istante fanno Agostino (Confessioni), Montaigne (Saggi) e Rousseau (Fantasticherie del passeggiatore solitario), così da rivelarci le somiglianze e le divergenze tra questi tre poeti della soggettività e dell'istante, tre filosofi che partono dall'individuo che sono in prima persona, dalla loro propria vicenda in una svolta decisiva della storia, e che presentano l'istante quale dimensione temporale di pienezza, pace, possesso di sé in un presente autentico.
Se Agostino nella conversione si strappa da un mondo che ha nutrito, se non colmato, la sua brama appassionata, e attraverso un reale sacrificio, una lotta all'ultimo sangue, scambia i piaceri con la felicità e il rientro in sé; per Montaigne, invece, rientrare in se stessi non vuol dire lasciare il mondo quanto, piuttosto, riscoprirlo e farlo proprio mediante l'intelligenza e i sensi, non vuol dire la sottomissione dell'io ma la sua educazione attraverso il dubbio e il tempo. La grazia, nel filosofo francese, è quella della creatura padrona di se stessa. 
Montaigne fa proprio l'ideale di bellezza in cui la perfezione promette il piacere, quale le arti, la poesia e la cultura del suo tempo fanno a gara a celebrare, ma vi aggiunge ciò che gli impedisce di diventare una menzogna: la prova del tempo; la vecchiaia, la malattia, la singolarità dei destini individuali, la crudeltà, la morte.

E con Rousseau ascoltiamo tutt'altra voce, quella di un essere senza rifugio, che la realtà oltraggia, che si allontana dal mondo che vorrebbe rifare, che trova l'estasi dell'istante né attraverso la grazia divina né attraverso uno sforzo di attenzioni ma per un concorso di circostanze favorevoli che porta al puro sollievo della consapevolezza di esistere e della felicità di essere.
Abbiamo, così, il pellegrino e la bellezza sacra, l'esploratore e la bellezza umana, l'esiliato e la bellezza magica. Abbiamo, tuttavia, anche il fondo comune di un senso dell'esistere come modo privilegiato di svelamento dell'essere attraverso la conoscenza di sé che sorge nel rapimento di una pienezza che mette in gioco una libertà indipendente dal fare, unicamente legata all'evidenza interiore dell'essere e del nulla - senso dell'esistere che, all'opposto può affiorare anche nell'angoscia dell'intuizione della finitezza come nella ennui di Pascal, nello spleen di Baudelaire, nella nausée di Sartre.

sabato 1 gennaio 2022

per l'anno nuovo

Non potevo (ri)cominciare che utilizzando Nietzsche, l'aforisma 276 con cui si apre il quarto libro de La gaia scienza, capolavoro di levità e lucidità. 


Io vivo ancora, io penso ancora. Oggi ognuno si permette di esprimere il suo augurio e il suo più caro pensiero: ebbene, voglio dire anch’io che cosa oggi mi sono augurato da solo e quale pensiero quest’anno, dopo molto tempo, m’è venuto in animo – quale pensiero deve essere per me fondamento, garanzia, dolcezza di tutta la vita futura (?) da questo 1° gennaio 2022. Voglio tornare a scrivere delle cose, di quel che v'è almeno per me di bello in loro così sarò uno di quelli che scrivono (tanti? troppi?). Scrivere: sia questo d’ora innanzi il mio ritrovato impegno! Non voglio necessariamente realizzare chissà cosa. Non voglio necessariamente commenti, non voglio neppure necessariamente lettori. Scrivere di nuovo sia la mia unica intenzione! E, insomma: prima o poi voglio di nuovo essere uno che scrive!

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