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venerdì 21 gennaio 2022

la morte del tempo

Il pensiero greco conosce due modi distinti per definire il tempo (Per la verità, oltre ai termini aion e chronos, di cui ora si dirà più ampiamente, nei testi letterari e filosofici greci antichi si possono ritrovare altre due accezioni diverse, corrispondenti a categorie temporali. Kairos è il termine con cui ci si riferisce a una dimensione qualitativa del tempo. Coincide dunque con quello che si potrebbe chiamare il "momento opportuno", il "tempo debito", nel quale la continuità chronologica si interrompe per l'irruzione di un "istante" diverso e più "intenso" rispetto ai precedenti. Eniautos, infine, è il tempo ciclico, il "grande anno", un periodo di tempo relativamente lungo, nel quale si ripresentano gli stessi avvenimenti): da un lato esso è qualificato come aion, il "sempre-essente", la "durata" senza limiti, che non ha né principio né fine. Dall'altro lato esso è chronos, grandezza misurabile, forma temporale del divenire e del perire.

Per Anassimandro la nascita e la morte degli enti, il ciclico compimento di una giustizia universale che reintegra l'unità originaria dissipata dalla molteplicità del divenire, avvengono secondo l'ordine del tempo (chronos). 
Per Eraclito il tempo è aion, ed è un fanciullo che si comporta come tale, e dunque gioca disponendo le pedine sulla scacchiera. 
Questa scissione fra tempo aionico e tempo cronico, tra la durata "sempre-essente" dell'essere e l'irreversibilità del divenire, è riconfermata nel mito cosmologico descritto nel Timeo platonico, dove aion è la forma del tempo riferita all'essere, e chronos è il tempo attribuito al divenire.

Nelle fonti più antiche che ne hanno tramandato la figura, Kronos è provvisto di un'intelligenza contorta e terribile, anzi, la cosa più terribile. I due aggettivi formano in realtà un'endiadi. Egli è infatti terribile, perché la sua metis non è lineare, non ha la trasparenza del logos, né il "naturale" orientamento verso il bene che è proprio della sophia.
Una saggezza "ricurva", una falce affilata, la propensione a cibarsi di carne umana. Con questi attributi egli comparirà frequentemente nelle raffigurazioni rinascimentali e barocche, fino alle soglie dell'età contemporanea.

Nella lingua greca antica, Kronos si scrive con la lettera kappa. Con una leggera differenza (all'ascolto, quasi impercettibile) nella lettera iniziale - una chi, anziché una kappa - si scriveva il termine impiegato per indicare il tempo - chronos. La fortuita somiglianza fra le parole venne adottata a prova dell'identità reale fra le due concezioni, che per la verità avevano alcuni tratti in comune.
Poco alla volta, soprattutto a partire dal IV e dal V secolo dopo Cristo, Kronos viene raffigurato attraverso simboli che hanno un evidente significato temporale, mentre anche i tratti originali vengono interpretati come simboli del tempo.
Il falcetto, tradizionalmente spiegato come utensile agricolo o strumento di castrazione, giunse a interpretarsi come simbolo dei tempora quae sicut falx in se recurrunt, e la favola mitica, che egli avesse divorato i suoi figli, significava che il Tempo divora tutto ciò che ha creato (Panofsky, Il Padre Tempo, in Studi di iconologia).
Kronos diventa chronos. In quanto è edax rerum, divoratore di tutto ciò che ha creato, il tempo coincide con l'immagine di Kronos che divora i suoi figli. Analogamente, la falce, "ricordo" dell'evirazione inflitta a Urano, è insieme anche lo strumento che richiama l'attività agricola ed è inoltre il simbolo della ricorrenza curvilinea del tempo.
Ma poiché la morte era rappresentata con una falce, si realizza una sovrapposizione. Appropriatosi delle qualità di Kronos, il tempo entra così in una relazione sempre più stretta con la morte.
Questa è dunque l'origine della figura di Padre Tempo quale la conosciamo. Mezzo classica e mezzo medievale, questa figura illustra tanto la grandiosità astratta di un principio filosofico, quanto la voracità maligna di un demone distruttivo, e appunto questa ricca complessità dell'immagine nuova spiega il frequente apparire e il diverso significato del Padre Tempo nell'arte rinascimentale e barocca. Verso gli ultimi anni del XV secolo, le rappresentazioni della Morte cominciano a desumere la caratteristica clessidra e talvolta perfino le ali. Il Tempo a sua volta poteva raffigurarsi come ministro della morte, che egli provvede di vittime, o come demone dai denti di ferro ritto in mezzo alle rovine (ibid.).
Ciò che concettualmente era ancora possibile - la distinzione fra la morte e il tempo e fra questo e Kronos-Saturno - sfuma dal punto di vista iconologico. Dall'immagine del tempo si prelevano le ali, da quella di Saturno l'aspetto tetro e decrepito, e inoltre alcuni tratti strettamente saturnini, come il falcetto e il motivo cannibalico.

La miseria dell'esistere, l'evanescenza che nulla risparmia e da cui nulla può sottrarsi. Testimonianza di questo modo di concepire la condizione dei viventi è la ricca e diversificata tradizione iconologica fiorita in età rinascimentale e moderna sul tema della vanitas vanitatum.
Il termine "Vanitas" come distintivo di una categoria particolare di Nature morte è già presente negli inventari del primo Seicento rispetto a una classificazione che comprendeva in un primo tempo gli oggetti preminenti nella composizione e in un secondo tempo classificava genericamente la pittura come StillelebenVie coyeNatura in posa. Sulla fortuna, sull'estensione e sulla resistenza del termine "Vanitas" ha giocato un ruolo fondamentale il riferimento al passo dell'Ecclesiaste (Veca, Vanitas. Il simbolismo del tempo).
La traduzione latina favorisce una lettura dell'espressione chiave della Bibbia secondo un'accezione solo parzialmente corrispondente al significato originale. Il sintagma del testo biblico - hevel hevelim - una volta reso col latino vanitas vanitatum assume talora un'intonazione moraleggiante che appare riduttiva e unilaterale. Ciononostante, almeno alcune opere dell'arte figurativa, fra il XIV e il XVIII secolo, esprimono incisivamente il "senso" di quel discorso, nel momento in cui rappresentano la realtà vivente nei termini di un processo di universale dissoluzione, come irreversibile e irrimediabile venir meno dell'essere.
Fra esse, una delle più suggestive è certamente il tailpiece (ultimo foglio di un'edizione completa delle opere grafiche) col quale William Hogarth suggella la sua fertile produzione grafica e pittorica. Al centro di questa incisione campeggia una pipa appena rotta, dalla quale esce ancora una nuvoletta di fumo in cui è iscritta la parola "Finis" (a questo proposito, pur non riferendosi all'incisione di Hogarth, Veca osserva che se teniamo conto che il termine ebraico corrispondente al latino Vanitas (Hével) significa Fumo, Vapore e si fa riferimento alla consueta presenza di bugie, faci o braceri fumiganti che possiamo riscontrare nella produzione moraleggiante cinquecentesca e secentesca la coincidenza fra testo biblico e rappresentazione plastica rasenta l'ovvietà dell'evidenza). Colui che fumava giace riverso, con lo sguardo rivolto verso l'alto, e reca i segni caratteristici con i quali viene rappresentato il tempo: è un vecchio alato, accompagnato da una falce e da una clessidra.
Intorno, una serie di altri oggetti, indicanti tutti la morte, la distruzione, la fine: il carro del sole che precipita, il testamento che nomina quale esecutore delle ultime volontà il Chaos, testimoni Cloto, Lachesi e Atropo, una colonna rotta, le fiamme che consumano uno degli ultimi dipinti dello stesso pittore. E ancora: il borsello logoro e consunto, l'arco ormai inservibile di Eros, la corona in frantumi, la tavolozza e il fucile, simboli rispettivamente dell'arte e della guerra, infranti, la campana incrinata.
Sulla sinistra dell'incisione, proprio ai piedi della pietra sepolcrale, un documento con grande sigillo avvisa della bancarotta della Natura; il sigillo poggia su un libro aperto sull'ultima pagina: exeunt omnes - la commedia è finita, l'all the world's a stage, quella scena che è la terra intera, ha finalmente terminato la sua dira cupido di finzioni, apparenze, idoli, sogni, contese (Cacciari, La morte del tempo).
Tutti i dettagli di questa composizione recano i segni di una immane ruina, di una dissoluzione che investe e distrugge ogni cosa, umana e naturale. Alle imprese del tempo, corrisponde qui la morte del tempo stesso. Anche la falce di Kronos è rotta, come rotto è pure l'astuccio della clessidra, dalla quale esce la sabbia, e rotta è la pipa ancora fumante. Muore il tempo stesso, e con esso tutto ciò che esiste in questo mondo.
Il titolo dell'acquaforte di Hogarth, The Bathos, riprende la definizione fornita da Alexander Pope (Peri Bathous, Or the Art of Sinking in Poetry), e poi più volte ricorrente nelle controversie sull'arte del XVIII secolo in Inghilterra (al significato originario di "profondità", col quale compare nella lingua greca, Pope sostituisce un'accezione spregiativa: bathos è la trasformazione del sublime in triviale e lo "sprofondamento", di cui dice il verbo to sink, mentre apparentemente riprende il termine greco originario, in realtà allude a un "andare a fondo", "cadere in basso", che è in qualche modo l'opposto dell'accezione originaria). Attraverso un rovesciamento, nel caso dell'acquaforte di Hogarth, Bathos indica soltanto sentimentalità "facile", una pateticità superficiale e infine ridicola. Le cose che pretendono di apparire sublimi, in realtà suscitano la derisione, mentre il sarcasmo dell'artista nei confronti della propria composizione comnprende in sé quella rivolta all'idea stessa di un Sublime nelle cose del mondo, capace di non finire preda della ruota vorace del tempo (Cacciari).
In altre parole, un vecchio tema di elegie poetiche sul carattere transitorio di tutte le cose, sul potere che ha il tempo di livellare, logorare, abbassare tutto, si è trasformato in un quadro (Sedlmayr, La morte del tempo). Indubbiamente, in The Bathos si possono ritrovare, raffigurati analiticamente, in maniera perfino puntigliosa, tutti i segni impressi dall'azione del tempus edax, i trofei accumulati da Kronos, culminati con l'immagine che si scorge sul fondo del quadro, la forca da cui penzola l'ultimo uomo, richiamata dalla quasi identica struttura di sostegno dell'insegna che campeggia al centro, recante la scritta "Alla fine del mondo". Ma ciò che caratterizza peculiarmente questa originale variante della tematica tradizionale della vanitas vanitatum è la rappresentazione riflessiva del potere distruttivo del tempo, il fatto che lo stesso Kronos sia coinvolto direttamente nell'immane ruina che egli stesso ha provocato. La morte del Tempo - genitivo oggettivo - è il tema principale. L'apocalisse a cui allude l'incisione non reca un nuovo cielo o una nuova terra; essa non rivela altro che non sia la nullità dell'ente come tale, la sovranità assoluta del Nulla sull'ente (Cacciari).

[Umberto Curi, La morte del tempo]

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