Continua ancora il corso su Moderno e Postmoderno e si passa a saggi di Emerson e Wittgenstein.
Per il filosofo americano Ralph Waldo Emerson ho letto alcuni saggi, in particolare quello sulla fiducia in se stessi e quello sull'esperienza. Non tenendo in considerazione libri e tradizioni, tutto lo scintillio del firmamento della passata e dell'altrui arte e sapienza, bisognerebbe invece imparare a tener d'occhio il barlume di luce che guizza in ognuno di noi e imparare a comportarsi non da minorenni e invalidi e codardi, da "fanciulli che meccanicamente ripetono le frasi di nonne e tutori", da diperati e piagnoni cui sono stati strappati muscoli e cuore, da "soldatini da salotto", ma come chi non mostra mai "quell'umore d'incertezza e renitenza, quella sfiducia che s'impossessa di noi solo perché la nostra aritmetica ha calcolato le forze e i mezzi che si oppongono a un nostro proposito", come chi ha l'occhio ancora indomato e non si conforma a nessuno. L'opposto del conformismo - la virtù più ricercata dalla società, in quanto benda che tappa gli occhi, uniforme-prigione del partito cui si è aderito, graziosa espressione asinina, sciocco viso della lode - è la fiducia in se stessi, la capacità e il coraggio di ogni uomo di operare secondo le proprie originali, sincere, autentiche vedute. Così, "con l'esercitare la fiducia in se stessi, nuovi poteri verranno alla luce", "una possibilità di espressione ardita e grandiosa e tuttavia differente" da qualunque altra.
Con invidiabile chiarezza, distinzione e precisione Ludwig Wittgenstein conduce le sue Ricerche filosofiche nel tentativo di superare un modello e una rappresentazione classici ma primitivi del modo e della maniera in cui funziona il linguaggio, che non è un mero sistema di comunicazione ma un gioco linguistico costituito e intessuto da un'insieme di attività imparentate, legate da affinità e somiglianze di famiglia, come gli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili, come nel tessere un filo si intreccia fibra con fibra così che esso è l'ininterrotto sovrapporsi di queste. Un gioco e una famiglia dai contorni forse sfocati, irregolari, ma la purezza cristallina della logica, il suo rigore, sono esigenze che minacciano di trasformarsi in qualcosa di vacuo: "non c'è alcun fuori; fuori manca l'aria per respirare" e si finisce "su una lastra di ghiaccio dove manca l'attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell'attrito. Torniamo sul terreno scabro!"
Il testo prova anche a dare una risposta alla domanda 'che cos'è la filosofia'. Su questo 'terreno scabro' dove camminiamo incontrando 'attrito', "la filosofia è una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio", contro i pregiudizi, le forme e le immagini che ci tengono prigionieri e attraverso cui ripetutamente e inesorabilmente - "come un paio di occhiali posati sul naso" - seguiamo e guardiamo la natura. La filosofia lascia dietro di sé "rottami e calcinacci" degli "edifici di cartapesta" che ha distrutto, e su di noi lascia gli schietti "bernoccoli" che ci siamo fatti cozzando contro i limiti e gli errori in cui eravamo impigliati quando non ci raccapezzavamo. Lo scopo della filosofia, insomma, è "indicare alla mosca la via d'uscita dalla trappola".
Con invidiabile chiarezza, distinzione e precisione Ludwig Wittgenstein conduce le sue Ricerche filosofiche nel tentativo di superare un modello e una rappresentazione classici ma primitivi del modo e della maniera in cui funziona il linguaggio, che non è un mero sistema di comunicazione ma un gioco linguistico costituito e intessuto da un'insieme di attività imparentate, legate da affinità e somiglianze di famiglia, come gli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili, come nel tessere un filo si intreccia fibra con fibra così che esso è l'ininterrotto sovrapporsi di queste. Un gioco e una famiglia dai contorni forse sfocati, irregolari, ma la purezza cristallina della logica, il suo rigore, sono esigenze che minacciano di trasformarsi in qualcosa di vacuo: "non c'è alcun fuori; fuori manca l'aria per respirare" e si finisce "su una lastra di ghiaccio dove manca l'attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell'attrito. Torniamo sul terreno scabro!"
Il testo prova anche a dare una risposta alla domanda 'che cos'è la filosofia'. Su questo 'terreno scabro' dove camminiamo incontrando 'attrito', "la filosofia è una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio", contro i pregiudizi, le forme e le immagini che ci tengono prigionieri e attraverso cui ripetutamente e inesorabilmente - "come un paio di occhiali posati sul naso" - seguiamo e guardiamo la natura. La filosofia lascia dietro di sé "rottami e calcinacci" degli "edifici di cartapesta" che ha distrutto, e su di noi lascia gli schietti "bernoccoli" che ci siamo fatti cozzando contro i limiti e gli errori in cui eravamo impigliati quando non ci raccapezzavamo. Lo scopo della filosofia, insomma, è "indicare alla mosca la via d'uscita dalla trappola".
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