Una lettera firmata Derrida pare uno dei migliori antidoti contro i fanatici della verità: «La verità, è nel suo nome maledetto che ci siamo perduti, solo in suo nome, non per la verità stessa, se ce ne fosse, ma per il desiderio di verità che ci ha estorto le “confessioni” più terrificanti, dopo le quali siamo stati più distanti da noi stessi che mai, senza avvicinarci di un passo a una qualche verità. Tutti questi segreti non sono che falsi segreti, e meritano l’oblio, e non la confessione. Nulla di tutto ciò ci concerne. Dopo queste miserabili confessioni che ci siamo estorte non restano che gli strumenti di tortura» (La Carte Postale). Ecco un altro volto della verità. Forse il più difficile da accettare – se non si è accettata l’idea che «l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità» (Umberto Eco, Il nome della rosa). Un volto terribile che Lost ci mostra fin da subito in tutta la sua violenza nell’episodio in cui Sayid e Jack, per far confessare Sawyer, ricorrono alla tortura. Non si tratta di un caso. Le scene di prigionia e tortura si ripetono più volte nel corso della serie: Lost è costellato di interrogatori e di prigionieri che devono confessare, a tutti i costi, la verità. Sayid è disposto a tutto pur di ottenere la verità. Anche a uccidere. Perversione dell’amore per la verità? Direi piuttosto: sua logica e terribile conseguenza. Dice Nietzsche nella Gaia scienza: «Dietro la volontà di verità si potrebbe nascondere una volontà di morte».
(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)
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