Nel terzo e nel quarto capitolo del loro libro Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, i due autori francesi Detienne e Vernant analizzano, rispettivamente, la conquista del potere da parte di Zeus nella Teogonia esiodea , e la genesi del mondo e dell’uomo nelle teogonie di matrice orfica, sempre tenendo come punto fermo il loro interesse per la metis, l’astuzia intelligente.
Nella Teogonia di Esiodo, le lotte di Zeus dimostrerebbero che senza metis non ci può essere sovranità, non si può né conquistare, né esercitare, né conservare il potere supremo. È, infatti, grazie ad uno stratagemma di Metis (divinità che è personificazione appunto dell’astuzia) che Zeus sconfigge il padre Crono, dimostrandosi così più astuto di lui, e conquista il potere prima da lui detenuto: Crono era inquietante, malefico, terribile, ma non prudente; lo è invece Zeus, riflessivo, equilibrato, saggio. Una volta salito sul trono, Zeus sposa Metis, ma non solo, la ingoia conservandola per sempre dentro di sé e divenendo così egli stesso l’incarnazione della pura astuzia. Ora che è Zeus la metis suprema, nessuno potrà superarlo così da sottrargli il potere, che egli può essere sicuro di esercitare e conservare. Ora che Metis non c’è più, l’avvenire non è più aleatorio, le cose non possono andare in un modo o nell’altro, non ci sono più pericoli per Zeus: la sua seconda moglie è Temi, divinità oracolare che non formula consigli ma pronuncia sentenze esponendo il futuro secondo i decreti divini dello sposo, necessari ed irrevocabili.
Tema ricorrente nei miti teogonici è quello dell’incatenamento del rivale, del nemico, che si collega al modo dell’esecuzione capitale chiamato apotumpanismòs, consistente in un’esposizione infamante del condannato, rigettato dal mondo al quale apparteneva, presso i santuari alla frontiera del paese: egli era mantenuto spogliato di tutti i suoi onori, immobile e impotente, legato in piedi o seduto, in uno stato di quasi morte, di morte virtuale. Zeus è divenuto il signore dei legami. Egli è sempre sveglio, non conosce mai la notte del sonno, ma sempre, invece, una vigilanza sovrana, che culmina nella sua capacità di sorprendere, di paralizzare e d’incatenare l’avversario.
Questa resistenza al sonno segnala la sua signoria sul potere di legare: Sonno (Hùpnos), infatti, ha reti magiche e catene invisibili, simili a quelle che getta sui mortali, per non lasciarli più, il suo fratello gemello Morte (Thànatos), e Zeus non se ne lascia imprigionare. Questo colpo d’occhio acuto di Zeus, a cui non ci si può sottrarre, è associato con il colpo del tuono e del fulmine: secondo la tradizione greca, infatti, lo sguardo è di natura ignea; inoltre esiste il collegamento tra l’occhio rotondo dei Ciclopi e la loro funzione di maestri del fuoco metallurgico, di fabbricatori del fulmine. Se l’incatenamento è la relegazione nell’immobilità buia della Notte del Tartaro, lo slegare significa, invece, ricondurre alla luce del Sole.
Potere di legare, incatenare, Occhio/sguardo e Fulmine/fuoco, sono dunque tra loro strettamente connessi.
Anche nelle teogonie orfiche compare il nome della dea Metis, androgina, dalla doppia natura: grande divinità primordiale, potenza acquatica, fluida, polimorfa (contenente potenzialmente, quindi, tutte le forme suscettibili di apparire nel corso del divenire), è la generatrice all’inizio del mondo, colei che tesse, intreccia, combina e annoda (ancora una volta compare il potere di legare) i fili che compongono il tessuto del divenire. Quando Zeus ingloba Metis, tutta la sostanza di ogni essere torna allo stato primordiale, unito ed indistinto, ed egli, quando la fa uscire dal suo cuore per portarla alla luce, compie una seconda creazione.
Ma il processo teogonico non si ferma con Zeus, egli cede il suo trono al figlio Dioniso. Secondo il mito, per macchinazione di Hera (gelosa perché Dioniso era il frutto del tradimento di Zeus con la mortale Semele) i Titani sbranarono il fanciullo divino e banchettarono con le sue carni. Zeus, adirato, li fulminò, e dalla fuliggine dei vapori che si levarono da essi, sedimentata in materia, nacquero gli uomini; ma il corpo di Dioniso era mischiato tra quella cenere, essendosi i Titani cibati di lui. Così, gli uomini risultano composti delle ceneri sia di Dioniso sia dei Titani, partecipi, quindi, sia della vittima sia dei carnefici, sia del Bene sia del Male, sia del Celeste sia del Terrestre. Caratteristico della razza umana è quindi questo essere ambiguo, contraddittorio, enigmatico.
Il dio Dioniso rappresenta l’unità del mondo disperso, variegato ed incostante, l’oscillazione alternata dall’uno al molteplice. Il suo mito fonda anche, miticamente, l’infelicità della condizione umana, ed insieme la via della sua salvezza: la teogonia orfica diventa un’antropogonia. La razza degli uomini, uscita dalle ceneri dei Titani fulminati, non porta solo il peso della dispersione criminale delle membra divine, ma, purificandosi con i riti e il modo di vita orfici, può essa stessa far ritorno all’unità perduta del dio.
Tema ricorrente nei miti teogonici è quello dell’incatenamento del rivale, del nemico, che si collega al modo dell’esecuzione capitale chiamato apotumpanismòs, consistente in un’esposizione infamante del condannato, rigettato dal mondo al quale apparteneva, presso i santuari alla frontiera del paese: egli era mantenuto spogliato di tutti i suoi onori, immobile e impotente, legato in piedi o seduto, in uno stato di quasi morte, di morte virtuale. Zeus è divenuto il signore dei legami. Egli è sempre sveglio, non conosce mai la notte del sonno, ma sempre, invece, una vigilanza sovrana, che culmina nella sua capacità di sorprendere, di paralizzare e d’incatenare l’avversario.
Questa resistenza al sonno segnala la sua signoria sul potere di legare: Sonno (Hùpnos), infatti, ha reti magiche e catene invisibili, simili a quelle che getta sui mortali, per non lasciarli più, il suo fratello gemello Morte (Thànatos), e Zeus non se ne lascia imprigionare. Questo colpo d’occhio acuto di Zeus, a cui non ci si può sottrarre, è associato con il colpo del tuono e del fulmine: secondo la tradizione greca, infatti, lo sguardo è di natura ignea; inoltre esiste il collegamento tra l’occhio rotondo dei Ciclopi e la loro funzione di maestri del fuoco metallurgico, di fabbricatori del fulmine. Se l’incatenamento è la relegazione nell’immobilità buia della Notte del Tartaro, lo slegare significa, invece, ricondurre alla luce del Sole.
Potere di legare, incatenare, Occhio/sguardo e Fulmine/fuoco, sono dunque tra loro strettamente connessi.
Anche nelle teogonie orfiche compare il nome della dea Metis, androgina, dalla doppia natura: grande divinità primordiale, potenza acquatica, fluida, polimorfa (contenente potenzialmente, quindi, tutte le forme suscettibili di apparire nel corso del divenire), è la generatrice all’inizio del mondo, colei che tesse, intreccia, combina e annoda (ancora una volta compare il potere di legare) i fili che compongono il tessuto del divenire. Quando Zeus ingloba Metis, tutta la sostanza di ogni essere torna allo stato primordiale, unito ed indistinto, ed egli, quando la fa uscire dal suo cuore per portarla alla luce, compie una seconda creazione.
Ma il processo teogonico non si ferma con Zeus, egli cede il suo trono al figlio Dioniso. Secondo il mito, per macchinazione di Hera (gelosa perché Dioniso era il frutto del tradimento di Zeus con la mortale Semele) i Titani sbranarono il fanciullo divino e banchettarono con le sue carni. Zeus, adirato, li fulminò, e dalla fuliggine dei vapori che si levarono da essi, sedimentata in materia, nacquero gli uomini; ma il corpo di Dioniso era mischiato tra quella cenere, essendosi i Titani cibati di lui. Così, gli uomini risultano composti delle ceneri sia di Dioniso sia dei Titani, partecipi, quindi, sia della vittima sia dei carnefici, sia del Bene sia del Male, sia del Celeste sia del Terrestre. Caratteristico della razza umana è quindi questo essere ambiguo, contraddittorio, enigmatico.
Il dio Dioniso rappresenta l’unità del mondo disperso, variegato ed incostante, l’oscillazione alternata dall’uno al molteplice. Il suo mito fonda anche, miticamente, l’infelicità della condizione umana, ed insieme la via della sua salvezza: la teogonia orfica diventa un’antropogonia. La razza degli uomini, uscita dalle ceneri dei Titani fulminati, non porta solo il peso della dispersione criminale delle membra divine, ma, purificandosi con i riti e il modo di vita orfici, può essa stessa far ritorno all’unità perduta del dio.
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