Nel suo saggio Non ci resta che ridere, Andrea Tagliapietra affronta l'epoca della massa ridente, quell'epoca (la nostra) che segue alle età antica e medioevale (in cui il riso era rispettivamente divino e diabolico, ma comunque sempre trascendente) e radicalizza quella moderna (il cui riso immanente fonda la serietà che modella la struttura della realtà, la sua presa in carico se non la sua docile e acritica accettazione) scivolando "verso la banalità e la grigia quotidianità delle passioni tristi, verso la noia e il trastullo" del riso inautentico, anonimo, finto (Heidegger) dell'ultimo uomo - che "soffre così profondamente da aver dovuto inventare il riso" (Nietzsche) -, quel riso registrato e confezionato delle sit-com, quel riso delle pubblicità e del consumo.
Un'epoca che rischia la "fine del riso" ha bisogno di ridestare il senso autentico del ridere, di quel "proprio" dell'uomo - come volevano Aristotele ("l'uomo soltanto, fra tutti gli animali, ride") e Porfirio - che è il ridere, diaframmatica e liminare piega tra la ragione e il sentimento, la mente e il corpo, l'interno e l'esterno, il sé e l'altro, che mette profondamente in crisi ogni concezione dualistica di ascendenza cartesiana. Ha bisogno di riconoscere che la drammaturgia del riso mette in atto un perturbante e socratico moto centrifugo che finisce per far riconoscere allo spettatore della scena comica di essere "decentrato rispetto a se stesso, alla sua singolarità e alla presunta stabilità delle sue convinzioni, perché il ridicolo e il comico sostituiscono alla figura della necessità la categoria del caso, dell'accidentalità e della casualità". E ridere per il gioco del caso significa perdere la propria presunta padronanza e mettersi in gioco, relativizzare la realtà mettendola in rapporto di continuità con la possibilità, con il forse potrebbe essere che guasta l'intrasformabilità del reale sostenuta dagli accademici e parlamentari agelasti ("coloro che non ridono", secondo Rabelais) e preserva la ricchezza dell'esperienza umana.
Se ormai "il riso della massa ridente è un'arma spuntata che riconosce la propria debolezza e trasforma la protesta in autoderisione e, quindi, in beffarda e amara rassegnazione", il riso autentico, comico, eversivo, invece, rende percepibile "una frattura, una soluzione di continuità, una sospensione della quotidianità e delle norme logiche" all'interno dell'esperienza della realtà, permettendo di intravedere un'altra dimensione: riconoscendo e cogliendo l'accidentalità e il caso, il riso mette in fibrillazione la realtà, ne destabilizza il significato ideologico come ciò a cui ci si deve adeguare, come ordine costituito cui obbedire, riapre invece i giochi della realtà e permette di pensare la possibilità al posto della necessità e dell'assolutismo.
E permette di pensarlo non come problema da risolvere, bensì come "enigma che,come tutti i veri enigmi, non chiede soluzione, ma la risoluzione di esserne all'altezza e di saperlo sopportare": il sorriso e l'enigma è il binomio con cui si conclude il saggio di Tagliapietra. "Il sorriso accoglie l'enigma in sé e vi risponde nell'unico modo consentito, ossia dimostrando di esserne all'altezza", di saper sopportare la struttura paradossale della condizione dell'essere umano, la duplicità e l'ambivalenza di chi "luccica di guizzanti enigmi e risate" (Nietzsche).
0 interventi:
Posta un commento