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lunedì 24 marzo 2014

la pubblicità come discorso morale

La tesi del bel saggio di Emanuele Coccia, Il bene nelle cose, è che le merci siano "la figura estrema del bene, l'ultimo nome che l'Occidente ha dato al bene" e, di conseguenza, che la pubblicità sia "un immenso esperimento dell'immaginazione morale collettiva contemporanea, quello assieme più vasto, più pervasivo, più visibile" e "un'immensa riflessione iconica e concettuale sul mondo e i suoi elementi, e assieme sulla felicità umana, le sue forme, le sue possibilità". Questo amore dell'uomo per le cose, quest'amore effimero di un uomo che vive di cose e per le cose, è affrontato dall'autore in modo interessante, originale e serio, evitando posizioni apocalittiche (moralistiche)  e indagandolo, invece, con "uno sguardo più indulgente e meno paranoico di quello dei maestri del sospetto e assieme più rigoroso"; ma non si cade, ovviamente, neanche in posizioni integrate. Si riconosce, piuttosto, che il desublimato universo morale della pubblicità è perfettamente analogo ad altre forme di morale pubblica, esposta sui muri o in spazi pubblici, che nulla hanno di tratti sublimi: "la celebrazione di una battaglia di sterminio di un popolo nei bassorilievi romani non è necessariamente più nobile e sublime che l'invito a riconoscere in una borsa il segreto della nostra felicità".   
Proprio dai muri parte l'analisi di Coccia, perché è su di essi che storicamente vita spirituale e vita materiale divengono inseparabili, è su di essi che si incarnano la memoria e l'autocoscienza di una città, che è soprattutto "un essere di superficie che non smette di darsi a vedere, di comunicare l'immagine di sé, di parlare di se stessa". Se la politica è la forma suprema di architettura (Aristotele) e l'architettura è sempre l'organo di un sogno pubblico, i muri sono "cosa politica" e "fantasmagoria diventata pietra" (Benjamin), sono lo "spazio di proiezione e di produzione fantasmagorica" pubblica e condivisa - tanto per scritture e immagini ufficiali, quanto per umori del popolo, opinioni individuali, proteste e ribellioni - nel quale insieme la città si costituisce materialmente e si fa autocoscienza, riflettendo su se stessa, sul proprio ethos collettivo e sulla propria moralità concreta (Hegel): "è in questo spazio che ogni cittadino apprendeva i saperi politici condivisi, le regole pubbliche, i valori civici universalmente riconosciuti, l'assiologia della polis". In questa antica tradizione di una "morale su pietra" si iscrive, dunque, la pubblicità, essendo l'ultima trasformazione di questo sapere pubblico del bene e del male che oriente le nostre scelte e definisce i nostri costumi. 
Ancora, secondo Coccia la pubblicità è il dialetto principale con cui le città della nostra epoca formulano la morale contemporanea che ha ormai "assunto il fatto che il destino dell'uomo è una vita tra le cose e che questa vita tra le cose non potrà, mai, essere trascesa". Essa è, quindi, il sintomo della rivoluzione morale che afferma la vita ordinaria, l'immanenza della felicità, la presenza del bene sulla terra, "un bene che coincide con l'infinità delle forme che la materia e gli elementi possono assumere", con le cose stesse, la loro forma e colore e profumo: "la pubblicità è la moralizzazione integrale del mondo umano". "Quella veicolata dalla pubblicità è una morale integralmente intramondana: non promette salvezza da questo mondo ma definisce i modi in cui le cose del mondo si fanno felicità oggettiva".

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