Altro desiderio primario che stanno al nocciolo del feerico è quello del ristoro, cioè dell'evasione dal tedio. Dovremmo - secondo Tolkien - guardare ancora il verde ed essere nuovamente stupiti, dovremmo incontrare il centauro e il drago, e poi fors'anche all'improvviso scorgere pecore, cani, cavalli - e beninteso lupi. Questo ristoro, le fiabe ci aiutano a averlo, e in questo senso soltanto il gusto per esse può renderci o mantenerci fanciulli. Il ristoro (che implica il ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. Tolkien non arriva a dire vedere le cose come sono, non vuole trovarsi alle prese con i filosofi, anche se si azzarda a dire vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle, vale a dire quali entità separate da noi stessi. Si tratta cioè di pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare - dalla possessività. Questo tritume è il prezzo dell'appropriazione delle cose: per Tolkien abbiamo messo le mani su di loro e poi le abbiamo chiuse a chiave nel nostro forziere, le abbiamo acquisite e, acquisendole, abbiamo cessato di guardarle.
Questo è Mooreeffoc, cioè la defamiliarizzazione che G.K. Chesterton descrive nel suo studio critico su Charles Dickens come la bizzarria di cose che sono divenute ovvie, quando le si scorga, all'improvviso, da un altro punto di vista. Mooreeffoc è una parola immaginaria, ma la si può trovare bell'e scritta in ogni villaggio inglese, essendo infatti l'insegna di un Coffee-room, un caffè, vista dall'interno attraverso una porta vetrata in una buia giornata londinese. Questo virtuoso recupero della freschezza della visione fa sì che ci si renda conto, all'improvviso, che l'Inghilterra è un paese alieno, che si scorga la sorprendente stranezza e singolarità dei suoi abitanti, delle loro costumanze e abitudini.
La fantasia è così capace di aprire il forziere umano e di farne volar via tutte le cose racchiusevi, come uccelli da una gabbia, facendoci accorgere allora che tutto ciò che avevamo o sapevamo era pericoloso e dotato di poteri, nient'affatto saldamente impastoiato, sì anzi libero e selvaggio, e tanto poco nostro.
Infine, Tolkien prende in esame l'evasione e la consolazione. I critici che definiscono le fiabe letteratura di evasione confondono, non sempre in buona fede, l'evasione del prigioniero con la fuga del disertore. L'evasione che non è diserzione ha per compagni disgusto, rabbia, repulsione e rivolta, è la resistenza del patriota sempre preferibile all'acquiescenza del collaborazionista. Tali critici contrappongono la fiaba alla vita reale, ma l'idea che le automobili siano più vive dei centauri o dei draghi appare a Tolkien ben curiosa. Perché, si chiede l'autore, non dovremmo fuggire o condannare la tetra assurdità assira dei cappelli a cilindro e l'orrorre morlockiano delle fabbriche? E ci sono anche altre e più profonde evasioni che sempre hanno fatto la propria comparsa nella fiaba, altre cose più cupe e terribili che non il frastuono, il puzzo, la spietatezza e l'assurdità del motore a combustione interna: fame, sete, povertà, dolore, sofferenza, ingiustizia, morte. Tutte cose dalle quali le fiabe offrono una sorta di evasione.
Così come ci sono ambizioni e desideri ai quali le fiabe offrono una sorta di soddisfazione e consolazione: visitare, liberi come pesci, le profondità marine, volare, conversare con altri esseri viventi. Ma la consolazione delle fiabe ha anche un altro risvolto accanto alla soddisfazione immaginaria di antichi desideri: ben più importante è la consolazione del lieto fine. Il racconto eucatastrofico è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione; l'improvviso capovolgimento gioioso smentisce l'universale sconfitta finale, permette una fugace visione della gioia, gioia al di là delle mura del mondo.