Saggio non completamente soddisfacente quello di Catherine Millot su Gide. Genet. Mishima, tre dei miei scrittori preferiti, motivo perciò dell'acquisto. La parziale delusione deriva dall'impianto eccessivamente biografico e dalla prospettiva troppo psicologica (o riduttivamente psicologica) e poco critico-letteraria dei tre brevi testi dedicati agli autori accomunati, secondo l'autrice, dall'uso di un'intelligenza perversa, o di una perversione intelligente: "essi hanno rinunciato, in quanto soggetti, a ogni identità con se stessi, a ogni pretesa di unicità. Distruggendo la nozione di un Io coerente, la loro diversità nei rapporti intersoggettivi è a immagine del passo oscillante simile a quello dello zoppo che connota nell'intimo la loro differenza. La divisione della personalità serve loro come arma al fine di destituire ironicamente quel sovrano che l'Io padrone di sé immagina di essere, mentre la loro eccentricità configura un'altra sovranità, quella del desiderio e della sua ribelle singolarità. Non ci troviamo qui sotto il segno del conflitto interiore, ma dell'affermazione polimorfa. Essi sono non perfidi, ma bifidi, bicefali, mitologici come centauri, alle volte patetici quanto il Minotauro".
Così, Gide è un ibrido di baccante e Spirito Santo, è cielo e inferno al tempo stesso, la cui devianza assume il volto della saggezza e il cui erotismo dallo stile femminile lo lascia aperto a tutti i venti del desiderio, lo offre alle forze paniche della natura (celebrate ne I nutrimenti terrestri), lo dissolve da ogni identità, trasforma la sua anima in una 'locanda aperta al crocevia' fedele al godimento senza mai disdegnare lo scandalo.
Genet fa della disgrazia una vittoria spingendo il destino all'estremo finché questo non si ribalta, domina la situazione volendola, fa miracoli di una posizione di scarto trasformando l'abiezione in una nuova forma di amore, viziosa e poetica insieme, magnificandola, sublimandola; egli stesso è un diamante, giustamente chiamato solitario, che la sofferenza e la vergogna hanno prodotto, desidera essere santo sacrificando il proprio orgoglio su strade imprevedibili e inventate, e funambolo che sul filo del rasoio unisce i due poli della solitudine umana - essere solo ed essere il solo, esclusione ed eccezione - dimostrandone l'identità.
Infine, anche Mishima mostra un radicato sentimento di tragica esclusione, un'identità di paria, la convinzione di essere diverso e sottratto alla sorte comune, e quale rivincita sceglie di trovarsi un posto a parte imparando a gioire di tutto, negando la castrazione con il piacere, sfidandosi a non avere simili, anche se tale trionfo non può essere esente dal senso di colpa per la diserzione agli obblighi normali; se carne e spirito, amore e desiderio, bellezza e bruttezza, grazia e disgrazia, purezza e lordura, sono poli opposti e assoluti di purezza e perfezione che risultano separati e la cui mescolanza è esclusa, si dà però forse una possibilità di riconciliare l'universale e l'esistente, l'arte e la vita: il sole e l'acciaio degli strumenti di ginnastica e delle arti marziali possono spogliare il corpo della sua particolarità innalzandolo all'universale, all'idea, al concetto, alla forma pura, mentre la letteratura può impiegare le parole in modo non conforme alla loro natura, tradire sottilmente la loro funzione, assemblarle in maniera perversa, universalizzando l'individualità dello scrittore in uno stile; stile e muscoli, corpo e parole, polarità ammessa in un io che è scontro e contraddizione, ma che può godere veramente insieme di istante ed eternità, che rispondono a desideri opposti, solo nella morte bella dell'eroe: "che cosa c'è di così terribile nelle viscere esposte all'aria? Che cosa d'inumano a considerare l'uomo col suo midollo e la sua corteccia, senza fare distinzione tra il fuori e il dentro - come si fa per le rose? Ah! Se soltanto si potesse mostrare il rovescio dello spirito e della carne, rigirarli delicatamente come i petali della rosa, esporli in pieno sole e alla brezza di primavera!" (Il padiglione d'oro).
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