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venerdì 7 novembre 2014

piccola filosofia dello zombie

Nella sua Piccola filosofia dello zombie, Maxime Coulombe propone una riflessione attraverso l'orrore, una messa alla prova filosofica di una figura come quella dello zombie che sembra rappresentare inquietudini e paure umane, essere sintomo di ciò che tormenta la coscienza della nostra epoca e, forse, si preferisce sia taciuto, come una certa stanchezza, una volontà di farla finita.
Quella dello zombie è un'immagine che sopravvive nel tempo, capace di trasformarsi plasticamente e attraversare le epoche mostrando sempre ciò che anima una cultura in un dato momento della sua storia. Nato nella cultura africana e haitiana come figura che evoca la schiavitù forzata, un soggetto depersonalizzato e incapace di ribellarsi, dal diciannovesimo - e poi pienamente negli anni Venti e Trenta del ventesimo - secolo lo zombie entra nel folklore occidentale, come immagine di un individuo drogato o stregato da una persona malvagia ma la cui condizione di incoscienza è temporanea. Una svolta interpretativa si ha negli anni '60-'80, ad opera soprattutto del cinema di George A. Romero che fa dello zombie non più il frutto momentaneo di un sortilegio, ma una nuova specie che si nutre degli uomini ed è in grado di trasmettere in modo epidemico la propria condizione, condizione irreversibile dovuta a forze soprannaturali che riportano i morti alla vita, privi di coscienza, causando orrore senza altro scopo apparente che la distruzione stessa. 
Figura del doppio, a rendere particolarmente perturbante lo zombie è la sua vicinanza all'umano, il fatto che esso è un quasi-uomo. Lo zombie richiama l'immagine di un individuo traumatizzato più che di un mostro, facendosi metafora di un soggetto contemporaneo vittima dello shock della modernità, la cui coscienza, ferita dal ritmo del mondo, dalla riduzione delle affezioni, dalla meccanizzazione dei gesti, è resa fragile. Lo zombie, così, non sarebbe la figura dell'eccezione ma l'incarnazione di un frammento della reale condizione umana, come se nel cuore della modernità risiedesse qualcosa di simile al divenire-zombie.
Figura del represso, l'orrore e la mostruosità dello zombie segnano il ritorno della corporeità umana, ci ricordano la nostra natura mortale e contingente: mettendo in scena l'abiezione, lo squarcio, l'impurità, la degradazione, lo zombie mostra ciò che la cultura cerca di nascondere fuori dal campo del visibile, attraverso l'imposizione del controllo del corpo, l'ossessione dell'annullamento delle manifestazioni del corpo e della ritualizzazione e standardizzazione progressive delle maniere corporali. L'abietto, secondo Julia Kristeva, punta verso la natura dell'uomo e verso tutto quello che la coscienza umana ha dovuto respingere, allontanare, per formarsi, distanziamento che ha come corollario il rifiuto, la rimozione, della nostra animalità e fatalità. Lo zombie, quindi, è il reale che resiste alla simbolizzazione e mostra il limite e la fragilità dell'identità umana, del nostro sistema e ordine sociali e culturali, la loro natura convenzionale. Se il grottesco, secondo Michail Bachtin, è una reazione di libertà e permette lo sfogo, il divertimento, la rivincita, lo splatter dello zombie sembra essere però un orrore che non riesce a trasformarsi in progetto, utopia, contro-mondo: esso ci libera ma è incapace di sognare, sopra le rovine dell'ordine stabilito, un futuro alternativo.
Questa incapacità manifesta una certa pulsione di morte, un certo desiderio di assistere, in mancanza della possibilità di sognare qualcosa di migliore, alla distruzione del mondo. Così, infine, lo zombie si fa anche figura dell'apocalisse, rappresentando uno sfogo sublime alle paure di fronte alla minaccia costante della distruzione dell'umanità, mettendo in scena il fantasma, o perfino il sogno, di assistere alla scomparsa dell'umanità. Gli attacchi degli zombie destabilizzano irrimediabilmente l'equilibrio precario del nostro mondo, e questo annientamento ci libera da una condizione deprimente, è il sollievo ultimo di ogni nostra tensione. Il sogno dell'apocalisse funziona perché permette di liberarsi da una passività imposta, di ritrovare, anche solo in uno spazio minimo, una sensazione di dominio: la fine dell'umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l'avremmo, almeno immaginariamente, sognata e sperata, in una rivalsa simbolica sull'ordine del mondo.


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