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domenica 14 giugno 2015

derrida - letture primavera estate

Riprendo in mano e torno brevemente a riflettere su due piccoli, densi, saggi di Jacques Derrida letti in questi ultimi mesi primaverili, in propedeutica preparazione per due prossime e più corpose letture estive (Glas e La carte postale).

Il tempo degli addii, lettura di Hegel e Heidegger per dire addio al tempo che non è quello che si crede, per abbandonare in particolare una definizione ben conosciuta, o almeno pretesa tale, dell'avvenire come futuro: l'avvenire, l'a-venire, non è il futuro, non si riduce ad esso. Categoria fondamentale, a riguardo, è quella del "veder venire" che, in effetti, è sì anticipare, presentire, progettare il futuro, attendersi ciò che viene, ma è pure e sempre anche lasciar venire e lasciarsi sorprendere da ciò che non si attende, dalla sorpresa. L'avvenire è chance e caso, anticipazione e irruzione, metamorfosi ed esplosione lacerante, plasticità e plastico, è impadroneggiabile, vertigine, rischio.

Ne Il maestro o il supplemento di infinito sono toccati e legati assieme alcune trame tra i cui fili dà un po' vado infilando le dita. L'identità dell'io che trema in segreto, il dubitare che ci sia un'identità che resta essa stessa, propriamente se stessa, veder/lasciar/far tremare il valore di "proprio" e di "stesso", l'ipseità dello stesso, il potere e l'autorità di ogni signore e maestro. Declinato nel senso della "maestria", se è vero che l'allievo mangia i resti del suo maestro, è però vero che anche quest'ultimo mangia i resti dell'allievo, ne ha bisogno, li desidera, li chiede, ne è privo; e l'uomo non resta il maestro che nella misura in cui è umano, bisognoso, debitore, in condizione di farsi perdonare. 
E al maestro non si deve restituire niente, nessun "grazie". Ingratitudine ed etica. Etica che c'è solo laddove la norma è in difetto e resta da supplire, mentre se ci fosse l'assicurazione e la garanzia della legge ci sarebbero solo programmi, ma nessuna virtù.

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