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sabato 5 novembre 2011

ricorda per sempre il 5 novembre

Ricorda per sempre il cinque Novembre,
e la Congiura contro lo Stato.
Ricorda e sta' attento che quel tradimento
mai e poi mai sia dimenticato.


venerdì 4 novembre 2011

kant e l'ornitorinco

More about Kant e l'ornitorincoSpesso, di fronte a un fenomeno sconosciuto, si reagisce per approssimazione: si cerca quel ritaglio di contenuto, già presente nella nostra enciclopedia, che bene o male sembra rendere ragione del fatto nuovo. Un esempio lo troviamo in Marco Polo, che a Giava vede dei rinoceronti. Ma si tratta di animali che lui non ha mai visto. Siccome la sua cultura gli metteva a disposizione la nozione di unicorno, come appunto di quadrupede con un corno sul muso, egli designa quegli animali come unicorni.
L’ornitorinco viene scoperto in Australia a fine Settecento. Nel 1798 un naturalista invia al British Museum la pelle impagliata di un animaletto che i coloni australiani usavano chiamare watermole, duck-mole, o duckbilled platypus. L’animale fa pensare subito al becco di un’anatra innestato sulla testa di un quadrupede e ritenuto opera dei diabolici tassidermisti cinesi, abilissimi nell’innestare, per esempio, una coda di pesce in corpi di scimmia per creare dei mostri sirenoidi. Nel 1800 viene descritto come un animale con triplice natura di pesce, di uccello e di quadrupede e nominato paradoxus perché incategorizzabile. Nel 1802 si vede che l’animale viene a galla per respirare e si pensa a un mammifero, ma non ha ghiandole mammarie con capezzoli ed è oviparo come uccelli e rettili. Nel 1803 si crea la categoria dei monotremi: non sono mammiferi perché non hanno ghiandole mammarie (in realtà vengono scoperte nel 1824, ma sono senza capezzoli, hanno dei pori che secernono latte), non sono uccelli perché non hanno ali, non sono rettili perché sono a sangue caldo e non possono essere neppure pesci. Il dibattito continua e solo nel 1884 si stabilisce che i monotremi sono mammiferi e ovipari.
Il primo tentativo di capire quello che si vede è inquadrare l’esperienza in un sistema categoriale precedente. Ma allo stesso tempo le osservazioni mettono in crisi il quadro categoriale, e allora si cerca di riadattare il quadro. Kant dice che i concetti empirici non possono venire definiti una volta per tutte come i concetti matematici, ma ammettono un primo nucleo intorno al quale poi si raggrumeranno (o si ordineranno armoniosamente) le successive definizioni.
Se lo schema dei concetti empirici è un costrutto che cerca di rendere pensabili gli oggetti e se dei concetti empirici  non si può dare sintesi mai compiuta, perché nell’esperienza si possono scoprire sempre nuove note del concetto, allora gli schemi stessi non potranno che essere revisibili, fallibili, destinati a evolversi nel tempo. Se i concetti puri dell’intelletto potevano costituire una sorta di repertorio intemporale, i concetti empirici non possono che diventare storici, o culturali.
Kant non ha detto questo, ma pare difficile non dirlo se si porta alle sue ultime conseguenze la dottrina dello schematismo. Naturalmente a questo punto anche il trascendentalismo subirà la sua rivoluzione copernicana. La garanzia che le nostre ipotesi siano giuste non sarà più cercata nell’a priori dell’intelletto puro bensì nel consenso, storico, progressivo, temporale, della Comunità. Il trascendentale si storicizza, diventa un accumulo di interpretazioni accettate dopo un processo di discussione, selezione, ripudio.

(da Umberto Eco, Kant e l'ornitorinco

Oppure si può dare il caso che, come ho visto su un'immagine postata da un mio ormai ex-studente su facebook, questa paradossale creatura che è l'ornitorinco derivi da una fusione à la Dragonball tra un'anatra e un castoro. O l'esito di un matrimonio inter-specie.




actarus

More about ActarusCon Actarus Claudio Morici ci racconta la vera storia di un pilota di robot, tra problemi di alcolismo, incomprensioni sul lavoro,  costruzione mediatica del personaggio, voglia di prendersi una vacanza perché non si può costantemente pensare a salvare il mondo, è logorante. Qualche momento ironico e divertente il libro ce l'ha, è vero, ma le sue qualità non vanno molto oltre a questo.

- C'è una cosa in effetti che volevo chiederle...
Goldrake avanti! Si è buttato. Ormai è difficile tornare indietro. Oh, magari non succede niente. Oh, stavolta ci provo, in fondo è lui che me l'ha chiesto, no? Ma che me ne frega a me.
- Dottore, è da un po' che penso di prendermi una vacanza... Una piccola vacanza di dieci quindici giorni. Credo di meritarmela dopo anni di lavoro ininterrotto. Anche Gundam si è preso una settimana, lo scorso anno.
Il Dottore non si scompone, non perde la patina di grande dignità, impegno, attenzione ai problemi dell'universo. Se ci fosse un campionato mondiale della dignità lui di certo andrebbe in finale. S'è incazzato? Si volta verso la montagna, con le mani dietro la schiena, riflette. Rimane in silenzio per qualche secondo. C'è una musica particolare, quella dei momenti finali, una musica che ti fa capire che si chiude un capitolo, che la guerra non è finita ma che oggi la Terra non verrà spazzata via grazie alla passione di un pugno di eroi. Il Dottore, rivolto ad Actarus:
- Per la richiesta delle ferie non devi rivolgerti a me. C'è l'ufficio amministrativo apposta, compila il modulo e calcoleremo le ferie maturate.


giovedì 3 novembre 2011

übermensch


Nietzsche come übermensch (super/oltre uomo).

bande filosofiche

Io, Julius Puech, chi sono al momento? Ebbene, io sono la testa pensante e il nervo della guerra dalla Fas [Frazione Armata Spinozista]. Io regno, grottesco e pericoloso, su dieci individui di sesso maschile, altrettanto incazzati e suicidi. Animati dalla somma intelligenza di coloro i quali avanzano verso il burrone grigio della morte eventuale, noi filosofiamo con la gloria effimera, in accordo con il mondo che ci circonda.
Questo il protagonista di Spinoza incula Hegel, romanzo nero di guerriglia e di passione che Jean-Bernard Pouy ambienta in una Francia post-atomica alla Mad Max o alla Ken il guerriero, raccontando di scontri tra bande che di filosofico, apparte il nome, hanno secondo me ben poco.

mercoledì 2 novembre 2011

corpo a corpo con la morte

Nel suo saggio Filosofando con Harry Potter, Laura Anna Macor definisce la saga della Rowling come «un vero e proprio esercizio spirituale, una sorta di ginnastica interiore, che niente ha da invidiare al Fedone platonico o ai virtuosismi teoretici di Essere e tempo» di Heidegger, collocabile negli scaffali delle librerie in compagnia non solo di libri fantasy o per ragazzi. La vera co-protagonista di tutta la vicenda sarebbe, infatti, la Morte e lo scontro – uno scontro interiore, più che esteriore e carnale – con essa dei diversi personaggi: la brama umana di distruggere i limiti della mortalità e i molti tentativi messi in atto dai maghi per vincere la morte (l'Elisir di Lunga Vita estratto dalla Pietra Filosofale, il sangue di unicorno, gli Inferi, gli Horcrux, i Doni della Morte) si contrappongono all'accettazione della dimensione umana nel pieno delle sue implicazioni, vale a dire anche nel pieno delle sue limitazioni («Come scrive l'eminente filosofo mago Bertrand de Pensées-Profondes nel suo famoso trattato Uno studio delle possibilità di invertire gli effetti contingenti e metafisici della morte naturale, con particolare riguardo alla reintegrazione di essenza e materia: "Lasciate perdere. Non succederà mai.», da Le fiabe di Beda il Bardo). La vera differenza tra Voldemort e Harry Potter consiste nell'atteggiamento nei confronti della morte che li contraddistingue: da un lato la Morte viene temuta e, proprio per questo, sfidata, dall'altro viene temuta ma rispettata, riconosciuta come irreversibile. Il rispetto di questa linea di confine, di questo limite, definisce l'uomo in quanto tale.
La priorità di dignità e giustizia rispetto al semplice mantenimento dell'esistenza a tutti i costi, il subordinare la sopravvivenza ad altri e più alti valori – cioè, accettare la morte – sono caratteristiche di Harry Potter sin dal suo primo anno a Hogwarts: «Se uno finisce dannato per sempre, meglio morire, no?», sostiene Harry quando il centauro Fiorenzo lo rende edotto degli effetti del bere il sangue di unicorno (Harry Potter e la Pietra Filosofale). E la semplicità e l'immediatezza di questo parere si rivelano autentiche dopo essere state nuovamente acquisite attraverso le molte sofferenze e innumerevoli traversie della sua travagliata adolescenza: «Vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire» (Harry Potter e i doni della Morte). «Peggio che morire sembra essere tutto ciò che priva l'essere umano del suo proprium, vale a dire della sua dignità e della sua affettività», spiega l'autrice, richiamando la spiegazione del professor Lupin sugli effetti del malvagio potere dei Dissennatori, che non portano via la vita ma l'anima, non rubano l'esistenza ma l'umanità: «È molto peggio. Puoi esistere anche senza l'anima, sai, purché il cuore e il cervello funzionino ancora. Ma non avrai più nessuna idea di te stesso, nessun ricordo... nulla. Non è possibile guarire. Esisti e basta. Come un guscio vuoto. E la tua anima se n'è andata per sempre... è perduta» (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban).
È proprio l'accettazione della morte, riconosciuta come condizione definitoria del proprio essere, ad orientare l'agire umano facendolo rispondere a un ordine di ragioni superiore al mero impulso alla sopravvivenza, alla richiesta biologica di salvaguardia personale – il rispetto della morale e dell'umanità, l'impegno per la concretizzazione della giustizia –, e a rendere possibile quella magia antica e potente che è l'amore: «la magia dell'amore consiste nella protezione fornita alle persone amate, nel momento in cui si sia pronti a morire per loro», in un effetto scudo prodotto dal sacrificio della vita compiuto per amore, ed inoltre è «l'unica via autentica che permette all'uomo di rimanere tale, cioè di accettare la propria mortalità, senza per questo dover però rinunciare a ogni speranza in una qualche forma di sopravvivenza», spiega la Macor.
Tutto questo Voldemort non lo ha mai compreso: «"Niente è peggio della morte, Silente!" ringhiò Voldemort. "Ti sbagli" replicò Silente. "In verità, l'incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza» (Harry Potter e l'ordine della fenice). Ed è per questo che alla fine Harry Potter risulta essere il vero padrone della Morte, il legittimo proprietario e degno possessore dei suoi doni, il che non significa invulnerabile o immortale, poiché è diverso il modo di intendere la vittoria sulla morte di Harry rispetto a quello propagandato da Voldemort: una via radicalmente altra rispetto alla negazione dell'umanità e all'annullamento dei confini naturali – rappresentati anche dall'abbrutimento fisico, dal processo di imbestialimento e deformazione cui Voldemort va incontro divenendo «una spaventosa mistura di teschio e rettile, a significare che il progetto di liberazione dai vincoli dell'umano è sicuramente riuscito, anche se non nella direzione programmata» – è quella rappresentata dal sopravvivere alla morte nel ricordo e nell'affetto dei propri cari. Uno dei simboli di questa accettazione della morte è proprio la fenice: «ben lungi», afferma  l'autrice, «dal rappresentare, come di primo acchito si potrebbe credere, la vittoria sulla morte, apparentemente annullata nelle periodiche rinascite, la fenice è invece l'emblema più compiuto dell'interiorizzazione del limite: essa rinasce perché muore, non accetta di morire perché sa che rinascerà, ma rinasce perché ha accettato di morire. Harry ripropone lo stesso percorso della fenice: non va incontro alla morte perché immagina che potrà tornare indietro, ma, al contrario, può tornare indietro perché ha deciso di andare incontro alla morte». In questo Harry Potter è superiore persino ad Albus Silente, che confessa: «Ma chi di noi avrebbe mostrato la saggezza del terzo fratello, se avessimo avuto la possibilità di scegliere fra i tre Doni della Morte? Maghi e Babbani sono altrettanto assetati di potere: chi avrebbe resistito alla Bacchetta del Destino? Quale essere umano, che avesse perduto una persona cara, non avrebbe scelto la Pietra della Resurrezione? Persino io, Albus Silente, troverei più facile rifiutare il Mantello dell'Invisibilità. Il che dimostra che, per quanto intelligente, sono comunque un idiota come tutti» (Le fiabe di Beda il Bardo). Anche Harry è esposto al rischio di cedere alla seduzione della necromanzia a causa del suo dolorosissimo vissuto, è anch'egli vulnerabile all'idea e al desiderio di imporsi sulla morte e renderla reversibile, ma egli, conclude la Macor, «vince questa sua tentazione e arriva ad accettare la morte, sua e dei propri cari, comprendendo che ci sono cose ben peggiori per i vivi che morire».
Nello scontro finale – non solo una lotta ma la dimostrazione della superiorità di una scelta, quella di andare incontro alla morte rinunciando alla possibilità di sopravvivere – le figure che accompagnano Harry Potter sono parte di lui, invisibili a chiunque altro, ed è quello il modo in cui i nostri cari sopravvivono alla morte. Come aveva già spiegato Silente ad Harry dopo lo scontro con i Dissennatori da cui è salvato dal Patronus di un cervo come quello del padre: «Credi che le persone scomparse che abbiamo amato ci lascino mai del tutto? Non credi che le ricordiamo più chiaramente che mai nei momenti di grande difficoltà? Tuo padre è vivo in te, Harry, e si mostra soprattutto quando hai bisogno di lui. Altrimenti come avresti fatto a evocare proprio quel Patronus? Ramoso è tornato a correre la notte scorsa. Quindi ieri notte hai visto tuo padre, Harry... l'hai incontrato dentro di te» (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban).

Nel complesso un saggio più analitico che filosofico, ambito in cui sostanzialmente nulla aggiunge dopo il bel testo di Simone Regazzoni Harry Potter e la filosofia.

il drago e la tigre

Conosci il detto “come gli uccelli Biyi e I rami congiunti”? Sono parole usate da Bai Letian nel Canto del rimpianto eterno. «… Fossimo stati, noi, due uccelli Biyi che condividono un solo paio d’ali per volare nel cielo, o in terra due rami congiuntisi in uno soltanto…»
L’uccello Biyi è una creatura immaginaria dei tempi antichi. La femmina e il maschio hanno ciascuno un solo occhio e una sola ala e volano sempre insieme. Vale a dire che ognuno di loro non riuscirebbe a volare in mancanza dell’altro.
Due rami congiunti sono quelli che crescendo da opposte direzioni si sono incontrati e ora combaciano tanto perfettamente da formare un unico pezzo di legno.
Perciò, gli uccelli Biyi e i rami intrecciati sono una metafora dell’amore profondo tra un uomo e una donna. Un amore inseparabile, due cuori che sono come uno, tanto che se uno dei due morisse, quello rimasto non riuscirebbe più a vivere… il senso è questo.
Però noi due non possiamo permetterci di essere così. Per quanto legati da un amore forte e profondo… non dobbiamo “condividere un solo paio d’ali”.
Noi, dunque, non siamo uccelli Biyi né rami congiunti, siamo un drago e una tigre! Il nostro amore è quello di un drago e una tigre, entità indipendenti!

(Kazuo Koike,
Crying Freeman)


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