Il romanzo di Fabio Geda L'estate alla fine del secolo racconta l'esplodere della vita, nella stagione calda del 1999, di un preadolescente lettore e amante di fumetti (comics Marvel, X-Men), l'inseminazione della sua formazione e mutazione, il suo iniziare a scoprirsi misurare con occhi nuovi i cambiamenti del proprio corpo, lo sciogliersi e il liquefarsi e l'arricciarsi "nelle forme mutevoli di una palla di carta di giornale cui viene dato fuoco (con la stessa intensità rovente)" in quella torrida estate di fine secolo.
Era la prima volta che si rivolgeva a me in quel modo, e non solo, era la prima volta che gli sentivo dire cazzo. Cioè, in dialetto sì, lo diceva, ma in italiano no. La barca stava dondolando e le vibrazioni risalivano le ossa; ero tra lo spaventato e il fiero. Spaventato perché non sapevo cos'altro ancora potesse fare o dire mio padre, quale altro limite a me sconosciuto avrebbe valicato; fiero perché non era il nostro solito rapporto. Eravamo a un punto di non ritorno, avevamo superato una boa; navigavamo in un mare sconosciuto ed eravamo lui e io.
Fu allora che catturai la spigola più grossa della mia vita.
Mentre ero distratto, compresso tra l'ascolto di una voce che conoscevo meglio della mia, ma che mai era risuonata così straniera, e lo stupore di un rito di passaggio imprevisto - il battesimo della parola, quando tra padre e figlio il vocabolario si modifica - ecco, mentre tenevo la canna a filo di dita, sentii tirare. Forte. Uno strattone improvviso. Per un istante ebbi paura che la canna volasse via, dritta in mare. Mi aggrappai all'impugnatura e al mulinello e gridai, non so cosa gridai, forse "Ehi, è enorme, aiutami" o forse "Cazzo", sì, mi piacerebbe avere avuto il coraggio di dire "Cazzo, questa dev'essere una dannata balena, papà, un capodoglio o il tonno re degli abissi". Sarei orgoglioso di averlo detto. Ma non credo. Quello che so - perché ne conservo una memoria fisica: l'odore della salsedine, quello del dopobarba di mio padre, l'umidità scivolosa sulle mani e gli spruzzi - è che lui, un istante dopo, era in piedi accano a me e tira e lascia e tendi e allenta, alla fine una spigola da farci Natale e Capodanno era sbucata dal mare come un missile, portandosi dietro mezzo Mediterraneo, ed era planata, sconfitta, lì sulla nostra barca, dibattendosi ancora come er sfondare lo scafo e farceli vedere, gli abissi.
0 interventi:
Posta un commento