Divenuto socialista pur senza comprendere completamente - per sua stessa ammissione - le dottrine economico-filosofiche di Marx, l'artista e scrittore inglese William Morris nei quattro brevi scritti raccolti in Arte e socialismo presenta un'asserzione chiara e semplice: "è giusto e necessario che tutti gli uomini abbiano un lavoro che valga la pena di essere svolto", uscendo dalle logiche capitalistiche della moda e del lusso che impongono la produzione brutta e sciatta di merci fatte per divenir presto rifiuto, prodotte per essere consumate e passar via; un lavoro onorevole e adatto "che sia piacevole da fare", che consenta di trarre piacere dal lavoro stesso, dalla stessa attività produttiva, sfruttando le invenzioni meccaniche non per far profitto ma per occuparsi di eseguire i compiti fastidiosi e non intelligenti così da lasciare l'uomo libero di innalzare le proprie abilità manuali e mentali e tornare a produrre la bellezza; un lavoro che "se svolto a queste condizioni non sarebbe né troppo faticoso né troppo noioso", lasciando il tempo libero necessario al riposo, al pensiero, all'immaginazione, al sogno; un lavoro che garantisca, così, non solo un salario, ma il rispetto di sé che deriva dall'opportunità di fare un lavoro che sia utile ai nostri simili, che meriti dei ringraziamenti.
La dignità del lavoro, valore poco considerato in parte per residui di pregiudizi medievali e in parte per la ricerca del profitto e della ricchezza che è il solo scopo del sistema capitalistico; il benessere, e non la semplice ricchezza con la sua inseparabile compagna povertà; l'arte e la bellezza che derivano dall'utilizzo dell'energia umana in modo piacevole, da un lavoro libero e creativo, e che così sono necessarie alla vita, diritti inalienabili, ragione di ogni felicità e scopo dell'esistenza. Questi i tratti dell'utopia immaginata da Morris.
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