Secondo Jacques Derrida se la
possibilità della crudeltà è irriducibile nella vita dell'essere
animato, allora ogni discorso altro – teologico, metafisico,
genetico, etc. – da quello della psicanalisi non potrebbe aprirsi a
questa ipotesi, la ridurrebbe, escluderebbe, priverebbe di senso: il
solo discorso che possa rivendicare la questione della crudeltà è
la psicanalisi, il “senza alibi” senza di cui non si può
prendere in considerazione la crudeltà. Ecco perché in Statid'animo della psicanalisi, unendo il tema della crudeltà a quello
della sovranità, è agli psicanalisti che si rivolge per nuove
Considerazioni attuali sulla guerra, per un nuovo Perché la guerra?
Nella sua corrispondenza con Freud,
Einstein aveva osservato che la forza e il diritto (Macht und Recht)
vanno di pari passo – nessun diritto senza possibilità di
costrizione aveva detto lo stesso Kant –; che una pulsione di
potere caratterizza ogni nazione, spontaneamente protesa alla
sovranità e avversa a una restrizione dei diritti sovrani dello
Stato; che l'uomo alberga in sé il bisogno di odiare e di
distruggere, una pulsione di crudeltà. Così, solo l'abbandono
incondizionato da parte di ogni nazione di almeno una parte della
propria sovranità potrebbe non paralizzare gli sforzi di una
giustizia internazionale.
Freud, d'altra parte, denuncia come
illusorio uno sradicamento delle pulsioni di crudeltà, di potere, di
sovranità: ciò che è necessario coltivare è una transazione
differenziale, un'economia della diversione, un avanzare indiretto.
Legata all'essenza della vita, la crudeltà non ha un contrario ma
solo differenze di modalità, qualità, intensità. L'ideale, afferma
Freud, sarebbe una comunità la cui libertà consistesse nel
sottomettere la vita pulsionale a una “dittatura della ragione”:
un progresso per spostamento indiretto e restrizione delle forze
pulsionali.
Derrida, però, sottolinea gli aspetti
problematici del discorso freudiano. Benché Freud riconosca che non
c'è alcuna valutazione etica nella descrizione delle polarità
pulsionali e che non ha senso volersi sbarazzare delle pulsioni
distruttrici perché senza di loro cesserebbe la vita stessa, egli
poi, però, radica nella vita, nella vita organica, nell'economia
autoprotettrice della vita organica, in uno dei poli della polarità
quindi, tutta la razionalità in nome della quale egli propone di
sottomettere o di restringere le forze pulsionali. Giustificare un
pacifismo, un'opposizione alla pena di morte, una difesa del diritto
alla vita, non si può fare in modo radicale a partire da un'economia
della vita, della vita organica. Derrida afferma che c'è, che
occorre che ci sia qualche riferimento a una vita, certo, ma a una
vita altra da quella dell'economia del possibile, una vita
im-possibile probabilmente, una sopra-vita (sur-vie), la sola che
valga di essere vissuta, senza alibi, una volta per tutte, una sola
volta per tutte, la sola a partire dalla quale un pensiero della vita
è possibile. Ciò si può dare solo a partire da figure
dell'incondizionato impossibile come l'ospitalità, il dono, il
perdono, l'imprevedibilità, il forse, l'evento, la venuta
dell'altro.
E se vi fosse, in alcuni casi, crudeltà nel non donare la morte? E se vi fosse dell'amore nel voler donarsi
la morte in due, l'uno all'altro, l'uno per l'altro, simultaneamente
e no? E se vi fosse un “si soffre crudelmente in me, in un io”
senza che si possa supporre che vi sia qualcuno che esercita una
crudeltà?
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