La grande stagione del feuilleton è quella delle rivoluzioni
borghesi di mezzo ottocento, con il loro riformismo populista e premarxista. La
dinamica sollecitazione-soluzione (o meglio: provocazione-pace) unita con la
sua vocazione populistica, fa sì che il romanzo popolare sia un repertorio di
denuncia circa le contraddizioni atroci della società (si pensi a I Misteri di Parigi o a I Miserabili) ma che sia al tempo stesso
un repertorio di soluzioni consolatorie, una macchina per sognare
gratificazioni fittizie che incarna una ideologia riformistica. La società
borghese è il regno del fattuale e il romanzo ne è il mutevole e funzionale
trattato teologico. Il romanzo conservatore del tardo ottocento e quello
reazionario del primo novecento (di cui Arsenio Lupin, nazionalista “professore
di energia” è il modello spregiudicato e salottiero) useranno l’armamentario
del feuilleton avulso dal suo
contesto funzionale: vendette e riconoscimenti agiranno a vuoto, senza più
alcun progetto di risarcimento sociale. Se i surrealisti impazziranno per le
avventure di Fantômas sarà perché quivi riconosceranno la sagra della gratuità
dissennata. La parabola del feuilleton
lo vede approssimarsi sempre più a una forma di narrativa di cui è esempio
lampante lo stesso perfetto congegno del romanzo poliziesco, in cui l’ordine
sociale è sottofondo flebile e pretestuoso appena avvertibile. Il detective di
Conan Doyle non è affatto un giustiziere sociale come il Rodolphe di Sue, e
nemmeno un giustiziere individuale come Montecristo: coltiva con passione
egocentrica la propria abilità.
(Umberto Eco, Il superuomo di massa)
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