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lunedì 26 settembre 2011

il cristo hegeliano

More about Vita di GesùGià durante il suo periodo di studi presso l'università di Tubinga, il giovane Hegel inizia a mettere a confronto le immagini di Cristo e di Socrate, due voci della libertà tra un popolo di schiavi o fanciulli, due figure "incivili" e rivoluzionarie. In uno dei suoi primi scritti, Vita di Gesù (1795), Hegel contrappone quasi la figura di Cristo alla religione cristiana, vista come una religione alienante, che impone la rinuncia alla dignità umana e alla libertà, che spinge al ripiegamento ad una vita privata ed educa lo sguardo a rivolgersi al cielo. Il principio autenticamente cristiano sarebbe invece, contrapposto a quello giudaico, quello di un Deus in nobis, inteso come una sorta di identificazione di stampo illuministico tra divinità e ragione, tra fede nella divinità e fede nella ragione. Il punto di riferimento, per Hegel, è qui il Kant de La religione entro i limiti della sola ragione, che contrappone ragione e libertà ai dogmatismi e conservatorismi dei rigidi rituali della religione.
Ma il rigorismo dell'insegnamento morale kantiano è "addolcito" dal giovane Hegel grazie al richiamo al pensiero di Schiller. Per Kant il dovere morale è inestetico, la bellezza umana va conquistata con la dignità della fatica, necessaria all'uomo per debellare l'estraneità e la positività della legge morale: ragione e sensibilità, dovere e inclinazione non possono essere immediatamente in armonia: simbolo di questo ideale agonistico del merito è la figura mitica di Ercole, immagine dell'opera di automiglioramento, trasformazione interiore, perfezionamento. O meglio perfettibilità, poiché questa opera, questo lavoro, sono per Kant "infiniti", visto il male radicale presente nell'uomo, che non è certo puro spirito razionale ma costituito da un "legno storto": per questo la forma della legge morale è l'imperativo categorico "tu devi".
Hegel, pur non facendo proprio l'ideale schilleriano dell'uomo come "anima bella", in cui una naturale grazia armonizza immediatamente ragione e sentimento, non considera la sensibilità alla stregua di un nemico da schiacciare, bensì come una facoltà da conciliare, educare, per far perdere rigidità e positività al dovere, per perfezionare la legge, abolendola come puro statuto esteriore, lettera estranea, ma conservandola e rispettandola nello spirito.
Così gli uomini possono passare da individui servili, oggettivi, scissi, a uomini belli, interi, dialettici e che realizzino una comunità vivente in cui non vigano usanze meccaniche, in cui non sia necessario un Dio trascendente di cui si abbia più paura e venerazione che amore, dal quale si faccia dipendere il destino dell'uomo. Il culto della ragione che si è destata e «il sonno della ragione genera mostri» (Goya– sostituisce quello di un Dio tappabuchi con cui instaurare un rapporto caratterizzato da uno spirito bottegaio, da un ritualismo farisaico, da una fede legalistica e ipocrita.
L'uomo deve essere autonoma guida a se stesso in questo cammino di automiglioramento, deve raggiungere una piena maturità che lo affranchi sia da una religione a lui estranea sia da una sensibilità egoistica e non etica.

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