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sabato 24 dicembre 2011

della morte dell'amore

Relativamente al tema dell'amore in Dylan Dog, due sono fondamentalmente i richiami filosofici a cui Roberto Manzocco si rifà nel suo saggio sulla serie a fumetti della Bonelli. Il primo è Schopenhauer, che ne Il mondo come volontà e rappresentazione tratteggia una metafisica dell'amore sessuale secondo cui «ogni innamoramento, per quanto etereo possa apparire, è radicato nell'istinto sessuale. L'estasi incantevole, che coglie l'uomo alla vista di una donna di bellezza a lui conveniente e che gli fa immaginare l'unione con lei come il sommo bene, è proprio il senso della specie, che, riconoscendo chiaramente impresso in essa il suo stampo, vorrebbe con essa perpetuarlo. L'uomo è dunque in ciò guidato realmente da un istinto, che tende al miglioramento della specie anche se si illude di cercare soltanto l'accrescimento del proprio godimento. Conformemente all'esposto carattere della cosa, ogni innamoramento, dopo il godimento finalmente raggiunto, prova una strana delusione e si meraviglia, che ciò che ha così ardentemente desiderato non dia nulla di più di ogni altro appagamento sessuale. L'appagamento avviene propriamente solo per il bene della specie e non cade perciò nella coscienza dell'individuo, il quale, animato dalla volontà della specie, serviva con ogni sacrificio ad un fine, che non era il suo proprio». L'amore, quindi, come illusione della natura, strumento con cui la specie tratta l'individuo come un burattino, muovendolo per fini altri e lasciandolo, poi, deluso: omne animal post coitum triste est.
Il secondo riferimento filosofico è all'analisi condotta da Sartre ne L'essere e il nulla sull'amore come paradossale forma di possesso, che pretende di esercitarsi senza trasformare l'altro in schiavo ma che, invece, «vuole possedere una libertà come libertà. Chi si accontenterebbe di un amore che si desse come pura fedeltà all'impegno preso? Chi accetterebbe di sentirsi dire: "Ti amo, perché mi sono liberamente impegnata ad amarti e perché non voglio contraddirmi: ti amo per fedeltà a me stessa"? Così l'amante chiede il giuramento e si irrita del giuramento. Vuole essere amato da una libertà e pretende che questa libertà come libertà non sia più libera. Vuole insieme che la libertà dell'altro si determini da sé a essere amore – e questo, non solo all'inizio dell'avventura, ma ad ogni istante – e, insieme, che questa libertà si imprigioni da sé, che ritorni su se stessa, come nella follia, come nel sogno, per volere la sua prigionia». 
Ma acconto a quello dell'amore altro tema assai ricorrente è quello della morte, in un'oscillante presentazione «tra una sconsolante visione materialista ed esistenzialista e una serie di suggestioni oniriche di indubbio fascino». In uno dei primi albi, Attraverso lo specchio, Tiziano Sclavi compone una bellissima ballata in stile danza macabra medievale – «Chi è colui così gagliardo e forte che possa vivere senza poi morire? E da colei ch’è tutto, Madonna Morte, l’anima sua possa far fuggire? Verrà la Morte e i tuoi occhi avrà e la bellezza tua, vanità di vanità. Verrà la Morte e porterà con sé tutto il tuo impero, tutto, insieme a te. Verrà la Morte e taglierà il legame così sottile e forte, così bello e infame» – che non lascia dubbi sul fatto che la morte sia il tema centrale della serie dylaniata. L'autore richiama la strana duplicità di questo istante supremo, di grande vicinanza e di estrema lontananza insieme, con le parole del filosofo francese Vladimir Jankélévitch: «È un oltre-mondo che è un altro mondo, assolutamente altro e assolutamente altrove, e tuttavia presente ovunque; che è dunque onnipresente e onniassente; che è tutto insieme trascendente e immanente – infatti basta un niente perché "laggiù" sia immediatamente "qui". La morte è alla porta, invisibile e tuttavia così prossima! La morte sarebbe un incunearsi dell'aldilà nell'al di qua?» (La morte). 
La morte come fuori categoria, come completamente altro, come quasi niente. Heidegger ritiene la morte «la possibilità più propria dell'uomo, che egli anticipa e tramite la quale dà coerenza, ordine e direzione alla propria vita». Mentre Sartre, ancora una volta, ne fa l'inumano per eccellenza, descrivendo l'istante della morte come un salto ontologico che ci trasforma nella nostra essenza e solidifica in modo permanente la nostra identità: «Al limite, all'istante infinitesimale della mia morte, non sarò più che il mio passato. Esso solo mi definirà. È ciò che Sofocle intende esprimere quando nelle Trachinie fa dire a Deianira: "È una massima riconosciuta da lungo tempo fra gli uomini, che non ci si può pronunciare sulla vita dei mortali e dire se essa è stata felice o infelice, prima della loro morte". Questo è anche il senso della frase di Malraux: "La morte cambia la vita in destino". Al momento della morte noi siamo, cioè siamo senza difesa di fronte al giudizio altrui. Con la morte il per-sé si cambia per sempre in in-sé nella esatta misura in cui è scivolato tutto intero nel passato» (L'essere e il nulla). Per il filosofo francese – secondo Manzocco – «l'uomo è come un condannato a morte che si prepara per il giorno dell'esecuzione, fa le prove per non sfigurare, per mostrarsi coraggioso sul patibolo, ma, prima che la sentenza venga eseguita, l'influenza spagnola se lo porta via. Non si può aspettare la morte, è un fatto bruto, che piomba sulla vita "dall'esterno"». E «se è così» – scrive Sartre – «non possiamo nemmeno dire che la morte conferisce un senso alla vita dal di fuori: un senso può venire solo dalla soggettività stessa. Poiché la morte non appare sul fondamento della nostra libertà, non può che togliere alla vita ogni significato».

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