Sul tema del rapporto un po' ambiguo tra giustizia e vendetta ho già scritto qualcosa qui. Ora, in due dei libri che sto leggendo in questo periodo, mi capita di imbattermi in passaggi che sembrano avere tra loro una certa analogia, una certa atmosfera familiare, proprio riguardo a questo tema.
Il primo è tratto da L'archivio di Dalkey di Flann O'Brien, autore del magnifico Una pinta d'inchiostro irlandese. In questo romanzo, tra una chiacchiera e una bevuta nei pub irlandesi, Mick, un giovane impiegato statale, venuto casualmente a conoscenza del piano del dottor De Selby, fisico e teologo – disprezzatore di Cartesio –, di annientare l'umanità tutta, cerca alleati nel suo tentativo di fermare le macchinazioni del folle (?) scienziato e pensa al sergente Fottrell, riconoscendolo dotato di un particolare senso della giustizia che va al di là del suo ruolo di uomo delle forze dell'ordine, di uomo di legge, al di là del semplice diritto positivo. Egli, infatti, si dimostra pronto anche a commettere atti non propriamente leciti, pur di garantire il benessere degli uomini che è chiamato a servire e proteggere: convinto della "teoria mollicolare" secondo cui andando per troppo tempo in bicicletta, soprattutto lungo strade dissestate, gli uomini finiscono per trasformarsi in biciclette e le biciclette in uomini per un reciproco scambio di particelle – con esiti, eventualmente, anche mortali –, il sergente va in giro a forare le ruote o sottrarre le bici dei suoi concittadini, per il loro bene.
«Lei, sergente, è un uomo a cui il suo mestiere va stretto, o non ruberebbe biciclette per ridurre il letale uso di quel veicolo da parte di quei disgraziati, né bucherebbe deliberatamente il mezzo di locomozione dell'agente Pluck».
Questo discorso, come era nelle intenzioni di Mick, fece palesemente piacere al sergente.
«Ci sono occasioni» egli disse «in cui devo considerare mio ufficiale superiore Colui Che Sta Lassù. È mio preciso dovere proteggere i membri della razza umana, a volte anche da se stessi. A pochi è dato comprendere i mica perscrutabili perigli dell'intricato mondo».
Il secondo passaggio, invece, è tratto dal libro primo della trilogia di Murakami Haruki 1Q84, che, come altri, sto piuttosto lentamente leggendo in attesa della pubblicazione in Italia del capitolo conclusivo. Qui la giovane Aomame acconsente ad uccidere, con la sua tecnica particolare, uomini che si sono macchiati della colpa di provocare sofferenze fisiche e psichiche a donne, vittime di una violenza potenzialmente fatale anche per altre. Ma la vecchia signora che trova alla ragazza questi incarichi, le ricorda di non scambiare i suoi atti di giustizia per vendetta personale, che il suo è un lavoro, un dovere pesante, che lei è solo una umana esecutrice e non una vendicatrice angelica o un divino giudice, che non deve provare né piacere né tormentosi rimorsi, per questo è giusto che venga pagata e che non agisca per puro disinteresse, correndo altrimenti il rischio di eccedere oltre l'umanamente consentito.
Lei non è un angelo, e non è nemmeno Dio. Capisco benissimo che lei agisca spinta da un sentimento puro. Quindi capisco pure che non desideri ricevere in cambio del denaro. Eppure quest'istinto, proprio perché così puro e disinteressato, può essere pericoloso. Per un normale essere umano, vivere con un sentimento del genere non è un'impresa facile. Perciò è necessario che lei questo sentimento lo tenga saldamente legato a terra, come se mettesse un'ancora a un pallone aerostatico. Il denaro serve a questo. Anche se l'azione è giusta, e l'impeto che l'alimenta è puro, non è libera di fare qualsiasi cosa. Mi capisce?
1 interventi:
a volte la linea tra la giustizia e la vendetta è veramente sottile...è interessante che Murakami attribuisca al denaro il lato della giustizia, certo il denaro è più oggettivo dei sentimenti, ma di solito non viene avvicinato al concetto di giusto....
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