"È un'ingiustizia, però!", ripeteva Calimero, come ci ricorda Jean-Luc Nancy all'inizio della sua piccola conferenza – perché rivolta ai bambini – Il giusto e l'ingiusto, nella quale indaga, appunto, l'idea del giusto.
Subito, ci dice il filosofo francese, «se l'idea di giustizia, di ciò che è giusto, si confondesse con la legge, qualcosa non quadrerebbe. La legge non è necessariamente giusta. Questo», però, «non vuol dire che ciascuno di noi possa decidere che non seguirà la legge perché non la ritiene giusta. Dunque, abbiamo l'idea di una giustizia al di là delle leggi, forse addirittura di una giustizia per la quale non vi può essere legge, una giustizia che non può essere racchiusa in una legge, una giustizia superiore a qualunque legge».
Il modello che subito viene in mente è quello del giustiziere – da Schwarzenegger e Van Damme ai videogiochi come Street Fighter e i supereroi dei comics –, che «si fa giustizia da sé, al di là della legge» perché «la legge è impotente», che pone la sua forza al servizio di una giusta causa per «dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, ciò che gli spetta».
Ma «cosa, effettivamente, è dovuto a ciascuno?». Secondo Nancy dietro il termine "ciascuno" convivono due principi: uno di uguaglianza ("ciascuno" come tutti gli altri) e uno di differenza o singolarità ("ciascuno" come proprio di ogni persona «in quanto egli è un essere singolare, in quanto egli è unico»). «Uguaglianza e singolarità sono inseparabili nell'idea di giustizia e, al tempo stesso, possono entrare, se non in contraddizione, forse, quanto meno in conflitto. Questo ci insegna una prima cosa importantissima: il giusto e l'ingiusto si decidono sempre nel rapporto con gli altri» e «non può mai esservi giustizia per uno solo. Ecco perché farsi giustizia da sé non ha alcun senso. Tuttavia è certamente vero che ciascuno di noi, nella propria singolarità, ha diritto a un riconoscimento assolutamente personale».
Riconosce, però, Nancy che «non riusciremo mai a dire interamente, integralmente, esattamente cosa è dovuto a ciascuno in particolare», perciò «la giustizia è inevitabilmente senza esattezza o senza aggiustamento». L'unica cosa possibile e necessaria è che «ciascuno sia riconosciuto nella sua singolarità», l'unica cosa che è dovuta a ciascuno «è quello che chiamiamo amore. Amare qualcuno vuol dire che lo si considera per quello che è, singolarmente». Per essere giusto ognuno «deve sforzarsi di pensare meglio che può in una direzione che, in fondo, soltanto l'amore può indicargli», deve «essere capace di comprendere che ciascuno ha diritto a un riconoscimento. Questo riconoscimento deve essere infinito, non può avere limiti. Esso è dunque, in fondo, impossibile da realizzare interamente, impossibile da aggiustare. Possiamo dire, dunque, che essere giusto non è pretendere di sapere cosa è giusto; essere giusto è pensare che ci sia ancora più giusto da trovare o da comprendere; essere giusto è pensare che la giustizia è ancora da compiere, che essa può esigere ancora di più e andare ancora oltre». Essere giusto è «dare a ciascuno ciò che non si sa neanche di dovergli», è considerarlo dotato di un «diritto a un rispetto assoluto».
«Dovete pensarlo da soli, mai nessuno verrà a dirvi: "Ecco cos'è la giustizia assoluta". Se qualcuno potesse dirlo, forse noi non dovremmo neanche essere giusti o ingiusti, dovremmo solo applicare meccanicamente quella che sarebbe una legge. Cosa è veramente giusto, al tempo stesso per tutti e per ciascuno individualmente, non è dato in anticipo: bisogna cercarlo, inventarlo, trovarlo, ogni volta di nuovo. Ce ne vuole sempre di più, non ci si può mai dire che è abbastanza giusto così. Non è mai abbastanza giusto. Pensare questo è già cominciare a essere giusti».
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