Dio indica la possibilità che ci sia, per noi, sia collettivamente sia singolarmente, individualmente, un rapporto con questo dappertutto e da nessuna parte. Dio, il divino, il celeste indicherebbero, quindi, il fatto che io sono in rapporto, non con qualcosa, ma con il fatto che non mi bastano i rapporti che intrattengo con tutte le cose nel mondo o con tutti gli esseri nel mondo. E che, quindi, c'è qualcos'altro, qualcosa che chiamerei qui "apertura" e che fa in modo che io sia, che noi siamo, in quanto uomini, aperti a più che a essere nel mondo, a più che a prendere cose, maneggiare cose, mangiare cose, spostarci nel mondo, inviare sonde su Marte, guardare le galassie al telescopio e così via.
Importa capire l'impossibilità di richiudere questa apertura, l'impossibilità di essere un uomo così come si è una pietra, un albero, forse anche un animale. Pascal dice: «L'uomo passa infinitamente l'uomo». Perché non è sufficiente chiamare questa dimensione di apertura e di oltrepassamento con nomi astratti? Perché dobbiamo poterci rivolgere, riferire a questa dimensione, per esserle fedeli. Niente a che vedere con ciò che si chiama il credere. Essere fedeli a ciò che qui ho chiamato l'apertura, senza la quale noi non saremmo forse nemmeno uomini, ma solo cose fra le cose, all'interno di un mondo chiuso.
Dove comincia il cielo? Questa domanda potrebbe portarci altrove, alla pittura, ai cieli della pittura. Provate a guardare alcuni paesaggi dipinti da grandi pittori, come il fiammingo Ruysdael o l'inglese Constable. A che scopo? Proprio per mostrare il rapporto fra un gran cielo, spesso, pieno di nubi, e la terra. È come se tutto il quadro fosse fatto solo per mostrare questa apertura dei due, e quindi la linea che li divide.
(da Jean-Luc Nancy, In cielo e in terra. Piccola conferenza su Dio)
0 interventi:
Posta un commento