Tolkien sceglie di usare una lingua pe
r costruire un mondo: egli, da filologo, «amava le parole, ma in un modo privato e peculiare. Erano arcani, enigmi da risolvere, contenevano storie, abbracciavano secoli e continenti. Ogni parola ne suggeriva altre, forse mai pronunciate, ma del tutto plausibili, ancora più dense di significati e rimandi, quindi più vere». Perciò, dopo la guerra, visto che «chi ricostruisce mondi perduti può essere capace di immaginarne di nuovi», egli – «carta e inchiostro come roccia e scalpello, carne e sangue» – «non aveva trovato un modo migliore per domare i mostri se non trasformarli in creature fiabesche, da relegare oltre lo specchio, nel regno fatato. Glielo consentiva il potere arcano della lingua, l'ancestrale forza evocatrice. Il segreto delle parole».
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Ecco, così, che il racconto de La caduta di Gondolin – che «parlava dell'assedio di una roccaforte e dei coraggiosi difensori che avevano sacrificato la vita nel tentativo di salvarla» – riguarda più in generale i sopravvissuti a una guerra e quelli che non ce l'hanno fatta; oppure che la storia di Tùrin Turambar – «la storia di un fallimento implicito nel peccato stesso di immaginarsi "Turambar", Padrone del Fato» –, oltre che richiamare le tragedie classiche come quella di Edipo, non può non ricordare anche le contemporanee vicende di Lawrence d'Arabia.
Pur se l'opera resta di fantasia la coerenza con le biografie dei protagonisti è garantita e la ricostruzione storica è fedele, soprattutto per quanto riguarda il problema della difficoltà di conciliare le spinte colonialiste con il principio di autodeterminazione dei popoli (in questo caso gli arabi) che caratterizzò la prima guerra mondiale.
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