Altre letture della seconda decade di agosto.
La lettura dell'opera di J.M. Coetzee, iniziata il mese scorso, continua con il romanzo da cui sarei voluto partire, finalmente trovato e acquistato: Foe. Citato da Jacques Derrida nel suo seminario su (tra l'altro) il Robinson Crusoe (La Bestia e il Sovrano, vol. 2) come ri-lettura e ri-scrittura del romanzo di Daniel Defoe, il breve testo di Coetzee è, più che un romanzo, una riflessione sulla parola, la scrittura, il romanzo, la letteratura. "Vivere in silenzio significa vivere come le balene, grandi castelli di carne che galleggiano a leghe di distanza l'uno dall'altro, oppure come i ragni, ognuno dei quali se ne sta solo al centro della propria tela, che per ciascuno di essi rappresenta il mondo intero"; il mondo, insomma, non è come un'isola deserta su cui si è fatto naufragio, deserta e silenziosa. Parlare per comunicare, per raccontare la propria storia, per dire la verità, ma la letteratura, che è fiction, finzione, come si rapporta al raccontare storie e dire la verità? "Per dire la verità in tutta la sua consistenza è necessaria la quiete, una sedia comoda lontana da ogni distrazione e una finestra cui indugiare a guardare; e poi il talento di vedere onde quando si hanno davanti agli occhi campi, di sentire il sole dei tropici quando fa freddo; e di avere sulla punta delle dita le parole con cui catturare la visione prima che dilegui". La riflessione e la mediazione della scrittura donano davvero consistenza alla verità, o la narrazione è piuttosto sofisticazione e mistificazione? E se anche lo fosse, non sarebbe comunque un'arte necessaria e salvifica?
Per rimanere in tema robinsoniano, ho letto anche Venerdì o la vita selvaggia, la rivisitazione del classico offerta dallo scrittore francese Michel Tournier che racconta la storia del naufragio e della vita sull'isola per un pubblico di lettori bambini/ragazzi e trasformandola più che altro in una storia di amicizia tra persone apparentemente e inizialmente diverse, il civilissimo Robinson e il selvaggio Venerdì: dal rapporto servo-padrone che dapprincipio lega i due alla scoperta/conquista/nascita di una relazione tra 'fratelli' liberi e uguali. Il racconto è quasi anche una parabola forse un po' rousseauiana dello 'scontro' civiltà-natura: il processo di civilizzazione dell'isola che intraprende Robinson appena naufragato sull'isola deserta è costantemente 'minacciato' da una natura ribelle (pipistrelli vampiri che dissanguano i capretti che allega, polpi che lo spruzzano/sbeffeggiano con getti d'acqua mentre raccoglie molluschi) e ciò lo costringe a dover lavorare senza sosta; inoltre, per non cadere in uno stato di pigrizia bestiale e di fangoso ozio che gli sembra abbrutente, è costretto a inventarsi inutili cerimonie, riti, cronoprogrammi pianificando tutto il tempo, e a legiferare una Costituzione dell'isola di cui si proclama governatore (sovrano), il tutto per mantenersi civilizzato. Anche a cambiare tutto ciò contribuirà l'amicizia con Venerdì e la rieducazione alla sua vita selvaggia. Ma dopo tutto ciò, sarà possibile per Robinson lasciare l'isola e tornare alla civiltà?
Dopo la delusione del fantasy Terra di mutazioni, ho provato con il lato fantascientifico di Roger Zelazny leggendo Signore della luce. Un netto miglioramento, sia per trama, costruzione narrativa e stile. Alcuni sopravvissuti alla morte della Terra giungono su un altro remoto pianeta e sfruttano (monopolizzandole) le proprie conoscenze e tecnologie per dotarsi di poteri straordinari e dominare il pianeta come divinità, assumendo i nomi del pantheon indiano. Ma tra le loro stesse fila nasce un disaccordo, un'eresia (l'accelerazionismo), secondo la quale l'equipaggio dei "primi" venuti dalla Terra avrebbe il dovere di dare una mano agli altri abitanti del pianeta, assicurando loro i benefici della scienza posseduta invece di sfruttarla per costruirsi un inespugnabile paradiso e trattare il mondo come un incrocio tra una riserva di caccia e un casino. Ma i più reputano gli abitanti del pianeta dei bambini che giocando con i doni dei "primi" finirebbero per bruciarsi e ritengono perciò opportuno comportarsi come padri responsabili guidandoli lentamente e gradualmente, evitando un'accelerazione che li distruggerebbe. Ma perché, allora, distruggere ogni giovane tecnologia scoperta nel mondo, ogni segno di progresso mostrato dalla popolazione (tranne, stranamente, la scoperta della distillazione e della produzione dell'alcol)? Dèi e dee sono solo figure parentali cui pesa portare eternamente la propria sfibrante condizione o desiderano cercare di conservare in vita un'era di oscurità di cui godono i vantaggi? Sarà Sam/Siddharta, incantatore di demoni e Signore della Luce, a sfidare questa canzonetta suonata con un mandolino fascista, questa tirannide giustificata con un mucchio di fesserie poetiche, provando a porre termine a un mondo come il mattino pone termine alla notte.
La lettura dell'opera di J.M. Coetzee, iniziata il mese scorso, continua con il romanzo da cui sarei voluto partire, finalmente trovato e acquistato: Foe. Citato da Jacques Derrida nel suo seminario su (tra l'altro) il Robinson Crusoe (La Bestia e il Sovrano, vol. 2) come ri-lettura e ri-scrittura del romanzo di Daniel Defoe, il breve testo di Coetzee è, più che un romanzo, una riflessione sulla parola, la scrittura, il romanzo, la letteratura. "Vivere in silenzio significa vivere come le balene, grandi castelli di carne che galleggiano a leghe di distanza l'uno dall'altro, oppure come i ragni, ognuno dei quali se ne sta solo al centro della propria tela, che per ciascuno di essi rappresenta il mondo intero"; il mondo, insomma, non è come un'isola deserta su cui si è fatto naufragio, deserta e silenziosa. Parlare per comunicare, per raccontare la propria storia, per dire la verità, ma la letteratura, che è fiction, finzione, come si rapporta al raccontare storie e dire la verità? "Per dire la verità in tutta la sua consistenza è necessaria la quiete, una sedia comoda lontana da ogni distrazione e una finestra cui indugiare a guardare; e poi il talento di vedere onde quando si hanno davanti agli occhi campi, di sentire il sole dei tropici quando fa freddo; e di avere sulla punta delle dita le parole con cui catturare la visione prima che dilegui". La riflessione e la mediazione della scrittura donano davvero consistenza alla verità, o la narrazione è piuttosto sofisticazione e mistificazione? E se anche lo fosse, non sarebbe comunque un'arte necessaria e salvifica?
Per rimanere in tema robinsoniano, ho letto anche Venerdì o la vita selvaggia, la rivisitazione del classico offerta dallo scrittore francese Michel Tournier che racconta la storia del naufragio e della vita sull'isola per un pubblico di lettori bambini/ragazzi e trasformandola più che altro in una storia di amicizia tra persone apparentemente e inizialmente diverse, il civilissimo Robinson e il selvaggio Venerdì: dal rapporto servo-padrone che dapprincipio lega i due alla scoperta/conquista/nascita di una relazione tra 'fratelli' liberi e uguali. Il racconto è quasi anche una parabola forse un po' rousseauiana dello 'scontro' civiltà-natura: il processo di civilizzazione dell'isola che intraprende Robinson appena naufragato sull'isola deserta è costantemente 'minacciato' da una natura ribelle (pipistrelli vampiri che dissanguano i capretti che allega, polpi che lo spruzzano/sbeffeggiano con getti d'acqua mentre raccoglie molluschi) e ciò lo costringe a dover lavorare senza sosta; inoltre, per non cadere in uno stato di pigrizia bestiale e di fangoso ozio che gli sembra abbrutente, è costretto a inventarsi inutili cerimonie, riti, cronoprogrammi pianificando tutto il tempo, e a legiferare una Costituzione dell'isola di cui si proclama governatore (sovrano), il tutto per mantenersi civilizzato. Anche a cambiare tutto ciò contribuirà l'amicizia con Venerdì e la rieducazione alla sua vita selvaggia. Ma dopo tutto ciò, sarà possibile per Robinson lasciare l'isola e tornare alla civiltà?
Dopo la delusione del fantasy Terra di mutazioni, ho provato con il lato fantascientifico di Roger Zelazny leggendo Signore della luce. Un netto miglioramento, sia per trama, costruzione narrativa e stile. Alcuni sopravvissuti alla morte della Terra giungono su un altro remoto pianeta e sfruttano (monopolizzandole) le proprie conoscenze e tecnologie per dotarsi di poteri straordinari e dominare il pianeta come divinità, assumendo i nomi del pantheon indiano. Ma tra le loro stesse fila nasce un disaccordo, un'eresia (l'accelerazionismo), secondo la quale l'equipaggio dei "primi" venuti dalla Terra avrebbe il dovere di dare una mano agli altri abitanti del pianeta, assicurando loro i benefici della scienza posseduta invece di sfruttarla per costruirsi un inespugnabile paradiso e trattare il mondo come un incrocio tra una riserva di caccia e un casino. Ma i più reputano gli abitanti del pianeta dei bambini che giocando con i doni dei "primi" finirebbero per bruciarsi e ritengono perciò opportuno comportarsi come padri responsabili guidandoli lentamente e gradualmente, evitando un'accelerazione che li distruggerebbe. Ma perché, allora, distruggere ogni giovane tecnologia scoperta nel mondo, ogni segno di progresso mostrato dalla popolazione (tranne, stranamente, la scoperta della distillazione e della produzione dell'alcol)? Dèi e dee sono solo figure parentali cui pesa portare eternamente la propria sfibrante condizione o desiderano cercare di conservare in vita un'era di oscurità di cui godono i vantaggi? Sarà Sam/Siddharta, incantatore di demoni e Signore della Luce, a sfidare questa canzonetta suonata con un mandolino fascista, questa tirannide giustificata con un mucchio di fesserie poetiche, provando a porre termine a un mondo come il mattino pone termine alla notte.
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