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venerdì 28 febbraio 2025

(altri) libri letti questo mese - febbraio 2025

Posto anche questo mese una breve sintesi degli altri libri letti, oltre a quelli di cui già ho scritto qualcosa. Sempre in ordine, dal peggiore al migliore.

L'impostore di Zadie Smith. Hustpierpoint, Sussex, 1873. Eliza Touchet è da trent'anni la governante di suo cugino acquisito, William Ainsworth, un romanziere un tempo di grande successo ma ormai caduto in disgrazia e in crisi di ispirazione. Donna spiritualmente e intellettualmente libera, Eliza ha sempre partecipato ai circoli letterari di Ainsworth, crescendo all'ombra del successo di William e dei suoi amici letterati, tra cui il Signor Charles Dickens, che non esita a considerare un prevaricatore moralista. Attraverso Sarah, la giovane e sciocca seconda moglie di William, Eliza si appassiona al più celebre processo dell'epoca, passato alla storia come "il caso Tichborne", che per un decennio dividerà l'opinione pubblica vittoriana e che vede un semplice macellaio reclamare l'immensa fortuna della ricca famiglia Tichborne, sostenendo di esserne il legittimo erede, scomparso in un naufragio molti anni prima. In particolare Eliza viene colpita dalla dignità e vulnerabilità di Andrew Bogle, testimone chiave del processo e vuole sapere tutto di lui. Cresciuto come schiavo nelle piantagioni di zucchero della Giamaica e servitore dei Tichborne per decenni, Bogle è l'uomo la cui storia può confermare o smentire le incredibili affermazioni del pretendente alla fortuna di una delle più antiche famiglie aristocratiche inglesi. Chi dice la verità e chi è un impostore?
Davvero terribile, pessimo, difficile da portare a termine perché non c'è motivazione a farlo.

Primo di una trilogia fantasy e young adult, Fourth Wing di Rebecca Yarros immerge il lettore nell'accademia militare di Basgiath, la famosissima scuola per diventare cavalieri di draghi più spietata ed elitaria che ci sia. Una volta entrati non si hanno altro che due possibilità: laurearsi o morire. Violet Sorrengail, che già si immaginava a passare i prossimi anni circondata dai suoi amati libri e immersa nel silenzio della biblioteca, è invece costretta dalla generalessa sua madre a unirsi alle centinaia di candidati disposti a qualunque sacrificio pur di diventare parte dell'élite di Navarra: i cavalieri di draghi. Ma Violet ha solo vent'anni e un corpo ancora poco allenato alla battaglia, la morte per lei potrebbe arrivare in un lampo. I draghi, infatti, non si legano agli umani fragili, ma li inceneriscono; e la maggior parte degli studenti non si farebbe scrupoli nell'eliminare Violet pur di migliorare le proprie possibilità di successo; senza contare che tutti gli altri la farebbero fuori volentieri pur di punire la temibile e potente madre, compreso Xaden Riorson, il cavaliere più forte e spietato del Quadrante. E così Violet ogni sera va a dormire con la sfida di riuscire a vedere l'alba del giorno dopo.
Gradevole e piuttosto prevedibile, lettura comfort.

Scritto nel 1915, influenzato dalle cronache pubblicate su alcuni giornali che descrivevano le cattive condizioni carcerarie della California, Il vagabondo delle stelle di Jack London è, inoltre, una storia di reincarnazioni. Il romanzo narra in prima persona le vicende di un professore universitario, Darrell Standing, detenuto nel carcere di San Quentin per un omicidio, che scrive negli ultimi tre giorni della sua vita le sue memorie. Più che memorie sono racconti dei viaggi che fa, con il suo corpo astrale, durante il periodo di permanenza in carcere, soprattutto quando è rinchiuso in cella di isolamento.
Un libro forte e toccante, più valido però per l'idea e la tesi/denuncia che per il valore estetico.

Ricreando attraverso la scrittura i meccanismi della memoria, dove il tempo si dilata e si contrae sovrapponendo immagini, pensieri, sentimenti e luoghi, Jón Kalman Stefánsson intreccia in Crepitio di stelle i destini di quattro generazioni di donne e uomini, vite effimere come le nuvole nei cieli d’Islanda, la cui incessante ricerca di un senso - nella vita, nel bisogno di radici, nell’inesorabilità della morte e del desiderio, è assoluta ed eterna.
L'aspetto migliore della narrazione è la capacità di assumere i diversi punti di vista, soprattutto quella di produrre un effetto straniante e bizzarro quando il punto di vista è quello di un bambino che guarda al mondo senza l'esperienza, o le consuetudini, degli adulti.

Terzo volume, sempre ascoltato letto dall'autrice stessa - che è decisamente un plus -, della serie della ghostwriter Vani Sarca, di Alice BassoA Vani basta notare un tic, una lieve flessione della voce, uno strano modo di camminare per sapere cosa c'è nella testa delle persone: un'empatia innata che Vani mal sopporta, visto il suo odio per qualunque essere vivente le stia intorno; una capacità speciale che però è fondamentale nel suo mestiere, che è quello della ghostwriter che presta le sue parole ad autori che in realtà non hanno scritto i loro libri. In Non ditelo allo scrittore, Vani deve scovare un suo simile, un altro ghostwriter che si cela dietro uno dei più importanti romanzi della letteratura italiana. Parallelamente, il commissario Berganza, con cui collabora, è sicuro che lei sia l'unica a poter scoprire come un boss della malavita agli arresti domiciliari riesca comunque a guidare i suoi traffici. 
Lettura/ascolto che è ormai una garanzia.

Leigh Bardugo, autrice dell'universo di Grisha (Tenebre e ossa e tutti gli altri), ambienta Il famiglio in una Madrid diventata da poco capitale del Regno e pervasa dalla furia controriformistica dell'Inquisizione. La giovane Luzia Cotado, conversa orfana di entrambi i genitori, cerca di sopravvivere come meglio può, nascondendo a tutti le sue origini e, soprattutto, la sua capacità di compiere milagritos, piccole magie. Un giorno, però, la signora della casa presso la quale presta servizio si accorge del suo dono e di lì in poi la obbliga a farne sfoggio davanti ai suoi ospiti, nel patetico e disperato tentativo di migliorare la posizione sociale della propria famiglia ormai decaduta. Ma quello che inizia come un semplice divertimento per nobili fiacchi e annoiati, prende ben presto una piega pericolosa perché Luzia attira l'attenzione di Antonio Pérez, ex segretario ora in disgrazia del re Filippo II. Per riconquistare il favore del sovrano, ancora provato dalla sconfitta della sua invincibile armada, Pérez decide di indire un torneo per trovare un campione che diventi l'arma decisiva nella guerra estenuante contro Elisabetta, la regina eretica d'Inghilterra. Determinata a cogliere l'unica possibilità che la vita sembra volerle offrire per migliorare la propria condizione, Luzia si immerge in un mondo popolato da veggenti e alchimisti, bambine sante e imbroglioni, dove i confini tra magia, scienza e inganno sono tanto labili quanto incerti. Con il crescere della sua notorietà, però, aumenta di pari passo il rischio che i suoi segreti vengano scoperti. Per non finire nella morsa dell'Inquisizione, la giovane conversa dovrà quindi agire d'astuzia, accettando persino l'aiuto di un uomo misterioso temuto da tutti, Guillén Santángel, a sua volta custode di verità e segreti che potrebbero rivelarsi letali per entrambi.
Nella narrazione al racconto storico si intrecciano con bravura realismo magico e storia d'amore, una lettura decisamente piacevole e coinvolgente.

Nella Londra del 1922 ci porta Gli ospiti paganti, romanzo di Sarah Waters. In una città che porta ancora i segni della recente guerra, sono molte le cose che hanno bisogno di essere ricostruite, restaurate, molte le ferite da sanare, molti i cuori da riscaldare. Una madre e una figlia, i cui uomini di famiglia son stati portati via dalla guerra, sono costrette ad affittare alcune stanze della loro casa per sbarcare il lunario. Gli ospiti paganti sono una coppia di giovani sposi, che con la loro allegria e sensualità portano nelle polverose stanze dell’appartamento una ventata di aria fresca, ma anche turbamento. I rumori, i passi, gli incontri in bagno, sul pianerottolo, la condivisione della vita quotidiana: un’intimità con estranei a cui le due donne non sono abituate. Lo scenario cambia velocemente, e molti fatti accadono nel vecchio appartamento che sembrava destinato a una vita fatta di piccole abitudini e di noia: un amore inaspettato e travolgente; una misteriosa aggressione; e da ultimo un omicidio.
Un "grandissimo, maestoso romanzo" (così Stephen King) che intreccia la dimensione psicologica, intima, interiore, personale della passione amorosa e dei desideri inconfessati - e le loro travolgenti conseguenze -, con l’affresco di un’epoca storica vivido e autentico nella sua dimensione politica, sociale e di mentalità. Uno scontro anche generazionale rispetto ai valori, tra emancipazione e compromesso vittoriano, di cui la madre lamenta con la figlia: al giorno d'oggi il termine 'vittoriano' viene usato per archiviare tutte le virtù che la gente non vuole darsi la pena di coltivare.

martedì 25 febbraio 2025

ribellione, non rivoluzione

Nel raccontare con In ogni caso nessun rimorso la vita rocambolesca e le ferme opinioni di Jules Bonnot, Pino Cacucci immerge il lettore nell'esistenza di uno dei milioni di senza lavoro che l'Europa degli inizi del secolo, così presa dalle conquiste coloniali e dalla frenesia della Belle Epoque, teneva a bada con crescente difficoltà, affidandosi all'incessante opera delle squadre antisommossa e alle bande di pistoleri al soldo dei grandi industriali.
Jules Bonnot ha un cuore maledetto, che aveva pompato per anni un sangue schiumoso di sensazioni dolorose, riempiendo le arterie di rancore per le umiliazioni, le stesse che tanti sopportavano senza impazzire, mentre in lui avevano provocato una sete di vendetta inestinguibile. Ha un fuoco nelle viscere, che gli bruciava dentro fin da bambino, alimentato dalla fame, dalle bastonate, dall'inutilità di qualsiasi sforzo compiuto per sfuggire al marchio della miseria, quel fuoco acceso da una sensibilità nefasta. Ha occhi che sono nemici della sua sopravvivenza, perché non possono non soffermarsi su ogni cosa servisse a trarne sofferenza, rifiutandosi di scorrere sulla vita come davanti a uno spettacolo estraneo. Tutto questo lo porta a essere uno di quegli uomini diversi dagli altri, da tutti quelli che rimangono a capo chino fino all'ultimo dei loro giorni, in una rassegnazione muta.

"L'umanità si sacrifica per certe idee fisse, quali la verità, la giustizia, il dovere... che considera come ideali. Bisogna distruggere le idee fisse. La mia causa non è universale, bensì unica, come unico è ciascun individuo... Vero è ciò che è unico, falso ciò che non mi appartiene, e falsi sono la società e lo stato, a cui tu dai la tua forza e da cui sei sfruttato."
Jules sottolineò il paragrafo con il lapis e richiuse il libro: L'unico e la sua proprietà, di Max Stirner, il filosofo teorico dell'anarchismo individualista. La copertina sdrucita era cosparsa di macchie e ombre: l'unto e il sudore delle sue dita, che erano tornate ancora una volta a immergersi nel grasso dei motori. La fiamma della candela tremolava, si innalzava e si abbassava bruscamente, segno che la cera mista a sego stava esalando gli ultimi respiri. Forse aveva ancora dieci minuti di luce, prima che l'agonia dello stoppino volgesse al termine. Riaprì il libro e cercò il capitolo che aveva letto almeno dieci volte, segnandolo con un punto esclamativo accanto al testo.
"Rivoluzione e ribellione non vanno considerate sinonimi. La prima consiste nel rovesciamento dello status quo, dell'ordine costituito, ed è quindi un atto politico e sociale. La seconda, pur avendo come inevitabile conseguenza una trasformazione dello stato di cose esistente, non nasce da questo, bensì dall'individuale scontento degli uomini. Non è una rivolta armata, ma un insorgere di individui, un ribellarsi, senza alcun pensiero alle conseguenze che ne potranno derivare. La rivoluzione mira a un'organizzazione nuova; la ribellione ci porta invece a non lasciarci più organizzare, ma a organizzarci da soli, e non ripone fulgide speranze nelle istituzioni... La rivoluzione ci comanda di creare istituzioni nuove; la ribellione, di sollevarci e innalzarci."
"Ribellione", mormorò Jules adagiandosi sulla branda. Ribellione, non rivoluzione. Qualsiasi tentativo di sostituire un governo reazionario con uno rivoluzionario, rifletté, avrebbe comunque lasciato al loro posto, se non gli stessi sfruttatori, sicuramente i metodi di sfruttamento in quanto funzione, rifletteva Jules. Lo stato poteva cambiare i fini, ma non i mezzi. Stirner lo aveva capito. E Nietzsche definiva Stirner "l'intelletto più fertile della sua epoca", pensò Jules grattandosi con violenza fra i capelli; fu distratto dall'idea che in quella lurida soffitta ci fossero le cimici... Ma no, era solo sporcizia, non si faceva un bagno da troppi giorni, e la polvere ferrosa della fabbrica era peggio delle cimici. Jules sospirò e subito fu preso da un attacco di tosse- Quella maledetta polvere. Che importava se veniva respirata in nome di Bismarck o della socialdemocrazia, quando l'unico scopo era costruire cannoni per poi sottomettere popoli in Africa o in Asia, o mostrare i muscoli ai vicini europei. No, non c'era speranza nella rivoluzione. La ribellione era un'altra cosa.
Gli tornò alla memoria Gaetano Bresci. Tre pallottole nel petto del re, un re così galantuomo da aver dato una medaglia al generale Bava Beccaris, per le sue cannonate sui dimostranti. La sua era stata fin dall'inizio una missione suicida. In quanto ai re, hanno sempre i loro figli a cui passare lo scettro e il comando dei cannoni da puntare sulla folla. Niente era davvero cambiato. Ma, in definitiva, c'era un modo concreto per cambiare qualcosa? Servivano, forse, micidiali bombe? Ma le stragi di borghesi e poliziotti avevano offerto al potere l'occasione di sobillare l'opinione pubblica a tal punto da consentire il varo di leggi degne della peggiore tirannide, che davano a polizia e magistratura illimitati poteri nella persecuzione dei "sovversivi".
L'azione, non restava che l'azione. Ma senza immolarsi, senza rivendicarla, senza offrire la gola ai mastini. Colpire gli sfruttatori amanti di ghigliottine e champagne in ciò che più stava loro a cuore: il denaro. Non per arricchirsi, ma per restituire un po' del terrore che distribuivano, illusi di restarne al riparo. Non con le bombe, ma con le armi in pugno, per riprendersi una parte di tutto quello che sottraevano a milioni di disperati come lui. O forse, soltanto per il gusto della vendetta.

domenica 23 febbraio 2025

libri acquistati il 21 febbraio

Dopo una lunga settimana a scuola, venerdì meritata passeggiata in centro con acquisti librari.
Anzi, prima ancora da edicola, con la prima uscita de Leggende della moda, dedicata a Chanel, e il nuovo numero della serie Sherlock de Il giallo Mondadori, che presenta Sherlock Holmes e l'enigma del cadavere scomparso di Luca Martinelli: una giovane suffragetta è la cliente  che si presenta al 221B di Baker Street in cerca d'aiuto, chiedendo l'intervento di Holmes e Watson per due compagne che non sono state arrestate durante una manifestazione per aver lanciato pietre contro le vetrine o per essersi incatenate a un lampione, ma che devono rispondere dell'accusa di omicidio: la vittima è un libraio notoriamente avverso al movimento di emancipazione femminile, trovato nel retro del negozio con una profonda ferita all'addome causata dalla lama di un coltello.

«Il romanzo piú bello che ho letto quest'anno. Una saga tentacolare, una formidabile prova di narrativa realista». Preso anche per queste parole di Bret Easton Ellis Il giorno dell'ape di Paul Murray. La famiglia Barnes è nei guai: la concessionaria di Dickie sta per fallire, ma lui, invece di affrontare la situazione, trascorre le giornate costruendo un bunker a prova di apocalisse; la moglie Imelda, nel frattempo, si è messa a vendere i gioielli su eBay; la figlia adolescente Cass, ex prima della classe, sembra voler sabotare la sua carriera scolastica; e PJ, il figlio dodicenne, sta allestendo un piano per scappare di casa. Che cosa è andato storto per i Barnes, al punto da mandare tutto in rovina? Al tempo stesso affresco famigliare e ritratto della contemporaneità, un indimenticabile tour de force pieno di umorismo e calore umano.

Visto tempo fa, non preso allora, poi non più trovato e ora riapparso e preso, il volume della rivista cartacea COSE Spiegate bene, del giornale online "Post", dedicato alla storia di strumenti, prodotti, manufatti, arnesi e cose di vario design che hanno cambiato i nostri mondi. Ne La sicurezza degli oggetti, si mostra come le nostre vite siano fatte di relazioni intime, quotidiane, spesso indispensabili, con questi oggetti, con cui a volte costruiamo rapporti che coinvolgono emozioni e persino sentimenti; il loro aspetto e  design - risultato di attenzioni alle funzioni o lunghissimi tempi di studio, sperimentazione o uso -, la loro storia - che è un pezzo della storia del genere umano -, il loro rapporto con popoli e individui - selezione accurata, accumulo compulsivo. Fra le tante storie e spiegazioni contenute in questo numero ci sono la presenza rilevante della plastica nelle cose che ci circondano, i pregi e i difetti del cartone della pizza, il bianchetto e la donna che lo inventò, il cambiamento del rapporto con la musica introdotto dal Walkman, la storia del bidet e del perché si trova solo in alcuni paesi, e anche il bancale, il vibratore, il cubo di Rubik e una breve storia delle maniglie. 

L'ultimo romanzo di Amélie Nothomb è un ritorno in Giappone. Con L'impossibile ritorno si torna nel paese amato dall'autrice, il luogo della sua infanzia e della disastrosa vergogna come impiegata (vedi Stupore e tremori). Questa volta è in compagnia dell’amica fotografa Pep Beni e durante i dieci giorni di viaggio sperimenta il kenshō (una sorta di estasi contemplativa), abbandona lo champagne per i whisky giapponesi, si immerge con una nuova prospettiva nei luoghi della gioventù. E se alcune parole giapponesi sono ormai sbiadite nella memoria, le sensazioni che i suoni, gli odori e la luce le provocano si riaffacciano come se non avesse mai lasciato il Giappone. Questa avventura á la Thelma & Louise diventa così un’occasione non solo per elaborare il lutto del padre ma anche per capire la sé stessa di oggi.

Rimanendo in Giappone, il romanzo consigliato da Cristina La mia vita con i gatti, di Morishita Noriko. Noriko vive una vita forse fin troppo tranquilla, è una scrittrice sulla cinquantina da qualche tempo ferma in una palude di tristezza camuffata da abitudine: il libro che sta scrivendo è bloccato da mesi, e nulla sembra andare per il verso giusto. Alla ricerca di una svolta, fa visita a un santuario shintoista e sussurra: «Dammi la felicità». Il giorno dopo, quasi fosse un segno soprannaturale, vicino al ceppo della magnolia davanti a casa sua, piantata tanti anni prima dal padre, qualcosa si muove nell'aiuola: è una gatta randagia che sta dando alla luce una cucciolata. Nessuno nel vicinato è disposto a prendersi cura dei gattini appena nati, inizia così la convivenza della donna con questi animali di piccole dimensioni ma capaci di portare un grande cambiamento nella sua vita, a lei i gatti nemmeno piacevano. Non solo diario delle giornate che Noriko trascorre in compagnia dei suoi ospiti felini, ma anche degli incontri speciali e delle scoperte sorprendenti su se stessa, la vita e, soprattutto, la felicità e la sua ricerca che farà grazie a loro.

venerdì 21 febbraio 2025

fantasia, ristoro, evasione, consolazione (on fairy-stories 2di2)

Se l'immaginazione è la facoltà della mente umana è capace di plasmare immagini di oggetti non concretamente presenti, la fantasia combina ciò con le nozioni di irrealtà - vale a dire, di estraniazione dal Mondo Primario - e di libertà dal dominio del fatto osservato. J.R.R.Tolkien respinge ogni tono deprecatorio con cui si possa parlare del fantastico come di una forma inferiore, lo si può fare solo confondendolo stupidamente, o maliziosamente, con il sogno - nel quale non vi è arte - e con disordini mentali quali illusione e allucinazione - in cui pure manca il controllo. Costruire un Mondo Secondario dentro il quale un sole verde risulti credibile richiede, piuttosto, fatica e riflessione. Così la fantasia realizza il desiderio creativo propriamente umano, di quell'uomo che Tolkien definisce il subcreatore che le fessure del mondo ha riempito di elfi e di folletti, ma pure costruito dèi e templi, e sparso dei draghi il seme. Fantasia che è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla ragione, né smussa l'appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione.

Altro desiderio primario che stanno al nocciolo del feerico è quello del ristoro, cioè dell'evasione dal tedio. Dovremmo - secondo Tolkien - guardare ancora il verde ed essere nuovamente stupiti, dovremmo incontrare il centauro e il drago, e poi fors'anche all'improvviso scorgere pecore, cani, cavalli - e beninteso lupi. Questo ristoro, le fiabe ci aiutano a averlo, e in questo senso soltanto il gusto per esse può renderci o mantenerci fanciulli. Il ristoro (che implica il ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. Tolkien non arriva a dire vedere le cose come sono, non vuole trovarsi alle prese con i filosofi, anche se si azzarda a dire vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle, vale a dire quali entità separate da noi stessi. Si tratta cioè di pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare - dalla possessività. Questo tritume è il prezzo dell'appropriazione delle cose: per Tolkien abbiamo messo le mani su di loro e poi le abbiamo chiuse a chiave nel nostro forziere, le abbiamo acquisite e, acquisendole, abbiamo cessato di guardarle
Questo è Mooreeffoc, cioè la defamiliarizzazione che G.K. Chesterton descrive nel suo studio critico su Charles Dickens come la bizzarria di cose che sono divenute ovvie, quando le si scorga, all'improvviso, da un altro punto di vista. Mooreeffoc è una parola immaginaria, ma la si può trovare bell'e scritta in ogni villaggio inglese, essendo infatti l'insegna di un Coffee-room, un caffè, vista dall'interno attraverso una porta vetrata in una buia giornata londinese. Questo virtuoso recupero della freschezza della visione fa sì che ci si renda conto, all'improvviso, che l'Inghilterra è un paese alieno, che si scorga la sorprendente stranezza e singolarità dei suoi abitanti, delle loro costumanze e abitudini
La fantasia è così capace di aprire il forziere umano e di farne volar via tutte le cose racchiusevi, come uccelli da una gabbia, facendoci accorgere allora che tutto ciò che avevamo o sapevamo era pericoloso e dotato di poteri, nient'affatto saldamente impastoiato, sì anzi libero e selvaggio, e tanto poco nostro.

Infine, Tolkien prende in esame l'evasione e la consolazione. I critici che definiscono le fiabe letteratura di evasione confondono, non sempre in buona fede, l'evasione del prigioniero con la fuga del disertore. L'evasione che non è diserzione ha per compagni disgusto, rabbia, repulsione e rivolta, è la resistenza del patriota sempre preferibile all'acquiescenza del collaborazionista. Tali critici contrappongono la fiaba alla vita reale, ma l'idea che le automobili siano più vive dei centauri o dei draghi appare a Tolkien ben curiosa. Perché, si chiede l'autore, non dovremmo fuggire o condannare la tetra assurdità assira dei cappelli a cilindro e l'orrorre morlockiano delle fabbriche? E ci sono anche altre e più profonde evasioni che sempre hanno fatto la propria comparsa nella fiaba, altre cose più cupe e terribili che non il frastuono, il puzzo, la spietatezza e l'assurdità del motore a combustione interna: fame, sete, povertà, dolore, sofferenza, ingiustizia, morte. Tutte cose dalle quali le fiabe offrono una sorta di evasione.
Così come ci sono ambizioni e desideri ai quali le fiabe offrono una sorta di soddisfazione e consolazione: visitare, liberi come pesci, le profondità marine, volare, conversare con altri esseri viventi. Ma la consolazione delle fiabe ha anche un altro risvolto accanto alla soddisfazione immaginaria di antichi desideri: ben più importante è la consolazione del lieto fine. Il racconto eucatastrofico è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione; l'improvviso capovolgimento gioioso smentisce l'universale sconfitta finale, permette una fugace visione della gioia, gioia al di là delle mura del mondo.

giovedì 20 febbraio 2025

il wargame storico, una public history diffusa

Soldatini di piombo, reggimenti di carta
Il wargame come lo intendiamo oggi ebbe origine intorno alla fine del XVIII secolo presso la corte prussiana: Kriegsspiel, per l’appunto, gioco di guerra. In tale forma, uscirà rapidamente dai salotti degli aristocratici di corte, per entrare nelle caserme dei militari che ne avevano subito intravisto l’utilità. Già in questa prima epoca rinveniamo sui tavoli del Kriegsspiel riproduzioni topografiche, calcoli statistici e accorgimenti come l’inserimento di tabelle casuali ponderate da confrontare con il tiro di quantità e tipologie ben definite di dadi: tutti elementi che ritroviamo ancora oggi nel wargame civile. Né mancavano rievocazioni di battaglie e campagne militari effettivamente avvenute, con scenari scritti sulla base delle fonti dell’epoca. La fama di questo nuovo strumento si diffonde rapidamente nel continente europeo, ma nel mondo anglosassone diventerà uno svago intellettuale da storici e scrittori quali Robert Louis Stevenson, sia nella sua versione su mappa che con l’ausilio di plastici e miniature. A questi si unirà in seguito anche un altro grande autore, H. G. Wells, che in una breve opera, Little Wars (1913), descrive regole relative agli scontri tra soldatini della sua collezione schierati sul pavimento del salotto. Il gioco storico di argomento militare subisce una vera e propria rivoluzione verso il finire degli anni Cinquanta. È infatti nel 1958 che Charles S. Roberts pubblica con la casa editrice Avalon Hill il gioco Tactics II, simulazione di un conflitto tra due nazioni ipotetiche, e nel 1961 Gettysburg, il primo wargame su mappa dedicato a una battaglia storica. Nel 1964 Roberts sostituisce la griglia ortogonale con una più versatile griglia a esagoni e da allora la “mappa esagonata” diverrà una costante di questo genere di giochi. La Avalon Hill sarà in breve tempo affiancata da altre ditte, che incrementeranno il livello di realismo e di ricerca storica.  Fin dalle origini esiste nei wargame una dicotomia tra simulazioni basate su segnalini che si spostano su una mappa (counters) e regolamenti che prevedono lo spostamento fisico di componenti di gioco su plastici tridimensionali: dai primi avremo quelli che vengono definiti boardwargames, dai secondi i miniature wargames. Non si tratta di differenze meramente estetiche, il supporto materiale condiziona il gioco anche dal punto di vista funzionale, imponendo all'attività ludica focus ben diversi. Il gioco su tabellone (hex-and-counter) si rivela eccezionalmente versatile per la descrizione di fenomeni storici complessi, che vanno al di là del mero aspetto bellico. Così, accanto a giochi più prettamente militari compaiono titoli politico-diplomatici come Origins of World War Two (1971) e The Plot to Assassinate Hitler (1976).  Maggiormente legato alla tradizionale raffigurazione bellica appare invece il wargame tridimensionale. La sua dipendenza da un elemento esterno come la presenza di miniature e l’interazione fisica con un plastico del terreno spingono a concentrare l’attenzione sull’hic et nunc della simulazione.  Bi o tridimensionale che sia, il gioco storico appare riconducibile a un comune tentativo di infondere nuova vitalità alla consapevolezza del passato nel grande pubblico. La Storia si mette in gioco
Quali sono i canali attraverso cui il gioco può davvero farsi strumento di crescita culturale?

  1. Il primo impiego del gioco di simulazione nell’ambito di un percorso di avvicinamento alla storia è quello legato a programmi didattici istituzionalizzati. Il gioco di simulazione permette a un docente di affiancare alla lezione su un determinato argomento la spiegazione delle regole del gioco stesso, con l’occasione analizzando i motivi che hanno spinto l’autore a dare un certo valore alle unità, a escogitare una certa meccanica, a definire certi parametri. Per garantire l’imprescindibile approfondimento storico sarà sempre necessario fare ricorso a testi specialistici e a fonti dirette, ma tali materiali - una volta rivisti nell’ambito di un processo interattivo di apprendimento - verranno come “rivitalizzati”.
  2. In una seconda modalità, quella forse più vicina al tradizionale concetto di public history, l’impiego pubblico del gioco storico si affianca a altre forme di rievocazione più frequenti, con partite dimostrative, tornei o lezioni ludico-interattive. Un esempio in tal senso è stato l’incontro tenuto dal game designer Andrea Angiolino presso il Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, durante il quale ha guidato il pubblico in una partita collettiva del suo libro-gioco dedicato alle imprese dei bombardieri e aerosiluranti SM79, commentandola con notazioni di carattere storico sul secondo conflitto mondiale nel Mediterraneo. Per citare un altro caso, per quasi venti anni nei pressi di Parigi si è svolto il Trophée du Bicentenaire, giocando i numerosi scenari del regolamento Jours de Gloire/Triumph & Glory esattamente a 200 anni dalla data storica delle rispettive battaglie rappresentate [Lonato, 1796 - Waterloo, 1815]. Un ulteriore esempio in tal senso è rappresentato da Memoir ‘44, wargame leggero sulla Seconda guerra mondiale che ha ottenuto grande successo nei negozi di souvenir della Normandia proprio durante le celebrazioni del sessantesimo anniversario del D-Day. Ancora, realtà pubbliche di rilevanza culturale e amministrazioni locali dedicate alla salvaguardia delle aree in cui si sono svolti eventi storici e bellici hanno in diversi casi patrocinato o collaborato alla creazione di giochi di simulazione, fornendo materiali e organizzando sopralluoghi sul campo: questo il caso del wargame Radetzky’s March, arricchito dal contributo dell’Associazione Amici del Parco della Battaglia di Novara.
  3. Un terzo modo di esplicarsi del rapporto tra gioco storico e public history è quello per certi versi rimasto più legato alle sue origini. Il Kriegsspiel arriva infatti ai giorni nostri sotto forma di professional wargaming, ossia l’impiego della simulazione da parte di militari e analisti di intelligence. Fu quel che accadde con l’Operazione Desert Shield del 1990, quando a seguito dell’invasione del Kuwait da parte delle truppe irachene, la leadership militare americana fu chiamata a organizzare in tutta fretta un dispiegamento difensivo senza avere predisposto in precedenza alcun piano operativo. Un ufficiale appassionato di wargames propose allora di sfruttare uno scenario ipotetico che descriveva proprio un intervento analogo contenuto in Gulf Strike (1983), trasformato così nel primo gioco di simulazione civile a essere utilizzato nell’ambito di una pianificazione militare reale. Tre sono i settori in cui si esplica l’impiego professionale del gioco di simulazione: definizione di modelli predittivi, addestramento del personale, formazione indiretta. Nel primo caso ci troviamo davvero al cospetto dell’utilizzo più classico del Kriegsspiel: studiare piani operativi e alternative strategiche in esercitazioni su mappa o plastico; un esempio in tal senso è rappresentato dalle simulazioni navali tridimensionali tenute dalla Western Approaches Tactical Unit nel corso della cosiddetta Battaglia dell’Atlantico, dal 1942 al 1945. Il terzo e ultimo impiego operativo del gioco è quello di affinamento delle soft skills: lavoro di squadra, sviluppo dell’empatia, addestramento al problem solving.

“Attaccante Si Ritira”: Le criticità del gioco storico
Esaminate le manifestazioni del rapporto tra gioco storico e public history, non ci resta che esaminare le sue problematiche ma anche i suoi punti di forza. Partiamo dalle prime.
  1. La simulazione è per sua natura una semplificazione. I giochi storici sono frutto della visione che il rispettivo autore ha dei fatti rappresentati e di scelte nel suo processo creativo. Appare così chiaro come un utilizzo combinato e ragionato del rigore della storiografia tradizionale e della libertà del gioco di simulazione possa dare ottimi risultati a patto che l’intera esperienza sia mediata da esperti capaci di evidenziare i punti più critici.
  2. Altre critiche possono appuntarsi sulla opportunità etica. Il gioco di simulazione, per ottenere il suo obiettivo di rappresentare la realtà, deve mettere i giocatori nei panni di tutti i contendenti e per farlo deve “sollevarsi” da qualsiasi valutazione di carattere etico o politico. Questo però non significa che i partecipanti siano incoraggiati a giustificare le opinioni di coloro che rappresentano in gioco. Si recupera anzi la lezione di H. G. Wells sull’impiego del gioco come strumento di comprensione delle storture e dell’ipocrisia del momento bellico, o anche il messaggio contenuto nella Lettera a mio figlio di Umberto Eco.
  3. Infine, esiste un terzo aspetto. Come conciliare le esigenze formative con l’indisciplinatezza insita nel momento ludico.
“Difensore Eliminato”: Le virtù del gioco storico
  1. Il primo di questi elementi è insito alla natura stessa del gioco di simulazione. Gli studiosi di storia militare ben conoscono la diatriba esistente tra due grandi teorici del passato: Antoine-Henri de Jomini e Carl von Clausewitz. Laddove il primo appare più attento all’analisi geometrica dell’applicazione delle forze e all’elencazione delle casistiche tattico-strategiche, il secondo è tra i primi a aver definito l’elemento irrazionale dei conflitti. I wargames si piazzano esattamente nel mezzo. Due sono infatti i componenti base del gioco di simulazione che simboleggiano l’equilibrio raggiunto tra dinamica delle forze e calcolo dei fattori irrazionali: da una parte le griglie sulle mappe o il centimetro usato per le misurazioni, dall’altra il dado che con la sua casualità in vari modi inserisce nel gioco l’aspetto casuale ponderato. Considerando ciò, il gioco di simulazione è in grado di mostrare con estrema chiarezza l’interazione sul campo e negli eventi storici di queste due grandi forze: la pianificazione e l’imprevisto.
  2. Parlando di casualità ponderata, viene facile trattare di un altro elemento di pregio del gioco storico, ossia l’inclusione sempre crescente di fattori storici complessi nella simulazione (controllo politico, dinamiche economiche, rivolte e tradimenti). La simulazione si fa sempre meno lineare e geometrica, andando a approfondire la ricerca storica e indagando sulle cause remote degli eventi anche al di là dei fatti contingenti mostrati dalla simulazione. Lo scotto da pagare per un’integrazione così profonda degli elementi storici complessi è certo un aumento della complessità generale, una diminuzione dell’immediatezza del gioco.

(da Riccardo Masini, Il Wargame storico. Una public history diffusa, in Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica).

domenica 16 febbraio 2025

desiderare draghi con tutto il cuore (on fairy-stories 1di2)

Altro libro letto per il gruppo di lettura di questo mese è stato Albero e foglia di J.R.R. Tolkien. Il volume, pubblicato nel 1964, riunisce il racconto "Foglia", di Niggle e il saggio Sulle fiabe; nell'edizione da me letta sono inclusi anche la poesia Mitopoeia e un altro paio di racconti.

In On Fairy-Stories Tolkien si interroga innanzitutto su cosa sia una fiaba, non trovando adeguate le definizioni da dizionario che rimandano o a un racconto riguardante le fate, o a una storia irreale o incredibile ovvero una fola. Definizioni tanto meno adeguate se si guarda a come le fate siano a loro volta definite nei lessici: esseri soprannaturali di piccola statura. Ora, argomenta Tolkien, soprannaturale è un aggettivo ambiguo, comunque difficile da riferire alle fate: infatti, è l'uomo che, a paragone delle fate, è soprannaturale, laddove esse sono naturali, assai più naturali di quanto non sia lui. E quanto alla statura minuscola, la piccolezza non è una caratteristica del popolo fatato, degli abitanti di Feeria nel loro complesso, essa rientra piuttosto, a giudizio dell'autore, nell'amore tipicamente inglese per il delicato e il grazioso, e, pure, Tolkien ha il sospetto che questa minuzia di fiori e farfalle sia in parte il prodotto di una razionalizzazione che ha trasformato la malia del paese degli elfi in mera sottigliezza, e l'invisibilità in una fragilità tale da potersi celare in una primula: è una tendenza che sembra essere divenuta di moda non appena i grandi viaggi hanno cominciato a far apparire il mondo angusto per gli uomini e gli elfi assieme.
La definizione è troppo ristretta, le storie di fate non sono storie su fate o elfi, bensì vicende in cui si narra del mondo fatato, cioè Feeria, reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate, gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, e la terra e tutte le cose che sono in essa. Gran parte delle fiabe parlano di avventure di uomini nel Reame Periglioso o nelle sue incerte marche di frontiera. Ciò che una favola è non dipende da elfi o fate, bensì dalla natura di Feeria, del Reame Periglioso, dall'atmosfera che vi domina.
Così, non rientra nelle fiabe il genere dei racconti di viaggio, i quali riferiscono molte meraviglie, visibili però in questo mondo mortale. I racconti di Gulliver non hanno diritto d'accesso in questa categoria. In secondo luogo, oltre ai racconti di viaggio, Tolkien esclude e definisce non pertinente qualsiasi racconto che ricorra al meccanismo del sogno per giustificare le meraviglie che vi compaiono: per una fiaba è essenziale che essa sia presentata come vera, dunque le storie dell'Alice di Lewis Carroll non possono dirsi fiabe. C'è poi un altro tipo di racconto meraviglioso che Tolkien escluderebbe, ovvero le favole di animali puramente tali, quelle in cui la forma animale non è che una maschera su un volto umano, un espediente cui fa ricorso il satirico o il predicatore. I racconti di Beatrix Potter si situano al di qua dei confini di Feeria.

Tolkien si interroga poi sull'origine delle fiabe, argomentando che evoluzione indipendente, derivazione da un ceppo comune, oppure diffusione in varie epoche da uno o più centri, tutte e tre le possibilità riconducono a un inventore, a un narratore. La mente incarnata, la favella e il racconto sono, nel nostro mondo, coeve: la mente umana, dotata dei poteri di generalizzazione e astrazione, percepisce non soltanto erba verde distinguendola da altri oggetti, ma s'avvede che è sia verde sia erba. E quanto possente è stata l'invenzione dell'aggettivo, nessuna formula magica o incantesimo lo è di più. La mente che pensò leggero, pesante, grigio, giallo, immobile, veloce, concepì anche la magia atta a rendere cose pesanti, leggere e atte a volare, a trasformare il grigio piombo in giallo oro, l'immobile roccia in acqua veloce. Se possiamo distinguere il verde dall'erba, l'azzurro dal cielo, il rosso dal sangue, abbiamo già il potere di un mago, e si desta allora il desiderio di esercitare tale potere sul mondo esterno alla nostra mente: possiamo stendere un ferale verde sul volto di un uomo e generare un orrore, possiamo far germogliare boschi di argentee foglie e far indossare agli arieti velli d'oro, possiamo mettere fuoco caldo nel gelido ventre del drago. Ma tali fantasie sono la matrice di nuove forme, ha inizio Feeria, l'uomo diviene un subcreatore.

Opportuno poi per Tolkien passare ai bambini, per disinnescare la connessione istituita tra essi e fiabe. Le fiabe, nel moderno mondo alfabetizzato, sono state relegate nella stanza dei bambini, così come mobili sciupati o fuori moda vengono relegati nella stanza dei giochi. In tempi recenti è stato prodotto uno spaventoso sottobosco di racconti scritti o adattati - edulcorati, espurgati, spesso sciocchi, leziosi, paternalistici - a quello che è ritenuto essere il livello della mente e dei bisogni infantili, come può accadere con la musica, la poesia, la storia, i manuali scientifici,  concedendo così alla stanza dei bambini e all'aula scolastica assaggi e barlumi del mondo adulto che, nell'opinione dei grandi (spesso assai errata), sono adatti ai bambini stessi. Tutto questo nella convinzione che caratteristiche dei bambini siano la credulità e appetito per le meraviglie.
Ma, rammenta Tolkien di se stesso, non ho mai pensato che il drago appartenesse allo stesso ordine del cavallo, il drago portava il marchio Made in Feeria impresso a chiare lettere, e quale fosse il mondo in cui menava la sua esistenza era pur sempre un Altro Mondo. La fantasia, la creazione o il balenare di Altri Mondi costituiscono il nucleo del desiderio di Feeria. Desideravo draghi con tutto il mio cuore: il mondo che comprendeva un Fàfnir, sia pure soltanto immaginario, era più ricco e più bello, per quanto pericoloso fosse. L'abitante delle tranquille e fertili pianure può sentirsi raccontare delle colline impervie e dei mari infecondi, e desiderarli in cuor suo, perché il cuore è saldo anche se il corpo è debole.
Si deve sperare che i bambini potranno avere fiabe a loro misura, al di là anziché al di sotto della loro misura. I loro libri, al pari dei loro indumenti, dovrebbero tener conto della crescita, e in ogni caso i libri dovrebbero incoraggiarla.

venerdì 14 febbraio 2025

libri acquistati con il bonus docente (2) + altri ultimi acquisti

Siamo al secondo acquisto librario realizzato grazie al bonus docente.
Intanto abbiamo arricchito ulteriormente il nostro stash con altri due volumi di Vogue Knitting: la guida definitiva per imparare a lavorare a maglia,The Learn-to-Knit Book, e la versione portatile, da viaggio, per rapidi riferimenti sulle tecniche di maglia, The Ultimate Quick Reference. Altro campo di interesse, la calligrafia, coperto con  A to Z of Copperplate calligraphy, per imparare la calligrafia, padroneggiare la scrittura a mano in corsivo attraverso un quaderno di esercizi per principianti.
Quattro racconti per l'infanzia di un Charles Dickens, Storie fantastiche delle vacanze, cui sono arrivato dal saggio dedicato allo scrittore inglese da Gilbert Keith Chesterton citato da Tolkien nel suo scritto Sulla fiaba, letto questo mese. La sospensione dell'incredulità è il presupposto di un racconto introduttivo uscito dalla penna di un bambino di otto anni. Una lisca magica che, per una sola volta può esaudire qualunque desiderio viene donata da una Fata a una piccola Principessa. Un piccolo Capitano coraggioso di nome Boldheart combatte la sua guerra personale contro le angherie del Maestro di Grammatica Latina. Distinti ed educati piccoli signori accudiscono i grandi come fossero i loro bambini, in un paese incantato dove i grandi non devono mai far tardi, devono sempre ubbidire e per punizione sono messi nell'angolino.
Consigliato da un collega, Il serpente di Ouroboros di Eddison Eric Rücker ci trasporta, come in un sogno, in una terra lontana governata dalle leggi della magia, dove due regni sono in lotta per la gloria o la distruzione totale. Il duello mortale tra Gorice, il Re stregone di Witchland, e Goldry, Signore di Demonland, segna l’inizio di una guerra che coinvolgerà eroi, mostri, incantatori e principesse, trascinati nel vortice delle armi fino all’inaspettato finale. Pubblicato nel 1922, il romanzo fonde in una nuova forma letteraria elementi dell’epica classica, delle saghe nordiche, dei poemi cavallereschi e del romanzo gotico: è l’atto di nascita del fantasy, anni prima che Tolkien, amico e attento lettore di Eddison, creasse Arda. 
Filosofia, matematica, Deleuze, stile. Tutte parole che non possono non interessarmi. In che modo è possibile pensare il rapporto tra la matematica e il pensiero di Gilles Deleuze? Ancor più radicalmente: come è possibile pensare matematica e filosofia, scienza e filosofia, senza ricalcare i domini disciplinari della logica e della filosofia della matematica? Il volume di Andrea De Donato Morfogenesi del concetto. Matematica e stile a partire da Gilles Deleuze si propone di ricostruire le radici matematiche della metafisica deleuziana attraverso un costante contrappunto della filosofia con le matematiche più recenti, in particolare l’analisi complessa, le geometrie riemanniane e sub-riemanniane e i modelli neurogeometrici della morfodinamica contemporanea. L’idea alla base di questo studio è che un simile contrappunto non debba essere giustificato tramite delle analogie disciplinari tra diversi ambiti del sapere, ma a partire da una più profonda analisi dello stile in cui un pensiero prende forma. In tal senso, si propone l’idea di una logica dello stile, ben diversa dalla stilistica, che prende il nome di stilologia.
Infine, anche se deve ancora arrivare, il primo volume di una nuova collana della Carocci dedicata al gioco, Giochi per scrivere meglio, in cui Beniamino Sidoti mostra come scrivere sia una tecnica che si può acquisire, migliorare, condividere, approfondire e, come ogni tecnica, appresa anche giocando. Il libro propone un'ampia raccolta di giochi, sperimentati in contesti diversi nell'arco di trent'anni e di provata efficacia, da utilizzare a scuola o nella formazione, in attività sociali, individuali o di coppia. Sono giochi per imparare a scrivere meglio, per sviluppare nuove competenze e scoprire stili o generi letterari divertendosi. Perché ogni gioco permette di fare un passo in più, e tutti insieme di fare molti passi. Beniamino Sidoti è stato uno dei docenti del del corso di perfezionamento in Gaming and Boardgame Design organizzato dall'Università di Genova che ho seguito la scorsa estate, e un paio di suoi esercizi li ho già utilizzati a scuola.

Ne approfitto però anche per segnalare altri ultimi acquisti in libreria.
A fine gennaio abbiamo acquistato L'ora di greco, del premio Nobel per la letteratura 2024 Han Kang. In una Seoul rovente e febbrile, una donna vestita di nero cerca di recuperare la parola che ha perso in seguito a una serie di traumi. Le era già successo una prima volta, da adolescente, e allora era stato l’insolito suono di una parola francese a scardinare il silenzio. Ora, di fronte al riaffiorare di quel mutismo, si aggrappa alla radicale estraneità del greco di Platone nella speranza di riappropriarsi della sua voce. Nell’aula semideserta di un’accademia privata, il suo silenzio incontra lo sguardo velato dell’insegnante di greco, che sta perdendo la vista e che, emigrato in Germania da ragazzo e tornato a Seoul da qualche anno, sembra occupare uno spazio liminale fra le due lingue. Tra di loro nasce un’intimità intessuta di penombra e di perdita, grazie alla quale la donna riuscirà forse a ritornare in contatto con il mondo. 
E, consigliato da Simone Regazzoni, L'anniversario di Andrea Bajani. Si possono abbandonare il proprio padre e la propria madre? Si può sbattere la porta, scendere le scale e decidere che non li si vedrà più? Mettere in discussione l’origine, sfuggire alla sua stretta? Dopo dieci anni sottratti al logoramento di una violenza sottile e pervasiva tra le mura di casa, finalmente un figlio può voltarsi e narrare la sua disgraziata famiglia e il tabù di questa censura con la forza brutale del romanzo. E celebrare così un lacerante anniversario: senza accusare e senza salvare, con una voce scandalosamente calma, come scrive Emmanuel Carrère a rimarcarne la potenza implacabile. Il racconto che ne deriva è il ritratto struggente e lucidissimo di una donna a perdere, che ha rinunciato a tutto pur di essere qualcosa agli occhi del marito, mentre lui tiene lei e i figli dentro un regime in cui possesso e richiesta d’amore sono i lacci di un unico nodo. L’isolamento stagno a cui li costringe viene infranto a tratti dagli squilli di un apparecchio telefonico mal tollerato, da qualche sporadico compagno di scuola, da un’amica della madre che viene presto bandita. In questo microcosmo concentrazionario, a poco a poco si innesta nel figlio, e nei lettori, un desiderio insopprimibile di rinascita - essere sé stessi, vivere la propria vita, aprirsi agli altri senza il terrore delle ritorsioni. Con la certezza che, per mettersi in salvo, da lì niente può essere salvato. L’anniversario è prima di tutto un romanzo di liberazione, che scardina e smaschera il totalitarismo della famiglia. Ci ferisce con la sua onestà, ci disarma con il suo candore, ci mette a nudo con la sua verità. È lo schiaffo ricevuto appena nati: grazie a quel dolore respiriamo. Dieci anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.

Ieri, invece, dopo il pomeriggio passato a scuola per il gruppo di lettura, abbiamo preso in libreria l'Atlante sentimentale dei colori di Kassia St Clair, 76 storie straordinarie, da amaranto a zafferano, per superare l'abitudine a pensare ai colori come a entità astratte, eteree e immutate, codificate una volta per tutte in manuali e cataloghi. Non è così. Gli antichi greci per esempio non riconoscevano al blu una sua precisa identità cromatica, tant’è che il mare nell’Iliade è colore del vino e non sembra in nulla uguale al cielo. Anche i colori insomma hanno una vita: nascono, crescono e muoiono, e a volte hanno seconde e terze vite. Non solo: per ogni colore ci sono centinaia di tonalità, ognuna con caratteristiche e origini precise. Non esiste solo il rosso, ma un prisma intero dallo scarlatto al vermiglione, dalla cocciniglia che si spreme da un insetto alla lacca di garanza estratta da una radice, dal rosso corsa, antenato del celebre rosso Ferrari, all’esotico sangue di drago ricavato da una resina asiatica. E se ogni sfumatura ha la sua storia, è vero anche che ogni sfumatura ha cambiato la nostra storia: la calce con cui si imbiancano i muri si diffuse per disinfettare gli edifici durante le epidemie; il kaki rivoluzionò la guerra introducendo negli eserciti il concetto di camouflage; l’assenzio tinse di verde i sogni dei poeti maledetti; ed è grazie al lapislazzuli, giunto dall’Estremo Oriente, se l’oro degli sfondi medievali si tramutò nel blu oltremare dei cieli rinascimentali, facendo entrare prepotentemente quel colore nella storia dell’Occidente. Tra storia e arte, moda e politica, antropologia e cultura pop, il testo restituisce l’arcobaleno che dà forma al mondo che ci circonda, alla cultura in cui siamo immersi.
Stella distante di Roberto Bolaño, acquistato anche perché il tema dell'incontro del prossimo mese del gruppo di lettura è stelle. Chi è stato Carlos Wieder? Un poeta o un assassino? Un artista o un criminale? Un pilota spericolato che si esibiva in performance di scrittura aerea o un autore di snuff movies? E ha veramente arrestato e torturato e ucciso, nei mesi successivi al golpe di Pinochet, decine di persone, per poi esporre le foto dei cadaveri ridotti a brandelli perché convinto della assoluta, gratuita purezza del male - perché solo il dolore è in grado di rivelare la vita, e perché lo scopo della sua è l'esplorazione dei limiti? Nulla, sembra ribadire l'autore, è più sfuggente della verità. Tant'è che, una pagina dopo l'altra, un tassello dopo l'altro - attraverso un accumulo di indizi, molti dei quali di natura squisitamente letteraria, e di storie parallele, alcune tragiche, alcune grottesche, alcune paradossalmente fiabesche (ma tutte, sempre, eccessive, come il Cile di quegli anni) -, il nostro percorso di avvicinamento a quella che potrebbe essere la verità diventa via via più sdrucciolevole, come se l'autore medesimo ci invitasse a dubitare degli eventi che narra non meno che degli scrittori che cita, delle poesie, delle riviste, dei movimenti letterari a cui allude. Nonché, in definitiva, della esistenza stessa di un uomo chiamato Carlos Wieder.
Dal 1970 al 1987, Gilles Deleuze tenne un corso di filosofia settimanale all’Università sperimentale di Vincennes che a partire dal 1980 si trasferì a Saint-Denis. Le otto lezioni tenute dal filosofo francese tra il marzo e il giugno 1981, sono state trascritte e annotate nel volume Sulla pittura. Che rapporto intrattiene la pittura con la catastrofe, oppure con il caos? Come evocare il monocromo e affrontare il colore? Cos’è una linea priva di contorno? Cosa sono una superficie, uno spazio ottico puro, un regime cromatico? Cézanne, Van Gogh, Michelangelo, Turner, Klee, Mondrian, Pollock, Bacon, Delacroix, Gauguin o Caravaggio costituiscono per il filosofo francese altrettante occasioni per discutere concetti fondamentali come quelli di codice, diagramma, figura, analogia, modulazione. Insieme ai suoi studenti, Deleuze ripensa radicalmente i concetti ai quali fa abitualmente riferimento la nostra comprensione dell’attività creatrice dei pittori. Concreto e luminoso, il pensiero deleuziano si offre qui al lettore al più alto grado della sua particolarissima forza espressiva. 

giovedì 13 febbraio 2025

napoleone e l’arte dei dittatori moderni

Il secondo dei due testi che prendo e propongo per approfondire il tema del potere politico e della sua legittimità è il primo capitolo del saggio Il bello, il buono e il cattivo di Demetrio Paparoni, testo che indaga come la politica abbia condizionato l’arte negli ultimi cento anni.

Nel Seicento, con l’assolutismo di Luigi XIV, e nel Settecento, con l’Illuminismo e la Rivoluzione, la Francia si affermava come una grande potenza dominante in Europa, sia sul piano politico e militare, sia su quello culturale. Ma a imprimere la svolta che avrebbe incoronato Parigi capitale mondiale dell’arte moderna fu Napoleone. Consapevole del fatto che le conquiste militari portano espansione e potere ma non consenso, Napoleone aveva intuito che la Francia avrebbe ottenuto l’egemonia politica sul mondo solo se avesse acquisito anche quella culturale. Assunse così un ruolo attivo nella gestione dei teatri parigini, entrando nel merito delle scelte dei programmi e degli attori; promosse l’architettura e la realizzazione di grandi monumenti; esercitò una forte influenza sugli artisti francesi dell’epoca; favorì gli spettacoli musicali. Ma il suo vero colpo di genio fu la straordinaria raccolta di opere d’arte antica che, perlopiù requisite nel corso delle campagne militari in Europa, soprattutto nei Paesi Bassi e in Italia , fecero del Louvre uno dei più importanti musei del mondo. 

Fu Napoleone a dare una svolta al Louvre. Credette così tanto nella capacità della cultura di far grande una nazione che, oltre ad accumulare opere prestigiose, impose al Louvre l’apertura giornaliera al pubblico, ne affidò la direzione generale a Vivant Denon, amico di Jacques-Louis David e artista anch’egli, inventando così la moderna figura del conservatore di museo (Bonaparte conferì al pittore neoclassico Andrea Appiani, che gli avrebbe dedicato diversi ritratti, lo stesso ruolo per la Pinacoteca di Brera).

Convinto per altro verso che gli abiti con cui ci si presenta in pubblico denotano il proprio status, dunque il proprio potere, Napoleone intuì che anche la moda avrebbe potuto giocare un ruolo nell’accrescere la reputazione della Francia. Apprezzava e sosteneva pubblicamente la rivista di cronaca mondana e di moda Journal des Dames et des Modes, che, attraverso acqueforti dettagliatissime, propose nei suoi inserti abiti che per originalità e gusto delinearono uno stile che avrebbe fatto proseliti nel mondo, contribuendo all’affermazione di una scuola della moda francese che impose al mondo modelli di vita e di comportamento.

In quanto capo militare dotato di poteri straordinari, Napoleone si può considerare un dittatore. Fu indubbiamente un leader carismatico, sostenuto dal consenso del popolo che gli riconobbe la capacità di modernizzare la nazione. Napoleone fu dunque insieme dittatore e principe illuminato. Per rafforzare il suo potere diede grande importanza alla propria immagine, come testimoniano i tanti ritratti a lui dedicati. Nell’iconografia che lo riguarda, gli abiti e le pose lo rendono un personaggio subito riconoscibile. Facendo propria la strategia della Chiesa, che aveva affidato all’arte il grande racconto delle Sacre Scritture per parlare a chiunque, agli ignoranti come ai colti, rivoluzionò inoltre l’idea della propaganda politica, dando incarico ai migliori pittori e scultori del tempo di glorificare la sua figura attraverso opere intese come veri e propri manifesti pubblici. La capacità di Napoleone di creare nuovi modelli di comunicazione fu tale che l’arte che lo celebrò avrebbe rappresentato, ancora a distanza di un secolo, un modello per i principali dittatori del Novecento, sia sul piano stilistico, sia su quello formale. 

L’arte propagandistica sovietica e quella nazista hanno trovato nel Neoclassicismo, in virtù delle sue caratteristiche formali, stilistiche e di contenuto, il modello ideale per rappresentare il consenso popolare di cui godevano i propri leader. Non è un caso che il maresciallo bolscevico Georgij Žukov, identificato nell’immaginario collettivo popolare russo come il Napoleone dell’Unione Sovietica, sia stato raffigurato su un cavallo impennato sulle zampe posteriori. La posa evoca il Napoleone che varca le Alpi di Jacques-Louis David. Allo stesso modo, non è un caso che un altro ritratto dedicato sempre al maresciallo Georgij Žukov faccia il verso, in particolare nella postura e negli ornamenti onorifici, al ritratto di Napoleone realizzato da Andrea Appiani.

Ad accomunare l’arte gradita ai dittatori è l’idea dell’opera totale, dell’opera cioè che si identifica con l’intero contesto in cui è inserita. Muovendo dal presupposto che all’interno del regime tutto debba mirare al consolidamento di un progetto che si riconosce nel pensiero unico di chi governa, le dittature hanno considerato le arti strumenti al servizio del potere o dell’ideologia dominante. L’arte deve pertanto muoversi nella stessa direzione della politica. Questo implica che il suo linguaggio non può essere autonomo, libero di offrire una visione individuale. All’interno di una concezione univoca della storia, nella visione dei dittatori, tutte le forme di espressione creativa debbono mirare a costruire un sistema linguistico monolitico, in linea con i temi della politica. In base a questa logica, i regimi totalitari arrivano a eliminare fisicamente artisti e pensatori i cui ideali non coincidono con quelli della classe dirigente.

Nell’era napoleonica invece l’artista, pur aderendo a una concezione di opera d’arte totale, non fu costretto a muoversi in un contesto regolato da ordini, divieti e provvedimenti. Dal canto suo, Napoleone non accettava che artisti e intellettuali manifestassero pubblicamente dissenso nei suoi confronti. Non trasformò però la censura in repressione fisica, ma impose ai dissidenti l’allontanamento dai confini nazionali. Nonostante questo, nella Francia di Napoleone gli artisti furono liberi di scegliere i temi da affrontare.

Nel 1934, l’Unione Sovietica di Stalin mise nero su bianco che il realismo socialista “esige dall’artista una descrizione veritiera, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario”, precisando che “la veridicità e la concretezza storica della descrizione artistica della realtà devono coesistere con lo scopo del cambiamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”. Nella Germania di Hitler, le restrizioni furono altrettanto drastiche. Joseph Goebbels, ministro per la Propaganda, stigmatizzava come “arte degenerata” qualunque espressione artistica non rispondesse ai canoni dettati dal regime, costringeva all’esilio centinaia di artisti, organizzava roghi di libri non graditi. Nel discorso in cui elogiò il rogo di libri del 10 maggio 1933, Goebbels affermò che “il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri”, che era giusto “gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”. Nulla di simili avvenne nella Francia di Napoleone che, oltre a favorire le raccolte di sculture e dipinti, incoraggiò le collezioni di libri antichi, arazzi, stoffe, porcellane e qualunque altro tipo di manufatto testimoniasse sensibilità e impegno intellettuale.


Con la sua politica culturale, Napoleone creò i presupposti perché la Francia approdasse al Novecento come una straordinaria fucina di creatività.  Napoleone fu il primo dittatore moderno, sostenuto da un forte consenso popolare. Nessuno prima di lui aveva progettato un uso così determinato e diffuso su larga scala dell’arte figurativa propagandistica e autocelebrativa.

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