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giovedì 13 febbraio 2025

napoleone e l’arte dei dittatori moderni

Il secondo dei due testi che prendo e propongo per approfondire il tema del potere politico e della sua legittimità è il primo capitolo del saggio Il bello, il buono e il cattivo di Demetrio Paparoni, testo che indaga come la politica abbia condizionato l’arte negli ultimi cento anni.

Nel Seicento, con l’assolutismo di Luigi XIV, e nel Settecento, con l’Illuminismo e la Rivoluzione, la Francia si affermava come una grande potenza dominante in Europa, sia sul piano politico e militare, sia su quello culturale. Ma a imprimere la svolta che avrebbe incoronato Parigi capitale mondiale dell’arte moderna fu Napoleone. Consapevole del fatto che le conquiste militari portano espansione e potere ma non consenso, Napoleone aveva intuito che la Francia avrebbe ottenuto l’egemonia politica sul mondo solo se avesse acquisito anche quella culturale. Assunse così un ruolo attivo nella gestione dei teatri parigini, entrando nel merito delle scelte dei programmi e degli attori; promosse l’architettura e la realizzazione di grandi monumenti; esercitò una forte influenza sugli artisti francesi dell’epoca; favorì gli spettacoli musicali. Ma il suo vero colpo di genio fu la straordinaria raccolta di opere d’arte antica che, perlopiù requisite nel corso delle campagne militari in Europa, soprattutto nei Paesi Bassi e in Italia , fecero del Louvre uno dei più importanti musei del mondo. 

Fu Napoleone a dare una svolta al Louvre. Credette così tanto nella capacità della cultura di far grande una nazione che, oltre ad accumulare opere prestigiose, impose al Louvre l’apertura giornaliera al pubblico, ne affidò la direzione generale a Vivant Denon, amico di Jacques-Louis David e artista anch’egli, inventando così la moderna figura del conservatore di museo (Bonaparte conferì al pittore neoclassico Andrea Appiani, che gli avrebbe dedicato diversi ritratti, lo stesso ruolo per la Pinacoteca di Brera).

Convinto per altro verso che gli abiti con cui ci si presenta in pubblico denotano il proprio status, dunque il proprio potere, Napoleone intuì che anche la moda avrebbe potuto giocare un ruolo nell’accrescere la reputazione della Francia. Apprezzava e sosteneva pubblicamente la rivista di cronaca mondana e di moda Journal des Dames et des Modes, che, attraverso acqueforti dettagliatissime, propose nei suoi inserti abiti che per originalità e gusto delinearono uno stile che avrebbe fatto proseliti nel mondo, contribuendo all’affermazione di una scuola della moda francese che impose al mondo modelli di vita e di comportamento.

In quanto capo militare dotato di poteri straordinari, Napoleone si può considerare un dittatore. Fu indubbiamente un leader carismatico, sostenuto dal consenso del popolo che gli riconobbe la capacità di modernizzare la nazione. Napoleone fu dunque insieme dittatore e principe illuminato. Per rafforzare il suo potere diede grande importanza alla propria immagine, come testimoniano i tanti ritratti a lui dedicati. Nell’iconografia che lo riguarda, gli abiti e le pose lo rendono un personaggio subito riconoscibile. Facendo propria la strategia della Chiesa, che aveva affidato all’arte il grande racconto delle Sacre Scritture per parlare a chiunque, agli ignoranti come ai colti, rivoluzionò inoltre l’idea della propaganda politica, dando incarico ai migliori pittori e scultori del tempo di glorificare la sua figura attraverso opere intese come veri e propri manifesti pubblici. La capacità di Napoleone di creare nuovi modelli di comunicazione fu tale che l’arte che lo celebrò avrebbe rappresentato, ancora a distanza di un secolo, un modello per i principali dittatori del Novecento, sia sul piano stilistico, sia su quello formale. 

L’arte propagandistica sovietica e quella nazista hanno trovato nel Neoclassicismo, in virtù delle sue caratteristiche formali, stilistiche e di contenuto, il modello ideale per rappresentare il consenso popolare di cui godevano i propri leader. Non è un caso che il maresciallo bolscevico Georgij Žukov, identificato nell’immaginario collettivo popolare russo come il Napoleone dell’Unione Sovietica, sia stato raffigurato su un cavallo impennato sulle zampe posteriori. La posa evoca il Napoleone che varca le Alpi di Jacques-Louis David. Allo stesso modo, non è un caso che un altro ritratto dedicato sempre al maresciallo Georgij Žukov faccia il verso, in particolare nella postura e negli ornamenti onorifici, al ritratto di Napoleone realizzato da Andrea Appiani.

Ad accomunare l’arte gradita ai dittatori è l’idea dell’opera totale, dell’opera cioè che si identifica con l’intero contesto in cui è inserita. Muovendo dal presupposto che all’interno del regime tutto debba mirare al consolidamento di un progetto che si riconosce nel pensiero unico di chi governa, le dittature hanno considerato le arti strumenti al servizio del potere o dell’ideologia dominante. L’arte deve pertanto muoversi nella stessa direzione della politica. Questo implica che il suo linguaggio non può essere autonomo, libero di offrire una visione individuale. All’interno di una concezione univoca della storia, nella visione dei dittatori, tutte le forme di espressione creativa debbono mirare a costruire un sistema linguistico monolitico, in linea con i temi della politica. In base a questa logica, i regimi totalitari arrivano a eliminare fisicamente artisti e pensatori i cui ideali non coincidono con quelli della classe dirigente.

Nell’era napoleonica invece l’artista, pur aderendo a una concezione di opera d’arte totale, non fu costretto a muoversi in un contesto regolato da ordini, divieti e provvedimenti. Dal canto suo, Napoleone non accettava che artisti e intellettuali manifestassero pubblicamente dissenso nei suoi confronti. Non trasformò però la censura in repressione fisica, ma impose ai dissidenti l’allontanamento dai confini nazionali. Nonostante questo, nella Francia di Napoleone gli artisti furono liberi di scegliere i temi da affrontare.

Nel 1934, l’Unione Sovietica di Stalin mise nero su bianco che il realismo socialista “esige dall’artista una descrizione veritiera, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario”, precisando che “la veridicità e la concretezza storica della descrizione artistica della realtà devono coesistere con lo scopo del cambiamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo”. Nella Germania di Hitler, le restrizioni furono altrettanto drastiche. Joseph Goebbels, ministro per la Propaganda, stigmatizzava come “arte degenerata” qualunque espressione artistica non rispondesse ai canoni dettati dal regime, costringeva all’esilio centinaia di artisti, organizzava roghi di libri non graditi. Nel discorso in cui elogiò il rogo di libri del 10 maggio 1933, Goebbels affermò che “il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri”, che era giusto “gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato”. Nulla di simili avvenne nella Francia di Napoleone che, oltre a favorire le raccolte di sculture e dipinti, incoraggiò le collezioni di libri antichi, arazzi, stoffe, porcellane e qualunque altro tipo di manufatto testimoniasse sensibilità e impegno intellettuale.


Con la sua politica culturale, Napoleone creò i presupposti perché la Francia approdasse al Novecento come una straordinaria fucina di creatività.  Napoleone fu il primo dittatore moderno, sostenuto da un forte consenso popolare. Nessuno prima di lui aveva progettato un uso così determinato e diffuso su larga scala dell’arte figurativa propagandistica e autocelebrativa.

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