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lunedì 27 febbraio 2012

barthes guarda bart

Barthes ha affrontato il tema della decifrazione del modo in cui le immagini si “codificano”, come si caricano di significato in un saggio del 1964 intitolato Retorica dell’immagine, in cui esamina i modi in cui un’immagine funziona sia a livello di “connotazione” sia a livello di “denotazione”. Le immagini sembrano significati iconici o motivati (significato denotativo), tuttavia «non si incontra mai un’immagine letterale allo stato puro», nessun disegno o nessuna fotografia ci giunge se non come parte di un messaggio, come parte del tentativo di qualcuno di comunicare qualcosa (significato connotativo), come messaggio culturale specifico sovrimposto al significato denotativo dell’immagine. La fotografia sembra «un messaggio senza codice», un tipo di significante naturale, non mediato ma «gli interventi dell’uomo sulla fotografia (inquadratura, distanza, luce, flou, ecc.) appartengono effettivamente tutti al piano della connotazione», questi tratti sono parte della costruziosità della fotografia. La qualità del messaggio fotografico è la sua capacità di azzittire la sua stessa codifica, di farci dimenticare che è stata costruita (mito del “naturale” fotografico). Queste idee si applicano analogamente alle immagini che vediamo in televisione, immagini che sono sostanzialmente manipolate, costruite, fabbricate, ma che tendiamo a ricevere molto passivamente come indici affidabili della natura e della realtà.
La grande energia dei Simpson è prodotta proprio dal conflitto tra il riconoscimento della qualità molto mediata e non realistica dei significanti e la comprensione che, ciò nonostante, essi assomigliano a una realtà conoscibile. Un disegno come un personaggio dei Simpson  mette in mostra una grande misura di convenzionalizzazione: sono disegni altamente stilizzati, nondimeno li riconosciamo come rappresentazioni di certi aspetti della società. Il fatto che i personaggi con tutta evidenza non sono proprio umani aumenta la loro capacità di funzionare come significanti satirici, permettendo di avventurarsi nel regno del ridicolo molto più profondamente di quanto potrebbero fare attori umani o disegni realistici, guadagnando una libertà d’azione illimitata in ciò che possono descrivere o suggerire conservando tuttavia la capacità di esprimere riferimenti sempre in primissimo piano. Ricordando costantemente che i personaggi non sono reali, aumenta il grado in cui noi li recepiamo come significanti con la capacità di rappresentare le cose. Volando per così dire sotto il radar delle nostre menti razionali, lo show ci spinge con calma, come un virus, ad abbassare le nostre difese intellettuali, e poi ci infetta con idee satiriche e sovversive.
Barthes in S/Z, pubblicato nel 1970, definisce come “classico” un testo chiuso alle possibilità della connotazione. Un testo di tal genere funziona su un livello puramente denotativo, e il lettore non viene mai incoraggiato a speculare oltre ciò che il narratore o un’altra voce autorale affermano. Ciò implica una specie di legge o religione della lettura “corretta”: il lettore non può “scrivere” il testo né può aggiungervi cose sostanziali. Barthes definisce questi testi “leggibili”. All’opposto troviamo il testo “scrivibile” o “plurale”, un testo che incoraggia la libera interrelazione sia da parte dello scrittore sia da parte del lettore, che è ricco di connotazioni, che è di fatto aperto in relazione al suo significato ultimo: «I nomi si chiamano, si raccolgono e il loro raggrupparsi vuole a sua volta un nuovo nome: nomino, denomino, rinomino: così passa il testo: è un nominare in atto, un’approssimazione instancabile, un lavoro metonimico. La lettura non consiste nel fermare il succedersi dei sistemi, nel fondare una verità, una legalità nel testo e nel provocare, di conseguenza, gli “errori” del lettore: passo, attraverso, articolo, scateno, non conto. L’omissione dei sensi non è una materia di scuse, infelice difetto di esecuzione; è un valore affermativo, un modo di affermare l’irresponsabilità del testo, il pluralismo dei sistemi: proprio perché ometto posso dire che leggo». Propongo di considerare I Simpson esattamente un testo “irresponsabile”, ricco in associazioni e connotazioni e perversamente avverso a veder precisate tali connotazioni. La ricchezza di un testo dei Simpson è l’apertura alla connotazione, all’andamento di significanti galleggianti che si raggruppano e si disperdono apparentemente a caso: «Questa citazione fuggevole, questo modo surrettizio e discontinuo di porre un tema, quest’alternanza del flusso e dell’esplosione, definiscono l’andamento della connotazione; i semi sembrano vagare liberamente, formare una galassia di minute informazioni in cui non si può leggere nessun ordine privilegiato». In un testo “classico” i significati alla fine si raggruppano in “senso”, nei Simpson questo raggruppamento viene deferito indefinitamente. L’occhio del leggibile pretende un’uniformità finale, ci porta in una direzione molto prevedibile e culmina con un senso soddisfacente di risoluzione. Ma I Simpson, spostando in prima fila i suoi significanti e dislocandoli allegramente da significati stabili e prevedibili, permette un tipo di lettura più libero, più ricco.

(da David L.G. Arnold, “E il resto si scrive da solo”: Roland Barthes guarda I Simpson, in I Simpson e la filosofia)


1 interventi:

Paolopaoli ha detto...

Vittime di immagini

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