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martedì 10 maggio 2011

bah! la realtà!

Con quel naso a becco lo Zanardi di Andrea Pazienza ricorda i personaggi delle fiabe grottesche e dei racconti popolari. Ha lo stesso naso fuori misura di certe maschere della commedia dell’arte e del loro fratello più giovane: Pinocchio. E la somiglianza non è casuale, perché con tutti questi personaggi Zanardi condivide il senso di rivolta alla norma che si esprime in una tensione corporea volta a rompere gli argini del contegno. Nasi che sporgono e si protendono oltre il corpo. Nasi che potrebbero da un momento all’altro staccarsi e rendersi indipendenti come avviene nel racconto di Gogol’. Nasi oggetto di ludibrio come nelle maschere dell’infamia usate fino all’Ottocento per punire chi turbava l’ordine pubblico. E ancora nasi fallici sulle maschere indossate dai feroci drughi di Arancia Meccanica.
Il tema del naso, come ha spiegato Bachtin, è un motivo che si ritrova nel linguaggio e nell’arte popolare di diverse epoche e culture. La sua caratteristica universale è quella di mettere in discussione i confini tra “dentro” e “fuori” e quindi di prendersi gioco del canone del corpo «perfettamente dato, formato, rigorosamente delimitato, chiuso, mostrato dall’esterno, omogeneo ed espressivo della sua individualità» (L’opera di Rabelais e la cultura popolare).
Zanardi evoca perciò un immaginario ben preciso legato a motivi grotteschi, triviali, osceni e contrari alla morale, che animavano i racconti popolari, le farse carnevalesche, e che sono sopravvissuti nelle fiabe per bambini. Da questo humus nasce infatti Pinocchio, il cui naso è definito “impertinente” dallo studioso Dieter Richter, o anche «memoria del corpo non finito che il bambino piccolo reca sempre con sé come godimento onirico e come incubo» (Pinocchio o del romanzo d’infanzia). Anche Zanardi ha un corpo non finito e nei momenti di maggior tensione ed efferatezza Pazienza lo trasforma facilmente in un uccello rapace. Predatore, pipistrello, mantide religiosa. Una mutevolezza che è la conseguenza evidente di un vitalismo che alimenta l’azione e si scontra con la morale.
Parlando di parentela con il carnevale, lo scherzo è la tipica modalità con cui Zanardi esprime il proprio estro diabolico: fottere (letteralmente) e sfottere il prossimo diventa una professione di vita. Le peggiori efferatezze sono del tutto gratuite e totalmente deliberate, e nell’attuarle Zanardi esibisce un controllo totale e perciò disumano.
Naturale incanalare la già abnorme e del tutto improbabile vena del personaggio lungo le strade del sogno, dove l’approdo alla dimensione fantastica è inevitabile per chi si prende gioco di tutto (come quando Zanardi esclama «Bah! La realtà!» accendendosi una paglia in pieno Medioevo).
E qui, nel Medioevo, avviene una sorta di riconoscimento simile a quello che ha luogo tra Zio Paperone e il suo antesignano Scrooge in Paperino e il Natale sul Monte Orso di Carl Barks. O come quello che Collodi inserisce nelle vicende di Pinocchio quando Pulcinella e Arlecchino riconoscono la marionetta come proprio fratello. Zanardi svela la sua parentela con il mondo antico dove ha ancora senso esprimere l’attitudine maschile al combattimento e alla guerra. E in veste di cavaliere già l’aveva immortalato Pazienza nel 1984 quando celebrò sull’imballo della fontana di Piazza del Popolo a Cesena la figura di Zanardi inarcato sulla groppa di un destriero, nell’atto di bere fino all’ultima goccia il succo della vita da una conchiglia di tritone.

(da Francesca Faruolo e Andrea Plazzi, “Bah! La realtà!”, in Andrea Pazienza, Zanardi 2. 1984-1988)

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