La filosofa Martha Nussbaum rileva la “fragilità del bene”, l’intrinseca debolezza della cosiddetta “vita buona”, sempre assediata dall’incertezza della sorte e dalla prepotenza di fattori extrarazionali. Se l’autrice americana riflette sulla costitutiva caducità del bene, il film Elephant di Gus Van Sant argomenta in margine a quella che un’altra grande filosofa, Hannah Arendt, chiama la “banalità del male”, alla sua inesplicabilità. Illusorio è pensare che possa realizzarsi compiutamente la “vita buona” – troppo numerosi e condizionanti sono gli impedimenti che ad essa oppongono la fortuna e le passioni. Ma non meno infondato è credere di poter individuare l’origine del male, di poterlo distinguere infallibilmente da altri moventi, ritenere che esso sia riconoscibile con sicurezza, e dunque che si possa isolarlo e infine estrometterlo dalla vita sociale. Gus Van Sant comunica l’”altra faccia” dell’analisi condotta da Martha Nussbaum: la descrizione di una condizione umana costitutivamente fragile, perché sempre ineluttabilmente esposta all’emergere di qualcosa che può dissolvere qualunque ideale di “vita buona”. Senza “ragioni” e senza “motivi”. Il male come semplice controfaccia del bene.
I due giovani protagonisti del film sono ritratti nel loro essere perfettamente “normali”, accomunati negli abiti e nelle consuetudini di vita a quei coetanei dei quali essi diventeranno i carnefici, privi di ogni inclinazione omicida e di ogni fanatismo ideologico, pressoché indistinguibili dagli altri giovani.
Pare che Van Sant abbia tratto il titolo del film da un apologo buddhista: alcuni ciechi cercano di immaginare quale sia la forma di un elefante, descrivendo solo la parte che ognuno di loro può toccare. Nel confrontarci col male, con questo pachiderma enorme, ciascuno di noi si comporta come uno di quei ciechi, crede di poterlo raffigurare soltanto perché ne ha conosciuto una singola parte o un aspetto circoscritto.
(da Umberto Curi, Un filosofo al cinema)
La stessa leggenda indiana dei sei uomini ciechi e dell'elefante è ripresa anche in una poesia del XIX secolo di John Godfrey Saxe:
It was six men of Indostan
To learning much inclined,
Who went to see the Elephant
(Though all of them were blind),
That each by observation
Might satisfy his mind.
[...]
And so these men of Indostan
Disputed loud and long,
Each in his own opinion
Exceeding stiff and strong,
Though each was partly in the right,
And all were in the wrong!
MORAL.
So oft in theologic wars,
The disputants, I ween,
Rail on in utter ignorance
Of what each other mean,
And prate about an Elephant
Not one of them has seen!
E anche in un albo di Hulk – negli USA Red Hulk 16 (dicembre 2009), in Italia Devil & Hulk 163 (luglio 2010) – viene raccontata e illustrata questa favola: «Un re chiese a sei ciechi di esaminare un animale di cui non sapevano niente, un elefante. Non erano stupidi, erano uomini brillanti. Ciascuno di loro toccò una parte della bestia. Quando ebbero finito, furono chiamati dal re per spiegare cosa fosse un elefante. Non c'era accordo. La discussione fu così accesa che iniziarono a lottare tra loro. Si sarebbero ammazzati se il re non fosse intervenuto. Il re aveva dimostrato la sua teoria. Chiunque vede le cose in un solo modo, non conoscerà mai tutta la verità».
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