Oltre che pittore, scrittore, poeta e critico, John Ruskin fu tra l'altro economista e riformatore sociale, che contestava l'economia politica classica per la disumanità del capitalismo industriale ottocentesco: egli propone una critica indignata della modernità, del razionalismo trionfante, dell'illusione di un equilibrio ormai raggiunto e definitivo, della riduzione della società da organismo vivente e solidale a macchina efficiente ma inanimata, del prevalere del valore di scambio sul valore d'uso.
Nel saggio Economia politica dell'arte (1857), Ruskin sostiene che l'economia, come da sua etimologia, dovrebbe funzionare come un'equilibrata gestione domestica, distribuendo le sue cure «tra i due grandi poli dell'utilità e della magnificenza: nella destra, cibo e lino, per vivere e per vestire; nella sinistra, la porpora e il lavoro di ricamo, per l'onore e la bellezza». Inoltre prospetta un governo che abbia «i suoi soldati del vomere non meno che i suoi soldati della spada», e che distribuisca «all'industria le sue medaglie d'oro – d'oro come lo splendore del raccolto – più orgogliosamente di quanto non elargisca oggi le sue croci d'onore di bronzo, brunite dal color cremisi del sangue».
Uno spirito antimodernista e antimilitarista che si ritrova anche nella prima conferenza – Sui tesori dei re – di Sesamo e gigli (1865), in cui suggerisce che «si debbano elevare i nostri contadini ad un esercizio di libro anziché di baionetta» e «organizzare, manovrare, mantenere con paga e buoni generali, eserciti di pensatori, invece di eserciti di assassini». La modernità è caratterizzata da un disprezzo della letteratura («se un uomo spende prodigalmente per la sua biblioteca, lo dite matto, un bibliomane»), della scienza, dell'arte («non vi curate assolutamente più dei quadri che dei manifesti che appiccicate alle vostre muraglie»), della natura («non vi è rimasta particella di terra inglese, nella quale non abbiate inoculata la cenere di carbone») e della compassione («avete uomini per il cui lavoro, per la cui forza, per la cui vita, per la cui morte, voi vivete e non li ringraziate mai»), da una condizione insomma così misera cui solo l'educazione del popolo può porre rimedio. Senza trascurare, ovviamente e come ricorda Dreca, le donne, che vanno educate per essere non solamente massaie ma regine, non «come se fossero solo destinate a servire come ninnoli di puro ornamento» ma affinché posseggano la saggezza e la virtù capaci di redimere la catastrofe «causata sempre dalla follia o dalla colpa di un uomo», perché «l'armatura dell'anima non cinge mai bene il cuore, se la mano di una donna non l'ha affibbiata».
Per Ruskin sembra necessaria una totale trasvalutazione degli ideali moderni, come è chiaramente esplicitato nei saggi raccolti in Fino all'ultimo (1860-62), nel quarto dei quali l'autore procede ad una vera e propria ridefinizione di alcuni dei concetti tipici dell'economia. Il vero valore, per esempio, quello d'uso (usefulness) – che «si addice a degli articoli di ferro, ma non ad altri, e ad alcuni articoli di argento, ma non ad altri. Si addice agli aratri, ma non alle baionette; e alle forchette, ma non alla filigrana» –, significa, dal latino valere, star bene, star forte, essere valido, valevole e profittevole, e contribuire alla vita, e non va perciò confuso con il prezzo, il valore di scambio, che non è mai l'onorabile valutazione dell'intelletto e del sentimento inclusi in un lavoro di buona qualità. La ricchezza, inoltre, non dipende dall'avere ma dal sapere o dal potere, essendo il possesso di articoli utili e di cose di valore da parte di persona che valga, che li possa e li sappia usare: così, «molti i quali comunemente passano per ricchi, non sono in realtà più ricchi delle serrature delle loro casseforti, essendo per loro natura e per tutta l'eternità incapaci di ricchezza».
Infine, «un capitale che non produce altro che capitale, non è che una radice che produce radice; è bulbo che dà altro bulbo, mai un tulipano; seme che produce seme e mai pane. Il tipo generico, migliore e più semplice, di capitale è un ben fatto vomere. Ora, se quel vomere non facesse altro che generare altri vomeri, a mo' di polipi, per quanto il gran mucchio di polipi-vomeri risplendesse al sole, esso avrebbe perduto la sua funzione di capitale. Vero capitale diventa per altra specie di splendore, quando lo si vede luccicar nel solco; e ne sia diminuita, anziché accresciuta, la sostanza, per nobile logorio. E il vero problema non è "quanti aratri hai?" ma "dove sono i tuoi solchi? Quale sostanza darà [questo capitale] che contribuisca alla vita?"». Il mito di Issione «legato alla ruota – ruota di fuoco, ruota dentata, che si volge senza cessa, nell'aria» – rappresenta bene il moderno modello «dell'umano affaticarsi quando è egoistico e senza frutto, ruota che non ha in sé animo o spirito, ma è solo girata dal Caso», ma se la conservazione e l'ammasso non si realizzano nella distribuzione, se il coronamento della produzione non è il consumo, allora «essa si riduce a null'altro che muffa e cibo di topi e di vermi».
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