Nel corso del suo seminario (2002) dedicato alla lettura incrociata di Robinson Crusoe e Martin Heidegger, Jacques Derrida si chiede: «Che cos’è un isola? Non c’è mondo, ci sono solo isole». Come se un pensiero dell’isola ci portasse a ripensare il mondo, a mettere in discussione l’idea che c’è un mondo, là fuori: un mondo unico, vero, stabile, di cui facciamo esperienza.
In Lost l’isola è essa stessa un personaggio e ti sta sempre in agguato dietro le spalle. Può anche essere vista come una metafora di Dio – o, più radicalmente, come Dio essa stessa, sulla scia dell’idea elaborata dalla filosofia di Spinoza secondo cui Dio e Natura si identificano, e ogni cosa esistente non è altro che un modo, una manifestazione di Dio. Solo alla fine scopriremo che cosa o chi è, in verità, l’isola. Uno spazio simile al Lost World di Jurassic Park o all’isola incantata di Prospero nella Tempesta di Shakespeare. Una nuova Atlantide. Un artefatto tecnologico di origine umana o extraterrestre. Il terreno per un insolito gioco di ruolo. Un Valis (acronimo di Vaste Active Living Intelligent System – Vasto Sistema di Intelligenza Viva e Attiva), come quello creato da Philip K. Dick. Una forma singolarissima di essere vivente simile all’isola di Krakoa che compare per la prima volta nell’universo della Marvel Comics in Giant-Size X-Men #1.
Ma è come se ogni domanda incontrata nell’orbita di Lost fosse doppia. Come se portasse con sé l’enigma di una questione filosofica più essenziale che va al di là delle risposte che la serie stessa, con il suo procedere, dà.
L’isola si gioca attorno a un doppio movimento: separazione e origine. Separazione dal continente, per le isole continentali. Origine dal fondo del mare, per le isole oceaniche. «Le isole continentali» scrive Deleuze «sono isole accidentali, derivate: sono separate da un continente, nate da una disarticolazione, da un’erosione, da una frattura, sopravvivono all’inabissamento di ciò che le tratteneva. Le isole oceaniche sono delle isole originarie, essenziali: alcune emergono lentamente, altre invece spariscono e poi riappaiono» (L’isola deserta e altri scritti). Lo sparire è costitutivo delle isole quanto il loro apparire, è parte della loro instabile natura, come mostra bene Jean-Luc Nancy: «Di quando in quando un’altra specie di onda si immobilizza in superficie, ed è un’isola scaturita da un altro sollevamento, da un altro corrugamento delle profondità. Di quando in quando, allo stesso modo, un’isola sparisce sotto il mare, ripresa da un altro movimento del fondo» (La nascita dei seni – l’isola viene posta in relazione, da Nancy, con il seno, a sua volta in relazione con l’essere, visto che il francese sein, “seno”, è omografo del tedesco Sein, “Essere”. Poche righe dopo, Nancy evoca queste parole di Lacan tratte dal Seminario VIII: «L’estremità del seno è anch’essa in una posizione di isolamento su uno sfondo, ed è perciò in una posizione di esclusione rispetto a quel rapporto profondo con la madre che è quello del nutrimento. Pensate a quelle isole di cui vedete la pianta sulle carte marittime: non è rappresentato in nessun modo ciò che c’è sull’isola, ma solamente il contorno. Ebbene, è la stessa cosa per gli oggetti del desiderio in tutta la loro generalità»).
Il doppio movimento che anima le isole contamina anche i soggetti che alle isole si rapportano, nella forma di una separazione dal mondo e di un nuovo inizio. «Lo slancio che spinge l’uomo verso le isole riprende il doppio movimento che produce le isole stesse. Sognare le isole, non importa se con angoscia o con gioia, significa sognare di separarsi, di essere già separati, lontano dai continenti, di essere soli e perduti – ovvero significa sognare di ripartire da zero, di ricreare, di ricominciare», precisa Deleuze.
(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)
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